Siamo tutti una stessa gente

Scritto da:  | 29 Gennaio 2011 | 11 Commenti | Categoria: Zibaldone

Il dodici dicembre di quest’anno era una domenica qualunque. A Milano faceva un freddo pungente, sebbene senza i picchi dei momenti peggiori. Eppure per nove scacchisti non fu una giornata come tutte le altre…

…stavano per andare in carcere, a Bollate. Si trattava di andare a sfidare alcuni ragazzi che avevano seguito un corso grazie agli istruttori dell’Accademia di Scacchi di Milano: Elia Mariano, Andrea Bracci e Francesco Gervasio.

Questa non era una manifestazione estemporanea e non era neppure un’iniziativa rapsodica, sebbene pur sempre importante. L’Accademia, infatti, ha stretto una collaborazione con l’organizzazione carceraria fin dal 2008 e si va consolidando nel tempo. Tutto iniziò da una richiesta di un giudice in pensione, Franco Cecconi, ex socio dell’Accademia. Egli faceva volontariato nel carcere tenendo lo sportello giuridico. Egli lavorava proprio nelle carceri e aveva sostenuto, non senza qualche fondamento, che se per mestiere aveva fatto di tutto per tenere i delinquenti al fresco, aveva, adesso, l’esigenza di fare qualcosa di buono per loro e, magari, di tirarli fuori.

Ritornando a quel pomeriggio uggioso di quel dodici dicembre, mi ricordo vividamente come ci fossero alcuni scacchisti che, come me d’altronde, non avevano mai visto un carcere se non nei classici film dai quali, com’è naturale, è del tutto impossibile farsi un’idea di quella che deve essere la vita dentro una prigione. Nell’aria c’era un po’ di emozione non senza una certa ansietà. La prigione è un ambiente marginale, come gli obitori, i cimiteri, i sanatori, gli ospedali nei quali si entra in una dimensione atemporale, parallela. Sembra di accedere in altri mondi possibili diversi dal nostro. E in me nascevano spontanee le domande: chi avrò di fronte a me? Cosa avrà fatto? Si meriterà il trattamento riservatogli? Tutte domande legittime ma che dovevano rimanere ancora per qualche minuto sospese, lasciate lì, in attesa di risposta.

Non ero mai stato in un carcere e, forse per questo, quest’esperienza mi ha mostrato qualcosa che vale la pena di raccontare per intero. Innanzi tutto, il carcere di Bollate al suo apparire sembra un palazzo normale, qualunque. O meglio, uno stabile di un quartiere popolare in pieno stile funzionalista anni sessanta. Un palazzone di cemento armato grigio dalle dimensioni ragguardevoli. Ciascuna finestra era un blocco a sé e questo si evinceva dalla squadratura tra un vano e l’altro. Tanti parallelepipedi sovrapposti, come un alveare dalle celle rettangolari. A primo impatto lasciava un po’ tristi. Entrammo nella prima guardiola, l’ingresso al recinto esterno. Dovemmo dare i nostri documenti. Non si entra in un carcere senza aver precedentemente chiesto tutti i permessi e senza aver  dato un esaustivo elenco di tutto ciò che si deve portare. Non fummo perquisiti e, esaurito l’appello, ci condussero nel primo edificio, il primo dall’ingresso. Tra la guardiola e lo stabile c’erano duecento metri circa di strada rivestita di macadam grigio e un po’ vecchiotto con sassolini che s’infilavano tra le fessure delle scarpe. Tutto, quel giorno, aveva il colore del fumo pallido. Una volta entrati, fummo nuovamente controllati. Questa volta, verificarono tutto ciò che avevamo portato e se non ci fosse nessun oggetto nascosto tra quelle buste che contenevano qualche vivanda e le scacchiere. In carcere sono vietati i cellulari. Così si premurarono di ricordarcelo. I secondini erano persone tranquille e tolleranti ma perfettamente ligi a tutta la burocrazia. Esaurita la pratica, fummo condotti in un terzo edificio. Per arrivarvi, dovevamo oltrepassare un recinto fatto di cemento. Un muro cieco, alto almeno cinque metri di colore grigio, manco a dirlo, con filo spinato alla sommità e luci che davano sia dalla nostra parte che dall’altra. Oltrepassammo una porta spessa cinque centimetri, d’acciaio e con una finestrella molto piccola ad un altezza di circa un metro e mezzo. Tutte le porte del carcere erano fatte allo stesso modo, con lo stesso spessore e con lo stesso colore. Finalmente, entrammo nello stabile nel quale dovevamo giocare. Mi guardavo intorno per cercare di rendermi conto della grandezza e non ci sono riuscito. Era molto grande ma i muri ciechi e le finestre basse non consentivano di avere una visione d’insieme ma solo una serie di particolari. La monotonia del corridoio era notevole, soprattutto se si pensa che era lungo almeno cinquecento metri. Ogni poco c’erano dei bracci che andavano in altre direzioni, tutti a novanta gradi rispetto al corridoio principale. Eravamo scortati, altrimenti non saremmo mai giunti a destinazione: in carcere non si va in giro da soli perché ci vuole sempre una scorta. Ogni cento metri, in questo corridoio infinito, stavano delle guardiole, talune vuote mentre altre con i secondini che chiacchieravano del più e del meno. Ho contato una decina di guardie carcerarie e almeno tre guardiole. Ciò che più mi colpì del posto erano tre aspetti: il soffitto era basso, massimo due metri e mezzo; la luce era artificiale comunque; c’erano solo ed esclusivamente uomini. Lentamente cercai di immaginarmi come dovesse essere la vita in quel luogo e quanto poco dovesse essere edificante. La donna non è solo una femmina, ma è anche un universo di emozioni e sentimenti umani che, in sua assenza, diventano impensabili. Giungemmo a quello che, ci dissero, era il teatro: una stanza di venti metri quadri ma dal soffitto molto alto, con dei tavoli e sedie di plastica, da bar, sui quali avremmo posizionato le scacchiere. Ci dissero che in quel luogo tenevano rappresentazioni. Il carcere di Bollate è uno di quelli buoni dove i detenuti vengono trattati umanamente.

Quando arrivammo non c’era ancora nessuno, così predisponemmo le scacchiere per giocare, mettemmo i libri portati per i “ragazzi” su un tavolo e facemmo lo stesso con le bibite.

Incominciarono ad arrivare e, dopo qualche minuto di studio reciproco, ci mettemmo a giocare. Ciò che mi colpì più di tutto dei nostri avversari era la loro dignità. Sembravano consapevoli della loro colpa ma non per questo apparivano in soggezione. E si vedeva che erano contenti di giocare con noi: per loro era un’occasione per avere contatto con quel mondo esterno che possono vedere solo due volte al mese. Dopo alcune partite di riscaldamento, iniziammo il torneo vero e proprio: due partite, una col bianco e una col nero. Il mio avversario giocò bene, ma si ritrovò ad avere la peggio. Aveva trent’anni ed era albanese. Mi domandai come si doveva sentire una persona di trent’anni, pochi più di me, lontano da casa sua e, per di più, in carcere. Gli albanesi sono uomini, fino a prova contraria. D’altra parte, se era lì qualcosa doveva aver fatto e più di una volta stavo per chiedergli cosa, ma il mio senso del buon gusto mi fece desistere.

Concludemmo la manifestazione con un brindisi generale e con tutta l’allegria disponibile.

Ritornato alla realtà, non ho potuto fare a meno di domandarmi quanti che parlano di prigioni abbiano anche solo una pallida idea dei sentimenti che si possono provare una volta dentro. Forse, dovremmo tutti entrare almeno una volta in un carcere, forse si risparmierebbero tante stupidaggini.

Ma nella malinconia dei miei sentimenti fui contento di aver giocato con quei ragazzi al più bel gioco che l’essere umano abbia mai inventato, gli scacchi. Una sfida senza sangue, una guerra senza odio, l’unico scontro che invece di dividere unisce. Un gioco capace di far comunicare due cervelli senza bisogno di parole, discussioni o altro, un gioco fantastico che ha il più bel motto del mondo, gens una sumus: siamo tutti una stessa gente.

avatar Scritto da: Giangiuseppe Pili (Qui gli altri suoi articoli)


11 Commenti a Siamo tutti una stessa gente

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    Luca Monti 29 Gennaio 2011 at 11:42

    Una esperienza profonda e toccante,ricca d’insegnamenti.Grazie per
    avercela raccontata.

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    Marco 29 Gennaio 2011 at 13:45

    Grazie, Giangiuseppe. Ero uno dei 9 in trasferta al carcere ed hai saputo limpidamente trasmettere anche quelle che sono state le mie emozioni e sensazioni. Rimane un’esperienza umana molto profonda, che sono stato felice di aver provato.

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      Giangiuseppe Pili 31 Gennaio 2011 at 21:00

      Mi fa piacere esser riuscito a trasmettere sentimenti comuni e ti ringrazio per l’apprezzamento. Anche io sono stato molto felice di aver partecipato perché, se l’umanità è una parola con un signifcato, allora bisogna averla anche con chi, sbagliando, sembra non meritarsela. Ma l’umanità è così: si dà a tutti con la stessa medesima gioia e intensità!

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    massimiliano 29 Gennaio 2011 at 19:52

    Complimenti. Grazie.

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    Marramaquìs 29 Gennaio 2011 at 23:47

    Bravissimo Pili.
    Io vorrei che i luoghi dell’espiazione e del dolore, delle sofferenze e dell’emarginazione, di quella, insomma, che tu stesso hai chiamato “marginalità” (carceri, sanatori, ospedali ecc…;), avessero uno spazio tutt’altro che marginale nelle nostre coscienze.
    Dovremmo quindi fortemente auspicare, per tutti noi ma soprattutto per i più giovani, qualche ora in meno del nostro tempo da trascorrere nei luoghi di divertimento o su internet (ma anche, perché no?, qualche ora in meno a scuola e persino sul lavoro) e qualche ora in più dedicata a esperienze di volontariato, com’ è stata anche la vostra, presso tutti gli “ambienti marginali”.
    Mi auguro di rileggerti presto. Grazie.

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      Giangiuseppe Pili 31 Gennaio 2011 at 21:03

      Sono concorde con il tuo pensiero. Fare esperienze di questo tipo, specie se vissute a livello individuale, aiuterebbe il progresso sociale in senso positivo: bisogna discutere di questi problemi e cercare di trovare una qualche soluzione. Il sistema carcerario in Italia in particolare (ma anche in altre nazioni europee purtroppo) è tremendo e sarebbe un impegno civile da assumere (ma troppo poco importante a livello di valuta politica -cioè di voti): quello di affrontare il sistema carcerario e ripensarlo per intero.

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    Uno a cui piace ogni tano giocare 31 Gennaio 2011 at 15:11

    Mi ha fatto piacere questo resoconto schietto e partecipe su questa esperienza di solidarietà attraverso gli scacchi. Dare valore ad una propria attività di svago con i contributi più diversi, ed arricchirsi giovandosene per nuove possibilità di comunicazione e conoscenza, umanizza e fa risaltare ancor di più un gioco dalle sfaccettatture complesse e ricche. Spero che iniziative simili si ripetano ed abbiano sempre più seguito. Grazie.

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      Giangiuseppe Pili 31 Gennaio 2011 at 21:05

      Il mio circolo è stato già molto sensibile in passato e sarà senz’altro ancora interessato in futuro. Io stesso sto giocando una partita per corrispondenza con un carcerato e so che ci sono anche altri circoli (ad esempio, quello di Frascati) che si occupano con serietà di organizzare eventi scacchistici-umanitari. Speriamo che presto ci sia ancora più attività anche da parte di altri circoli.
      Sono queste piccole cose che, in fin dei conti, nella loro totale gratuità, ci ricordano di quanto grande e bello sia essere uomini.

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    fabio 31 Gennaio 2011 at 16:03

    grazie per aver riportato questa esperienza.
    trovo molto giusto quello che dici:
    “Forse, dovremmo tutti entrare almeno una volta in un carcere, forse si risparmierebbero tante stupidaggini.”

    come quelle che mi tocca sentire (abito vicino ad un carcere) del tipo:
    “quasi quasi vengo lì, lì dentro si sta bene!”

    la realtà va conosciuta e questo vale per tutto non solo per il carcere
    ancora grazie

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      Giangiuseppe Pili 31 Gennaio 2011 at 21:08

      Anche io penso profondamente che sarebbe un’utile esperienza collettiva quella di visitare anche un “modesto carcere modello”. Purtroppo, si fa troppo presto a eludere questo genere di problemi in nome di una giustizia sociale che non guarda in faccia a nessuno: i carcerati sono persone “normali” etichettate come perverse e lo diventeranno nella misura in cui li tratteremo così. Ma, per fortuna, la ragione, sebbene usata di rado, fa parte del patrimonio collettivo che la natura ci ha dato: c’è sempre tempo per poter organizzare sistemi sociali migliori di questo!

  7. avatar
    Uno a cui piace ogni tanto giocare 31 Gennaio 2011 at 16:20

    Cito un piccolo contributo, senza nessuna pretesa esaustiva e senza una mia particolare applicazione scientifica ma sicuro che il breve articolo possa riscuotere l’interesse di qualcuno: “Gioco d’azzardo e carcere – Un’esperienza nel carcere di San Gimignano” di C.Fineschi (Scacchitalia n.10/2009).

    P.s. Così correggo anche il mio nick 😉

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