Uno dei miei più bei ricordi come giocatore per corrispondenza era l’attesa. Sì, avete capito bene, il lasso di tempo che occorreva tra la spedizione della mossa all’avversario e la sua risposta. Tempi postali, tempi lunghi. Tempi snervanti ma anche eccitanti. Soprattutto quando pensavo di essere in vantaggio e non vedevo l’ora che arrivasse il postino a portare la conferma della mia ipotesi. Tra l’altro il postino era una discreta postina e insomma due piccioni con una fava.
Durante il lungo momento dell’attesa era tutto un rimescolamento di dubbi e certezze che si alternavano in egual misura con la scacchiera sempre pronta per una ulteriore verifica. E allora giù a spostare pezzi e pedoni, a controllare e ricontrollare, a confermare il noto “Dubito, ergo sum” di quel filosofo che tempo addietro (molto tempo addietro) mi era sembrato il solito stralunato di quella banda di stralunati che non avevano un cavolo da fare tutto il giorno.
Le analisi erano belle. Elettrizzanti. Un cervello contro un altro cervello. Le continue, assillanti domande: se faccio questa mossa lui che farà e se fa questa io ribatto con quest’altra però un momento guadagno un pedone ma perdo l’iniziativa ma guarda in quale astuto tranello vorrebbe farmi cadere con chi crede di giocare ora gliela faccio vedere io sacrifico la qualità ma se poi lui mi fa un contro sacrificio no ricominciamo tutto daccapo mi sembrava di stare meglio e invece…
Roba da manicomio, mosse che andavano e venivano nella mente come una folla frettolosa in metropolitana. Che arrivavano quando meno te lo aspetti. Perfino durante un sonno agitato con i pezzi che saltavano impazziti sulle sessantaquattro caselle e al risveglio la sensazione di avere trovato la mossa giusta sfuggita alla perfida memoria.
Ma il momento più bello e angosciante era l’attesa. Alla fine confortata dall’”Abbandono” dell’avversario o sconfortata dalla certezza che l’”Abbandono” avrei dovuto scriverlo io.
Che attesa!
L’attesa
Uno dei miei più bei ricordi come giocatore per corrispondenza era l’attesa. Sì, avete capito bene, il lasso di tempo che occorreva tra la spedizione della mossa all’avversario e la sua risposta. Tempi postali, tempi lunghi. Tempi snervanti ma anche eccitanti. Soprattutto quando pensavo di essere in vantaggio e non vedevo l’ora che arrivasse il postino a portare la conferma della mia ipotesi. Tra l’altro il postino era una discreta postina e insomma due piccioni con una fava.
Durante il lungo momento dell’attesa era tutto un rimescolamento di dubbi e certezze che si alternavano in egual misura con la scacchiera sempre pronta per una ulteriore verifica. E allora giù a spostare pezzi e pedoni, a controllare e ricontrollare, a confermare il noto “Dubito, ergo sum” di quel filosofo che tempo addietro (molto tempo addietro) mi era sembrato il solito stralunato di quella banda di stralunati che non avevano un cavolo da fare tutto il giorno.
Le analisi erano belle. Elettrizzanti. Un cervello contro un altro cervello. Le continue, assillanti domande: se faccio questa mossa lui che farà e se fa questa io ribatto con quest’altra però un momento guadagno un pedone ma perdo l’iniziativa ma guarda in quale astuto tranello vorrebbe farmi cadere con chi crede di giocare ora gliela faccio vedere io sacrifico la qualità ma se poi lui mi fa un contro sacrificio no ricominciamo tutto daccapo mi sembrava di stare meglio e invece…
Roba da manicomio, mosse che andavano e venivano nella mente come una folla frettolosa in metropolitana. Che arrivavano quando meno te lo aspetti. Perfino durante un sonno agitato con i pezzi che saltavano impazziti sulle sessantaquattro caselle e al risveglio la sensazione di avere trovato la mossa giusta sfuggita alla perfida memoria.
Ma il momento più bello e angosciante era l’attesa. Alla fine confortata dall’”Abbandono” dell’avversario o sconfortata dalla certezza che l’”Abbandono” avrei dovuto scriverlo io.
Che attesa!
“Il peggio nel peggio è l’attesa del peggio”(Daniel Pennac).
…io sapevo che al peggio non c’è mai fine!! 😉
E’ stato per me un periodo molto bello.
….poi però arrivò il Silicio e di gran qualità.Cervello e Fosforo
ammainarono bandiera. 😥
In effetti io smisi di giocare per corrispondenza quasi subito. Però coloro che hanno continuato con l’apporto del silicio affermano di divertirsi ugualmente ed io ci credo. Ma non fa per me.
Mi allontano da quello ch’è il senso del bell’articolo, ma la questione dell’utilizzo dei programmi negli scacchi per corrispondenza mi affascina. Non praticando quella varietà del gioco, fatico a capire come ci si possa divertire se lo studio, la evoluzione della partita venga affidata interamente al Fritz d’occasione. Lo chiedo nella mia
grave e colpevole ignoranza sugli scacchi via lettera.
Non potevi scrivere meglio. L’attesa era quel naufragar che ci era dolce … Nel sonniveglia si elaboravano strategie o mosse mirabolanti, spesso sbagliate se controllate alla scacchiera la mattina. Oggi non è più possibile; però c’è ancora la soddisfazione, qualche volta, di dimostrare che il tuo amico di silicio ha ancora qualche falla (vedi l’effetto orizzonte). Ma è altra cosa rispetto ai tempi andati, hai ragione.
Diciamo che è diventato più un gioco da tecnici…:-)
Ho iniziato a giocare per corrispondenza nel 1963, quando avendo 11 anni non avevo nessuno con cui giocare nella mia città natale. Poi cambiata città sono passato da studente al gioco a Tavolino ma mai abbandonando le partite con le care cartoline, poi figli e lavoro mi hanno allontanato dagli scacchi in generale. Da un paio d’anni sto lentamente riprendendo e il vecchio gioco per corrispondenza/mail mi affascina ancora seppure ho verificato che qualcuno fa uso massiccio di programmi. Lo reputo una grande sfida e cerco di fare del mio meglio e mi diverto e imparo anche se perdo. I tempi delle partite “da lontano” consentono di fare analisi abbastanza approfondite e l’estetica del gioco si incrementa. Nella realtà dello scontro diretto face-to-face il fattore tempo, nervosismo e giornata storta hanno un ruolo determinante sull’esito finale; per corrispondenza molto meno: se non sei in vena lasci perdere e se parla un altro giorno.