Confessioni di una regina burocrate

Scritto da:  | 23 Dicembre 2009 | Un commento | Categoria: Racconti

Ricordate le “Memorie di un pedone progressista”? Noo?!? Fateci un salto allora, prima di continuare a leggere, perbacco! Lo stralcio che segue vuole un po’ riallacciarsi a quello, per fare luce sulla questione irrisolta: perché la Regina mangiò… ehm… mandò il Pedone nella scatola, se un sotteso gioco di sguardi tra i due effettivamente c’era stato?
Le “Confessioni” altro non sono che il contenuto non-rivelato di codeste motivazioni. Motivazioni che la Regina preferisce serbare per sè, insabbiandole nel profondo del proprio animo; preferisce insudiciare questo foglio.
Ma vi è anche dell’altro. Le lamentele di giustizia sociale del pedante-pedone, come sono state viste dalla nobiltà? Quest’ultima se ne lava completamente le mani oppure cerca di tenersi la coscienza pulita, indicando al Pedone la strada per improbabili scalate al successo? (Mi affiora alla mente questa frase: l’ascesa al successo è come la scala a pioli di un pollaio: lunga e piena di merda).
E ancora: il cuore dei nobili batte davvero soltanto per lo sfarzo oppure può aprirsi, trovare altri valori? E’ davvero blu il loro sangue?
Buona lettura

Grunt

Grunt2

Amo la mia leggerezza che mi sposta a lunghe file, in lungo e in largo, per le caselle di questa… scacchiera!
Sì, scacchiera, perché? Se a qualcuno non sta bene il nome sono fatti suoi; se qualcuno ha qualcosa da dire contro lo status quo attuale, che lotti pure per cambiare le cose. Tanto la sappiamo tutti la verità: è solo invidioso perché sta ai gradini bassi della gerarchia sociale. Non ha quel che ho io.
Cosa ho io? Tra le mura del mio castello, tante cose che non vi sto a dire, perché trattasi appunto di mia vita privata. Non vi riguarda.
Che cosa ho qui, sulla scacchiera? Beh, iniziamo col dire che sono guardata da tutti dal basso in alto, e non solo per la mia altezza, ma anche per un sano senso di timore e reverenza che tutti hanno nei miei confronti; quasi di soggezione direi.
Sì, perché fra tutti io sono senza dubbio il pezzo più potente (dopo mio marito, naturalmente, senza il quale non esisterebbe partita). Spesso col mio reggimento organizziamo azioni congiunte contro la casata dei Neri, e tali spedizioni hanno quasi sempre il centro nella mia persona. Se c’è da sacrificare qualcuno, questo qualcuno si trova sempre; in ogni caso, nella scatola non ci finisco certo io! (Salvo rari casi, in cui gli umani danno davvero prova di scemenza esemplare).
Io sono una dea in terra. Sono stata insignita della più grande libertà di movimento che si potesse chiedere su questo “quadrato della perfezione”.
Mani grosse, con soffice tatto, mi sollevano delicatamente; godono nel palparmi; mi spostano a mezz’aria e scelgono la casella su cui dimorarmi con sguardo fatalista: dove mi posano, io distruggo. Nell’atterraggio però la delicatezza viene meno: mi scagliano in picchiata, come a voler rimarcare l’effetto devastante di una mossa della sottoscritta. Con un colpetto il malcapitato che occupava la mia nuova casella viene steso e fatto ruzzolare con violenza nella scatola. Bye bye, plebeo.
Pensate a tutto ciò, alla summa del mio potere, e se non vi sembrerà abbastanza che tutto giri attorno a me, tenete pur presente che sono una donna (e non nascondo una certa soddisfazione nel farvi notare che tanto potere sia deposto nelle mani del sesso “debole”).
Sono l’unica donna dello schieramento, anzi l’unica donna della scacchiera, se non consideriamo la cretina Nera che sta dall’altra parte. (Oddio, che sguardo da svampita, e che brutta pettinatura!).
Come ho avuto tutto ciò? Mi è stato dato dalla mia altolocata condizione sociale. Mi distinsi già per i nobili natali, ma non solo; nella prima infanzia fui tormentata dal tarlo del buongusto nel vestire, da quelli del portamento e delle buone maniere, insegnatemi dal mio precettore personale il quale badò anche alla mia ottima istruzione. Coronamento – è proprio il caso di dirlo – di una giovinezza tutta fatta di queste agiatezze piacevoli ma impegnative è stato il matrimonio col Re Bianco: ora sono infatti Regina Bianca.
E voi, volete forse accusarmi di essere nata nobildonna? E affascinante, per giunta? Che colpa ne ho?! Avevo forse modo e motivo per rifiutare l’una cosa e l’altra? Vi ripeto, pedonacci Neri, foste voi in cima, non vi lamentereste; non perdereste del tempo a pensare a come si muovono i Cavalli, gli Alfieri o a come arrocca mio marito, ma preferireste darvi da fare per migliorare la vostra condizione.
Del resto – torno solo un attimo sulla questione, e poi chiudo – non è stata data pure a voi la possibilità di diventare “noi”? Vi basta arrivare al lato opposto della *scacchiera* (sì, scacchiera, si chiama così, e allora?); dopotutto che saranno mai 8 caselle? Vi faccio notare che partite dalla seconda, e già in fase di apertura vi è concesso di fare ben due passi, arrivando subito alla quarta: già a metà strada, senza troppa paura di essere fermati!
Ma voi vedete macchinazioni dappertutto, e continuerete certamente a pensare che ci sia un complotto contro i deboli; non accantonerete mai l’idea che siete considerati pezzi insignificanti, e si sacrifichi voi per venire al “dunque”, perché noi potenti abbiamo “fretta” di velocizzare il gioco. Beh, continuate a pensare a quel che volete, ma la verità è che se arrivate alla fine prendete le sembianze di un pezzo potente: una Regina, una Torre, quel che volete. E non si chiama “meritocrazia”, questa? Arrivi in fondo, diventi potente. Che ci vuole? Vi avrei dato io prova di quanto sia fattibile la cosa: basta essere caparbi, scaltri, astuti, determinati.
Ma, di nuovo, io non posso dimostrare niente, perché sono nata così, già potente: ricca, bella, giovane, seducente. Di fronte al vostro blaterare di egualitarismo, io vi ho appena sventolato sotto il naso il vessillo del riscatto, sul quale è scritta a chiare lettere una parola; una parola che giudica tutti, che interroga le coscienze e concede ricchi premi a quelle meritevoli: “meritocrazia”.
Vi chiederete allora dove stia il merito alla base del mio potere; beh… quello di aver sedotto il Re Bianco. In fin dei conti non è stata un’impresa da niente; ma non starò qui a parlare d’amore con voi, che non saprete nemmeno cosa sia.
Beh, oddio… A dirla tutta, poco fa penso di aver visto degli zampilli d’amore negli occhi di un Pedone Nero che stava qui proprio nella casella dove poggio ora i miei piedini: in G6.
Lo vedevo un po’ imbambolato quando passeggiavo qui attorno, aveva uno sguardo tra il riflessivo e il contemplatore; mi avvicinavo, e lui mi guardava con una tal faccia da ebete (se ve la mimassi, non smettereste di ridere!).
Così ho iniziato a pensare di piacergli un po’, e sulle prime non l’ho mangiato. Mi piaceva da morire essere guardata in quel modo; sarei stata lì a farmi contemplare per ore, ma come si dice in Occidente: “the show must go on”: avevo il mio bel gironzolare qua e là sulla scacchiera, in parti molto più “vive” di gioco; e poi, ho anche dei doveri. Non possiamo perdere la battaglia per tempo a causa di uno stupidotto che mi fissa.
Però, ragazzi, che occhi, che tipo romantico!
Dicevo: inizialmente ho preferito non mangiarlo: un po’ perché mi dava quelle certezze di cui avevo bisogno (di cui ogni donna ha bisogno!), un po’ perché… sì, anche lui piaceva a me. E così la prima volta ho fatto una mossa un po’ dettata dal sentimento: anziché mandarlo fuori dal gioco, nella tanto nominata e temuta “scatola”, gli sono passata a fianco per fargli annusare i miei capelli, che emanavano un buon odore di miele e vaniglia. L’ho rivisto una seconda volta tre turni addietro; stavolta mi ero decisa a scaraventarlo nell’aldilà, ma alla fine ho nuovamente desistito, preferendo mangiare un suo compagno. Sì, sebbene lui fosse in una posizione molto più fastidiosa per il mio esercito, io, anziché lui, ho mangiato il suo compagno. Proprio pochi minuti fa.
Ma lo ho pagato caro questo mio comportamento emotivo. Queste due mosse ambigue che gli hanno salvato la vita la mia casata non le ha prese con leggerezza, tanto che ho dovuto rendere conto al mio signore, il Re Bianco.
E’ stato terribile. Mi sono vista addosso tutti gli occhi dei parenti, della corte, di tutto il reggimento Bianco e di parte di quello Nero. Il primo mi guardava schifato, inorridito; mi sentivo addosso il terribile appellativo di traditrice della causa. Gli sguardi dei Neri invece erano tra il meravigliato e il depistato: si saranno arrovellati chissà per quanto tempo per decifrare quelle mie due mosse “particolari”. Sì, perché nel gioco degli scacchi la vera natura di una mossa spesso non si esplicita sul momento ma si rivela in tutta la sua pericolosità in un drammatico posticipo che rende il tutto più letale. Avete presente il cavallo di Troia che gli Achei regalarono ai Troiani, dalla cui pancia, di notte, uscirono migliaia di soldati che col favore delle tenebre misero a ferro e fuoco la città nemica? Ecco: i Neri forse avevano paura che quelle due mosse un po’ all’acqua di rose nascondessero tra i petali spine velenose.
Ad ogni modo, l’accalcamento di tutti quegli sguardi, di una fazione e dell’altra, che mi seguivano nelle lunghe passeggiate, e che con forza ancora maggiore mi tormentavano durante stazionamenti un po’ più lunghetti, producevano in me un forte senso di estraniamento.
Forse tutto era soltanto nella mia testa, ma ho iniziato perfino a percepire un ronzio che mi risuonava negli orecchi, come un bisbigliare che si faceva sempre più forte. Sentivo che tutti i pezzi mi additavano e parlavano di me. Una strana e brutta sensazione.
Ma lui, lui solo, quel pedone, mi guardava con occhi più sognanti di prima; aveva capito di essere al centro di un gioco di attenzioni che lo riguardava. Che i Bianchi avessero trionfato e dato scacco matto al Re Nero, o viceversa, a lui non importava. A lui importava solo di me.
Ed è stato faticoso fare quel che ho dovuto fare. Convocata dal mio Re, mi sono dovuta allontanare da lui, e, sotto interrogatorio, ho dovuto inventare panzane enormi per coprirlo. Ho provato un po’ a giustificarmi con delle sviste, ma alla fine ho dovuto rendere conto del mio comportamento, scusandomi e giurando fedeltà alla causa dei Bianchi, promettendo inoltre di mangiarlo alla prossima occasione.
E infatti eccomi qua, ad occupare quella che era la sua casella con le lacrime agli occhi. A pensare, ad arrovellarmi nel dubbio di come sarebbe stato farsi affondare ancora quello sguardo pieno di sincerità negli occhi; di come sarebbe stato farmi inarcare la schiena contro la parete di una Torre, farmi spostare di lato i capelli ed essere baciata sulla riva di un fiume: quel fiumiciattolo che lui, nel perimetro artificiale di questa regione lignea, avrebbe saputo trovare. Avrebbe creato per me le stelle, sotto un cielo che non c’è.

avatar Scritto da: La Redazione di SoloScacchi (Qui gli altri suoi articoli)


Un Commento a Confessioni di una regina burocrate

  1. avatar
    Martin Eden 23 Dicembre 2009 at 09:54

    Da segnalare il Blog dell’Autore di questo bel racconto: “La Stanza di Grunt” Vi troverete racconti, fantasia, spunti narrativi e tanto altro!

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