La casa a scacchi

Scritto da:  | 28 Settembre 2012 | 16 Commenti | Categoria: Racconti
Gli scacchi sono molto di più di un gioco, a volte sono un pretesto per scrivere  di cose che ci stanno a cuore, tra finzione e storia fino a che tutto non si amalgama fino a sembrare ricordo reale

Adele aveva lasciato Uscio da bambina, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando suo padre Candido decise di trasferire tutta la famiglia a Torino, senza alcun preavviso, perché là avrebbe trovato lavoro. Sua mamma Dalia seppe di quel viaggio solo il giorno precedente, come le avrebbe confidato molti anni dopo, spiegandole che così si comportavano all’epoca gli uomini forti e decisi come suo padre.

Non era ancora giorno quando scesero verso la costa, a Recco, da dove sarebbero partiti con la corriera. Sua madre aveva salutato tra le lacrime le vicine di casa, che da tempo ormai erano diventate anche amiche e parenti – visto che i suoi cari se li era portati via l’odio insensato di quegli anni -, poi aveva seguito suo marito. Mamma e papà si erano conosciuti ad una delle rare feste di paese; quel giovane dai capelli corvini e dal piglio deciso aveva affascinato Dalia da subito, malgrado una leggera zoppia dovuta alla poliomielite, che gli aveva risparmiato il fronte.

Quel mattino camminarono in silenzio tra i resti delle case ferite dai bombardamenti che la impaurivano, costringendola a guardare a terra, senza poter vedere il mare. Forse per questo, nella sua memoria di bambina, non c’è mai stata traccia dei flutti spumosi che si infrangono sulla scogliera e dei quali avrebbe avuto spesso nostalgia negli anni a venire.

Era un breve e triste corteo il loro: papà davanti, con due valigie, il poco che avevano, e lei dietro con sua sorella Maria, tenendo forte la mano di mamma. Loro rappresentavano il futuro, avrebbe continuato a ripetere nel corso della sua vita Candido, quasi a giustificarsi per quelle sue scelte così definitive. Per questo futuro stavano lasciando il nulla, dirigendosi verso un altro nulla, anzi, verso un indirizzo che un amico partigiano aveva dato a papà, ma anche questo lo seppero dopo, alla fine del viaggio. Per le due bambine fu un nuovo trauma, dopo quello della guerra, che le avrebbe segnate per sempre.

Adele scese dall’auto lentamente, con le guance raggrinzite dall’età e rosse per l’emozione. Gli occhi individuarono subito quella costruzione con i boschi sullo sfondo, all’ingresso del paese. Adesso Uscio le sembrava così piccola. Chiuse la portiera senza distogliere lo sguardo da quella casa a lei tanto cara, che vedeva in lontananza: un rudere rosa, con una decorazione a scacchi che corre lungo tutto il perimetro, proprio sotto lo spiovente del tetto. Rimase per alcuni secondi a guardarla, ferma, lungo il ciglio della strada. Una distesa d’erba la separava dal ricordo dell’infanzia ormai troppo lontana. Volle risentire ancora il fresco della rugiada, che amava tanto da bambina. Si tolse le scarpe e le ripose nell’ampia borsa, mentre continuava a fissare la casa a scacchi, come Davide l’aveva sempre chiamata.  Già, Davide…

Il ricordo era ancora vivo malgrado l’età. Davide era il figlio di Isaia Cantoni, un venditore di stoffe di origine ebrea ed aveva dieci anni, i capelli biondi e grandi occhi, nerissimi. Lei, invece, di anni ne aveva due in meno. Entrambe le loro famiglie erano sfollate a Uscio per sfuggire alla pioggia mortale che doveva distruggere il ponte della ferrovia di Recco. Nelle notti insonni della sua maturità, aveva risentito distintamente l’eco del motore degli aerei e i sibili delle bombe che ferivano la città e che la facevano urlare di terrore. Era il novembre del 1943 e fu lì che incontrò Davide.

Si sentì toccare la gamba sinistra e trasalì. Rinvenne da quel sogno dolce e orribile. Sua nipote Francesca, di quattro anni, l’abbracciava in silenzio. Poco dopo fu raggiunta anche da sua figlia Libera che, senza dire una parola, la guardò negli occhi e con il capo le fece cenno di andare.

Adele prese la nipote per mano portandola con sé, come le aveva promesso quella mattina durante l’interminabile viaggio in auto da Torino. Iniziarono a camminare verso la casa, attraversando quell’umida distesa verde. Il cuore le batteva forte e sentiva, attraverso le calze, l’erba bagnata. Prese in braccio Francesca, che le si strinse al collo, facendosi dare un bacio sulla guancia. Rimase sorpresa nello scoprire di possedere ancora una certa agilità camminando su quel sentiero sconnesso, malgrado i suoi settantacinque anni che avrebbe compiuto proprio il giorno successivo.

Quel ritorno sarebbe stato il regalo più bello di quel compleanno o forse di tutti i suoi compleanni.

Spesso aveva chiesto a sua figlia di poter ritornare a vedere Uscio, in  particolare da quando, tre anni prima, aveva temuto di morire per un improvviso attacco di angina. Malgrado le sue insistenze Libera si era sempre opposta, per paura che quel viaggio, ma, soprattutto, quella emozione,  avrebbe potuto fiaccare più del dovuto un corpo ormai  malandato. Quest’anno sua figlia si era decisa ad esaudire il suo desiderio, non prima di aver chiesto il parere del medico:  tutto era a posto e forse lo stress per l’ennesimo rifiuto sarebbe stato peggiore del viaggio.

Erano partiti all’alba da Torino, dal quartiere Crocetta dove ora Adele, rimasta vedova, viveva con la figlia e la nipotina Francesca. Candido e Dalia avevano abitato per anni in un appartamento del “Lingotto”, lui operaio della Fiat e lei casalinga. Poi una notte papà le aveva lasciate, ancora una volta senza avvisare nessuno; mamma decise di seguirlo dopo pochi giorni, come sempre in silenzio, consegnando ad Adele e Maria, prima l’immenso dolore e poi solo il dolce ricordo.

Adele aveva pensato anche a questo durante il viaggio di questo nuovo ritorno tra quelle montagne, in quel piccolo paese, a distanza di tutti quegli anni, nei luoghi che aveva dovuto abbandonare insieme ai genitori. Era l’eredità di una guerra che l’aveva lasciata orfana dell’infanzia troppo presto.

Da quella tempesta di sentimenti, ancora una volta, riemergeva nella mente di Adele ogni particolare dell’infanzia a Uscio.

Quella era la casa abbandonata in cui passava i pomeriggi giocando con l’inseparabile Davide. Gli altri bambini non volevano seguirli, avevano paura. Lui invece le infondeva sicurezza.

Una mattina una bomba, l’unica che avesse colpito la zona dov’erano sfollati, cadde vicino al loro rifugio. Ritornarono a giocare nella casa a  scacchi solo dopo alcuni giorni, quando si allentò l’attenzione dei genitori, troppo occupati a far sopravvivere la famiglia per impedire ancora a quei due bambini di avvicinarsi a quella casa.

La loro stanza preferita era la sala, al piano terra, grande e con il camino. Il pavimento aveva mattonelle bianche e nere che suggerirono a Davide di insegnarle a giocare a scacchi, come aveva fatto suo padre con lui. Uno dei loro giochi preferiti era proprio quello di spostarsi sulle mattonelle della grande sala con i movimenti dei pezzi degli scacchi: in diagonale, come l’alfiere, o a “L”, come il cavallo.

C’era un altro gioco che Davide le aveva insegnato: inserivano nelle crepe del muro dei foglietti bianchi sui quali scrivevano, con la mano incerta di bambini, i loro desideri. Poi a distanza di tempo l’uno andava a leggere quelli dell’altra. Davide si raccomandò di non dire nulla di quel gioco a suo padre Isaia perché si sarebbe senz’altro arrabbiato. Solo anni dopo Adele capì il significato di quelle parole, ma era troppo tardi perché Davide non c’era più.

Isaia, Davide e sua madre Lia, scomparvero una notte del 1944, senza dire nulla a nessuno. Adele, nella sua adolescenza, ricordando quei giorni, pensò che, evidentemente, anche Isaia doveva essere stato un uomo forte.

L’ultima volta che vide Davide avevano appena finito di giocare insieme una partita a scacchi. Era un pomeriggio freddo e piovoso ma loro si sentivano al sicuro nella loro sala. Si era fatto tardi. Davide rimise i piccoli pezzi di legno in una scatola di latta, che gli aveva regalato il nonno, e piegò in due la scacchiera di cartone. Uscirono dalla loro casa e lui la salutò dolcemente, come sempre: – “A domani”.Lei, prima di ritornare verso casa, seguì Davide con lo sguardo mentre si allontanava correndo sotto la pioggia, proteggendosi inutilmente il capo con la scacchiera. Lo fissò fino a quando non scomparve alla sua vista. Solo allora si accorse che la pioggia l’aveva completamente bagnata. Per tutta la vita quell’ immagine le sarebbe rimasta impressa nella mente.

Nei pomeriggi che seguirono Adele attese inutilmente Davide nella casa a scacchi, poi scrisse un biglietto confidandogli tutta la propria preoccupazione per quella prolungata e insopportabile assenza, e che non gli avrebbe più permesso di farla soffrire così. Prima di inserire il foglio nella crepa sopra il camino, rilesse quelle parole  e si sentì arrossire pensando che Davide le  avrebbe potute leggere.

Quella sera stessa si decise a parlarne con i suoi. Stavano mangiando intorno alla luce fioca della lampada ad acetilene che suo padre Candido, allora casellante ferroviario, era solito appoggiare sul tavolo. Malgrado la sua età, sapeva bene quali fossero le gerarchie familiari. Sua mamma avrebbe risposto alla sue domande solo al termine di quella magra cena, non appena suo padre fosse uscito nel cortile, per fumare l’ultimo mozzicone della sua nazionale. Lei sarebbe rimasta con sua madre a rassettare e solo in quel momento avrebbe finalmente avuto la risposta che attendeva.

Così avvenne. Mamma le raccontò quanto le aveva riferito la signora Pàmpani, l’amica di sempre dei Cantoni: due notti prima Isaia con la sua famiglia era scappato, diretto verso la Svizzera dove aveva dei parenti, per evitare la deportazione perché non avrebbero più potuto nascondersi a lungo. Dalia quella sera ebbe parole dure, il suo sguardo era diverso e le sembrò strano che sua madre la trattasse come un’adulta. Le spiegò che la situazione delle famiglie ebree si era fatta sempre più difficile da quando, nel novembre dell’anno precedente, i  tedeschi erano entrati negli uffici della comunità ebraica di Genova ed avevano iniziato le operazioni di rastrellamento. Adele non era sicura di aver capito proprio tutto ma la lasciò proseguire senza interrompere, perché ciò che era importante di colpo le fu chiarissimo: non avrebbe più rivisto Davide. Quando Adele iniziò a piangere, sua madre le stava ancora parlando, intenta a  lavare i piatti. Dalia le si avvicinò, asciugandosi le mani al grembiule, l’abbracciò e le diede un dolce bacio, sfiorandole i capelli con le labbra.

Il giorno seguente Adele si recò nuovamente alla casa a scacchi ma con una nuova consapevolezza di bambina: Davide non ci sarebbe stato, non sarebbe più tornato. Lei avrebbe continuato a incontrarlo nei suoi sogni e nel loro rifugio, comunicando con lui proprio come le aveva insegnato, affidando quei pezzetti di carta alle fessure del muro, che più avanti, nella sua adolescenza trascorsa lontana da quel luogo, avrebbe ribattezzato “Le crepe del suo cuore”.

Aveva poi continuato a scrivere quei pensieri sul suo diario di ragazza, pagine che l’avevano seguita per tutta la vita, anche dopo aver conosciuto Roberto, suo marito, che amava, e al quale aveva confidato quel suo sentimento puro e dolce per Davide.

Prima di uscire di casa, sapendo di ritornare a Uscio, aveva letto alcune righe di quei diari ormai consunti dal tempo, poi, mentre raccoglieva i suoi lunghi capelli seduta davanti allo specchio, pensò che forse aveva fatto bene a non aver voluto cercare Davide, malgrado Roberto, più volte, l’avesse spronata a farlo. Lei si era sempre opposta, schernendosi davanti al marito, ma avvertendo dentro di sé il timore che il ricordo meraviglioso di quel bambino che aveva idealizzato si sarebbe infranto come un’onda contro la figura di un uomo per lei sconosciuto.

Ora stava per entrare nella loro casa. Avrebbe riassaporato il ricordo e la presenza di Davide, solo per qualche istante. Non chiedeva di più da quella lunga e tortuosa esistenza. Lasciò che Francesca tornasse da Libera,  poi, con un gesto istintivo, si stirò il vestito con le mani, si sistemò i capelli e quindi, finalmente, entrò.

Tutto era diverso ma tutto le sembrava così incredibilmente uguale. In quel rudere senza tetto la luce poteva entrare liberamente. Il piano superiore era precipitato su quello che era stato l’amato pavimento a scacchi, ormai sopraffatto da erba e sassi. In alcuni punti l’edera si arrampicava faticosamente, arrivando fino all’estremità delle pareti ignara dell’assenza del soffitto della sala. Eppure tutto questo non riusciva a nascondere la bellezza di quella casa, la loro casa. Anzi, quell’inevitabile senso di abbandono rendeva quel luogo ancora più suo, come se quella coperta di erba e rovi  lo avesse protetto dalla storia,  precludendolo agli altri per tutti quegli anni; come se tutto stesse aspettando quella sua visita, per ritornare come prima o per distruggersi definitivamente. Le sembrò che il cuore dovesse scoppiare da un momento all’altro. Fece alcuni passi, stando attenta agli arbusti pungenti e ai sassi che le insidiavano i piedi nudi che un tempo erano stati forti, quindi indossò le scarpe. Si avvicinò al camino, accarezzò il muro proprio lì sopra, e sfiorò quella crepa che ricordava bene, anche  se ora era una fenditura dalla quale poteva vedere i mattoni e la luce provenire dall’esterno. Inserì la mano tremante all’interno e un piccolo ragno uscì fuori impaurito, quasi come lei a sentire la voce forte di un uomo dietro di sé:

È inutile cercare, non c’è più niente lì dentro!

Non osò voltarsi, anche se quel giorno era lì per questo.

Ho già guardato io mentre aspettavo. Quei biglietti non ci sono più…signora Adele…”.

Trovò infine il coraggio di girarsi e venne accolta dal sorriso aperto di un uomo di cinquant’anni anni, moro, non molto alto, di bell’aspetto, ma  soprattutto con gli occhi grandi, nerissimi.

Mi scusi se l’ho spaventata. Mi permetta, mi chiamo Samuele e come avrà ben capito sono il figlio di Davide”.

Adele trattenne a stento le lacrime.

Samuele le spiegò che il loro incontro era stato voluto da Libera, che l’aveva rintracciato in Svizzera, dove aveva sempre vissuto con il padre, morto cinque anni prima. Non rimase turbata dalla notizia, l’età in questo l’aiutava, ma volle comunque sapere tutto. Parlarono per ore e dai racconti di Samuele le sembrò di aver vissuto con Davide per tutta la vita e forse era davvero così. Samuele le confidò, invece, di aver saputo di lei solo negli ultimi giorni di vita di suo padre e, da quelle parole, si accorse come anche lui avesse mantenuto vivo in sé il ricordo di Adele.

Si lasciarono con l’abbraccio forte di un addio.

Rientrando verso Torino, non smise di ringraziare Libera per quel regalo.

Quella sera si sentiva serena e ripensò con tenerezza a tutto quanto era accaduto, mentre pettinava i suoi capelli bianchi davanti allo specchio. Poi, sdraiata nel letto, prima di addormentarsi lesse, come suo solito, un passo del Vangelo, aprendo una pagina a caso: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti gloria del tuo popolo Israele”.

Simeone “Il Giusto”, pensò, e sorridendo chiuse il libro e spense la luce.

avatar Scritto da: Zenone (Qui gli altri suoi articoli)


16 Commenti a La casa a scacchi

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    Martin Eden 28 Settembre 2012 at 07:11

    Faccio semplicemente mie le parole di Ramón: “Vorrei saper scrivere come Zenone…”

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    Mezzasalma 28 Settembre 2012 at 14:42

    Una storia troppo toccante… per non essere vera! Complimenti al grande Zenone che ha dipinto un quadro da museo. Ci sono e ci saranno mille storie simili ma bisogna saperle raccontare e Zenone ci riesce con grande e sapiente maestria.

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    Zenone 28 Settembre 2012 at 14:49

    Caro Mezzasalma, come sempre sei troppo buono anzi stavolta hai esagerato! :oops:
    L’essenza della storia è comunque inventata, tranne, purtroppo, il periodo storico.
    Grazie

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      Mongo 28 Settembre 2012 at 18:54

      Davvero un pezzo stupendo, da ‘cineteca’!!
      Peccato che quel periodo non sia stato solo un brutto sogno… Purtroppo non ha insegnato nulla ai posteri, che continuano ad odiarsi solo per il colore della pelle diverso o per il nome di un dio diverso dall’altro o per i ‘soldi’.

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    Mandriano 28 Settembre 2012 at 15:35

    Zenone sei fortissimo!!!! Bravo, bravo…e senza esagerazioni… avanti!!!

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    Fabio Lotti 28 Settembre 2012 at 16:13

    Non solo poeta… 🙂

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    Marramaquis 28 Settembre 2012 at 17:01

    Quale altro sito di scacchi ci può regalare gemme come questa di Zenone? Certamente nessuno.

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    paolo bagnoli 28 Settembre 2012 at 22:01

    Fan-ta-sti-co!

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    L'Alessio 28 Settembre 2012 at 22:56

    Emotivamente coinvolgente; piace.

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    Controgambetto 29 Settembre 2012 at 11:07

    Bello, complimenti a Zenone.

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    Ramon 29 Settembre 2012 at 11:12

    So che si tratta di un racconto selezionato per un concorso letterario ma Zenone, con la generosità che gli è propria, ha preferito pubblicarlo su SoloScacchi…

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      Ramon 29 Settembre 2012 at 11:48

      Ah, dimenticavo… domani torna il nostro concorso fotografico, tenetevi forte! 😉

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      Mongo 29 Settembre 2012 at 12:14

      Si, il concorso letterario è il ‘banale’ Nobel per la letteratura!! 😉
      Ramon, visto che il nostro Zenone incomincia ad azzeccare varianti su varianti, anche difficiline da calcolare, mi sa che presto i nostri big incominceranno a tremare incontrandolo davanti ad una scacchiera. 😎

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        Marramaquis 29 Settembre 2012 at 12:41

        Davanti ad una scacchiera non avrei timore né tremore (tanto non vinco una partita dal 1988 ….), ma in un concorso letterario sì: Zenone è troppo forte.

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          Marramaquis 29 Settembre 2012 at 12:44

          Volevo dire: “….non perdo una partita….”

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    marco pic 29 Settembre 2012 at 14:26

    Complimenti a Zenone! Riesce sempre a convincere e commuovere.
    Si può avere qualche notizia in più del concorso letterario di cui sopra? Meriterebbe veramente il massimo…

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