L’Enigma dell’Alfiere

Scritto da:  | 18 Ottobre 2012 | 5 Commenti | Categoria: Cultura e dintorni, Scacchi e letteratura

Nihil tam difficile est, quin quaerendo investigari possit”. Data questa premessa forse lo riuscireste a scoprire da soli e quindi vi svelerò che sono stato spinto a scrivere queste righe da un regalo, un dono tanto gradito quanto inatteso: “L’Enigma dell’alfiere” di S.S. Van Dine[1] (Ed. Polillo “I bassotti”, anno 2007, €13,40). Un regalo ancora da me maggiormente apprezzato perché si tratta di un libro “usato” da un mio amico scacchista,  Massimo, il quale ne possedeva una sola copia, che l’altra sera al circolo mi ha detto: “So che hai una discreta biblioteca scacchistica quindi…è tuo”. Sembra incredibile nel 2012 che qualcuno rinunci a qualcosa di proprio per farne dono! Ma gli scacchi sono anche questo.

Torniamo al libro. Si tratta di un grande classico che potrebbero commentare senz’altro meglio di me l’amico ed esperto “giallista” Lotti (ecco un’altra persona che sento vicina malgrado la nostra frequentazione si limiti a qualche commento sul blog, dalla lettura, da parte mia, dei suoi ottimi pezzi su vari siti e ad un solo incontro – ma lui non lo sa – nel corso di un torneo a Siena, dove lui, logicamente, vinse…), oppure, come ha già fatto ottimamente, Mario Leoncini[2].

Giallo davvero interessante “The Bishop Murder Case” (scritto nel 1928), che gli appassionati del genere conoscono senz’altro meglio degli scacchisti, con protagonista uno dei detectives dilettanti più famosi: Philo Vance. E’ la quarta avventura per Vance da quando Willard H. Wright, sotto lo pseudonimo di S.S. Van Dine, si vide costretto, lui laureato ad Harvard, a scrivere polizieschi per sopravvivere. Sì, perché  pare che il nostro esimio scrittore, suo malgrado, avesse un caratterino niente male e sul lavoro non riusciva  proprio a farsi amare. Grazie a questa sua incapacità di mantenersi il posto fisso che lo obbligò al lavoro “giallista”, professione per l’epoca non certo da intellettuale, divenne ben presto il miglior scrittore americano di genere nel periodo tra il 1923 e il 1939, con le sue dodici opere che avranno come protagonista Philo Vance. Si tratta di indagini classiche, eseguite mediante quella particolare e affascinante tecnica del metodo deduttivo – giallo ad enigma o whodunnit[3] – tanto caro per primo a Arthur Conan Doyle (Sherlock Holmes) e successivamente ad Agata Christie (Miss Marple e Poirot) e Rex Stout (Nero Wolf) tra tutti.

L’ambientazione di questo romanzo è quella della New York anni ’20 del secolo scorso (non quella dei gangster ma dell’aristocrazia culturale che non rende certo meno efferati i delitti), dove un ignoto assassino uccide Joseph Cochran Robin, campione di tiro con l’arco che viene trovato nel campo di gara del circolo con una freccia nel costato. Philo Vance interviene, a richiesta dell’amico e procuratore distrettuale John F.X. Makham, che aveva già aiutato a risolvere alcuni casi precedenti. Intendiamoci, gli atteggiamenti del nostro protagonista possono piacere o meno: l’ostentata cultura (senz’altro superiore a quella di Sherlock Holmes), che traspare in tutto il libro (con dotte citazioni latine e riferimenti alla matematica superiore, alle lettere, alla psicologia, alla chimica ecc.), i modi un po’ dandy[4], con il vezzo del monocolo e la passione per le sigarette “Régie”, l’essere sufficientemente ricco da non dover lavorare, questo sentirsi superiore agli altri, non lo rendono certo istintivamente simpatico (lo è molto di più il burbero Wolf). Eppure in questo giallo, caratterizzato da numerose morti violente collegate ad un preciso piano che sembra trovare giustificazione nelle filastrocche per bambini, dimostrerà le sue qualità logiche e psicologiche, che gli permetteranno di sbrogliare la matassa di questa serie di omicidi che ha sconvolto New York. Il problema di base di questo romanzo, soprattutto con gli occhi di oggi, è forse la mancanza dell’autentica suspance. Il lettore, che non sa chi sia l’assassino, è indotto a risolvere l’enigma, ma non c’è quasi mai tensione se non nel finale, che si scioglie in una soluzione a sorpresa.

Sia i personaggi principali (il procuratore distrettuale  Markham, il sergente della omicidi Ernest Heat) sia gli altri che popolano questo giallo sono poco interessanti e questo ritengo sia una precisa scelta per esaltare le qualità di Vance: i primi, sono fortemente caratterizzati per creare affezione nel lettore, i secondi sono “grigi” e per questo prevedibili.

Resta però il dato, per quanto mi riguarda, di una lettura davvero piacevole, malgrado la complessa e per questo ancora più apprezzabile struttura, che segue senz’altro le 20 regole che S.S. Van Dine ha voluto propinarci, soprattutto quella legata all’idea del poliziesco come “gioco intellettuale”, dove la matematica gioca un ruolo preminente[5]. Elemento che accomuna tutti i grandi scrittori del “giallo” deduttivo sembra essere la matematica e l’idea che il grande matematico è anche il grande assassino, basti pensare al nemico giurato di Holmes, il geniale professore di matematica James Moriarty.

E gli scacchi? Beh, oltre al “bishop” (Vescovo all’inizio e poi, correttamente, alfiere), c’è sempre una scacchiera in primo piano, nello studio (dalla quale mancherà un alfiere che verrà ritrovato in circostanze misteriose), poi quasi tutti i personaggi conoscono bene il gioco, chi guardandolo con distacco, chi studiandolo in maniera approfondita e maniacale, pur non essendo un professionista, come il dott. John Pardee, ideatore del “Gambetto di Pardee”, rivelatosi poi scorretto proprio per un’imprevista mossa di alfiere. Sarà proprio questo personaggio a giocare una partita nello storico Manhattan Chess Club contro Akiba Rubinstein (con il nero), sospesa e poi finita con l’abbandono di quello che sarà una delle vittime dell’assassino. Ecco la posizione finale della partita[6]:

mossa al Bianco

Proprio Pardee, lo scacchista, potrebbe essere il possibile assassino, perché grazie al tempo a disposizione per allontanarsi dalla sala da gioco, tra una mossa e l’altra, avrebbe potuto crearsi un alibi inattaccabile. Questi scacchisti…

Un libro da consigliare, sia per gli amanti del poliziesco sia per gli scacchisti, di facile lettura ma che richiede costante attenzione.

Buona lettura.


[1] Pseudonimo di Willard Huntington Wright (1888-1939);

[2] http://www.marioleoncini.it/seg/05.htm;

[3] contrazione di Who done it? (Chi l’ha fatto?);

[4] alcuni dicono che è più dandy di Holmes;

[5] http://it.wikipedia.org/wiki/Venti_regole_per_scrivere_romanzi_polizieschi;

[6] che riporta al matto di Alfiere di Troitzky: 45. Txc2 Cxc2; 46. Rxc2 b1=D+; 47. Rxb1 Rd3; 48. Ra1 Rc2; 49.d3 Ab2#

avatar Scritto da: Zenone (Qui gli altri suoi articoli)


5 Commenti a L’Enigma dell’Alfiere

  1. avatar
    Fabio Lotti 18 Ottobre 2012 at 10:34

    Non solo ottimo poeta…Grande pezzo ma non ricordo il nostro incontro a Siena. Mi piacerebbe qualche intervento qui http://theblogaroundthecorner.it/2012/10/letture-al-gabinetto-di-fabio-lotti-ottobre/ tanto per farmi compagnia.

    • avatar
      Zenone 18 Ottobre 2012 at 10:45

      Appena posso ti inserisco l’anno del torneo e il turno! E’ un giallo anche questo 😉

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    Filologo 18 Ottobre 2012 at 14:12

    Mi fa molto piacere il revival di Philo Vance, perché S.S. van Dine è il mio scrittore di gialli preferito. L’origine del personaggio però, a quanto so io, è un’altra: Wright aveva un forte esaurimento nervoso, e il medico gli aveva proibito ogni occupazione culturale che non fosse leggere romanzi polizieschi. Wright chiese se invece di leggerli poteva scriverli, e il medico non trovò nulla da obiettare: il successo fu immediato e liberò lo scrittore dalla necessità di svolgere altri lavori.
    Aggiungo che io e Vance abbiamo una cosa in comune: un suo passatempo era la filologia greca, e una delle sue indagini lo costringe ad abbandonare la traduzione delle commedie di Menandro, allora recentemente scoperte.

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      Giangiuseppe Pili 21 Ottobre 2012 at 12:21

      Confermo. La genesi del personaggio è quella segnalata dall’attento lettore, con il quale mi trovo in sintonia anche per il suo apprezzamento per l’autore e personaggio. Quando avevo 15 anni nutrivo una vera e propria ossessione per S.S. Van Dine e Philo Vance. Non a caso nel mio “2001, Filosofia negli scacchi” egli fa la sua comparsa nel penultimo capitolo (anche se con qualità morali leggermente diverse ma, d’altronde, Philo è un nietzscheano… per tanto, non può dirsi propriamente buono). “L’enigma dell’alfiere” viene usualmente considerato uno dei suoi lavori migliori, ma, con gialli come “La dea della vendetta” e “La fine dei Greene” vien difficile stabilire quale sia il migliore! Peccato che abbia scritto solo 12 romanzi e 1/2!

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    Mongo 18 Ottobre 2012 at 17:46

    Sono impegnato con la trilogia di Deutscher ‘Il profeta…’, vita, opere e miracoli di Trotsky; appena la terminerò, sono circa 2.400 pagine, se sarò sopravvissuto, seguirò anche questo consiglio del buon Zenone.

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