il caso Morphy, 5ª parte: aria italiana

Scritto da:  | 3 Dicembre 2012 | 4 Commenti | Categoria: Racconti
Mosca, estate 2001
            “La valigia di Bondarevski!” pensavo mentre salivo ancora una volta le scale al numero 14 di viale Gogol. Dovevo trovare il modo di tirarla giù da quello scaffale ed osservarne il contenuto, ma dubitavo del fatto che l’impiegata me lo avrebbe lasciato fare.
            Rimasi sorpreso quando in segreteria trovai la bellissima Irina al posto dell’impiegata che mi aveva accolto il giorno precedente. La ragazza stava chiacchierando con l’inserviente e, quando entrai, interruppe la conversazione e mi rivolse un sorriso che illuminò tutta la stanza.
            “Buongiorno, ancora qui?”
            Tentai di sfoderare tutto il mio non abbondante fascino: “Potrei dire che sono venuto per rivedere lei”. A quel punto l’inserviente alzò gli occhi al cielo ed uscì ed io proseguii: “E’ lei che bada alla bottega, oggi?”
            “Oggi e per le prossime due settimane. La mia collega a quest’ora è sull’aereo per Soci”
            “Ci sono posti migliori dove andare in ferie”
            “Ma anche più costosi” osservò Irina con una smorfietta “Il nostro stipendio…”
            “Già, capisco”. Assunsi un’aria più professionale: “Vorrei, se possibile, dare un’altra occhiata alla biblioteca. L’ho trovata interessante, quasi sbalorditiva”.
            Lanciò un’occhiata al piccolo orologio da polso: “Veramente stavo per andare a pranzo”
            Occasione! “A questo punto la invito io, riservandomi la scelta del posto”
            Rimase incerta, poi mi sorrise scatenandomi una tempesta ormonale quale non provavo da parecchio tempo: “Grazie, d’accordo, ma devo rientrare in fretta”.
            Ci infilammo in un piccolo ristorante italiano che conoscevo, una camminata di cinque minuti durante la quale le banalità dette da entrambi – il caldo insolito, gli stipendi bassi, i mezzi pubblici – fecero a gara nel superarsi.
            Quando ci sedemmo i discorsi divennero più personali. Aveva ventiquattro anni, viveva con la madre dall’altra parte della città ed arrotondava lo stipendio del circolo eseguendo traduzioni dal tedesco per una piccola casa editrice. Era stata fidanzata con un ragazzo che, senza preavviso e senza una parola di commiato, si era trasferito da qualche parte in Sudamerica.
            “E tu?”
            “Oh, be’, niente di speciale. Vivo solo dalle parti di Vnukovo, sono figlio unico, mia madre è vedova e la vedo un paio di volte all’anno. Vive in Siberia” spiegai “a Irkutsk”.
            Arrivarono gli spaghetti all’aglio, olio e peperoncino, accompagnati da un vino rosso italiano che ci rese ancora più loquaci. Iniziammo a ridere di tutto, mentre le gote di Irina si coloravano di un rosa che la rendeva ancora più affascinante. Improvvisamente divenne seria, guardò l’orologio e disse: “Devo riaprire l’ufficio tra un quarto d’ora”.
            Chiamai Domenico, pagai il conto – che avrei messo sul conto spese del giornale – e la riaccompagnai verso viale Gogol. Con estrema naturalezza mi prese un braccio e così, a braccetto, giungemmo davanti al portone, continuando a chiacchierare come vecchi amici. Giunti al numero 14 allungò la mano per salutarmi: “Grazie, e arrivederci”.
            “Salgo anch’io” dichiarai “Non sono venuto qui solo per te”.
            “Ma mi sto innamorando di te”  pensai fissandola dritta negli occhi.
            Il vecchio commilitone di Zukov stava passando l’aspirapolvere nel corridoio centrale, e sollevò appena lo sguardo al nostro passaggio. Irina aprì la porta dell’ufficio, si sedette alla scrivania, e con aria fintamente seria – gli effetti del vino erano ancora presenti –  disse: “Allora, signor Yuri Salov, cosa desidera?”
            “Cara signorina Irina, vorrei dare un’occhiata alla biblioteca” risposi con la stessa aria.
            “Bene, venga con me”. Prese dal cassetto un grosso mazzo di chiavi e si rivolse all’inserviente: “Grigori, per favore, vado in biblioteca con il signor Salov. Avvertimi se qualcuno ha bisogno di me”. Si avviò lungo il corridoio ed il modo in cui muoveva i fianchi divenne la cosa più eccitante che avessi visto in vita mia.
            Quando entrammo nel grande locale Irina accese la luce, si girò verso di me e, con un sorriso malizioso, domandò: “Cosa vuoi vedere, Yuri?”
            Fui lì lì per saltarle addosso, ma mi trattenni e, con la voce resa un po’ roca dall’eccitazione, risposi: “L-l’altra stanza, quella…”
            “Ho capito”. Si incamminò tra gli scaffali ed aprì la porta che dava nella piccola stanza dove avevo visto la piccola valigia marrone. Era ancora là, da chissà quanto tempo. Guardai un po’ in giro, poi, indicando la valigetta, dissi: “Cos’è quella?”
            Alzò le spalle. “Non saprei. Era già lì quando sono stata assunta tre anni fa, e di lì non si è mai mossa”.
            “Posso?” chiesi indicandola.
            “Credo di sì”.
            Alzandomi sulla punta dei piedi riuscii ad afferrare la valigia e la spostai leggermente sul ripiano dello scaffale. Non era molto pesante. La tirai verso di me, provocando una fuga precipitosa di un ragno ed una leggera pioggia di polvere. Appoggiai la piccola valigia marrone sul tavolino che stava accanto alla porta e lessi l’etichetta ingiallita che il proprietario aveva incollato sul coperchio: “Igor Z. Bondarevski – Personale”.
            Il cuore iniziò a battermi forte. Quella era la valigia che Baturinski aveva nominato: l’avevo trovata! Ora il problema era quello di riuscire ad aprirla, visto che Bondarevski – che maledissi silenziosamente – aveva chiuso a chiave entrambe le piccole serrature a scatto.
            Recuperai il sangue freddo non senza fatica, visto che Irina si era avvicinata per osservare e che un suo seno mi stava premendo contro il braccio. “Pensi che potrei aprirla?”
            “Non credo proprio” rispose, allarmata “Credo che una cosa del genere si possa fare soltanto con l’autorizzazione del segretario del circolo, e sono certa che la chiave non è tra quelle affidate a noi impiegate. Probabilmente la conserva da qualche parte il segretario Adesso andiamo, devo tornare in ufficio. Rimetti a posto quella valigia”.
            Sollevai la valigia con entrambe le mani e la rimisi al posto che occupava da più di vent’anni, Irina spense la luce e richiuse la porta. Ci incamminammo tra gli scaffali ed io non seppi più trattenermi: “Irina…” dissi, trattenendola per un braccio.
            Si girò verso di me e, prima che potessi dire qualcosa, mi pose un dito sulle labbra, sorridendo, poi si avviò verso la porta che dava sul corridoio centrale: “Dài, vieni, devo tornare in ufficio” disse a bassa voce. Aveva le guance lievemente arrossate e, quando si sedette alla scrivania dell’ufficio, si rimise in ordine i capelli, non senza aver subito un’occhiata indagatrice da parte di Grigori, che guardò un po’ lei e un po’ me, fece un sogghigno, e se ne tornò a dare l’aspirapolvere.
            Dovevo rientrare in redazione. “Posso passare a prenderti stasera?”
            “Finisco alle sei e mezzo. Adesso vai e lasciami lavorare” rispose sorridendomi.
 
Mosca, Università Lomonosov, gennaio 1959
 
            Il bibliotecario capo stava osservando Igor Bondarevski il quale aveva separato in quattro diverse pile i fogli ingialliti scritti – non c’era ormai alcun dubbio – circa cent’anni prima da Paul Morphy.
            Bondarevski, seduto al tavolo, si girò verso l’altro spiegando: “Innanzitutto, ho separato i fogli scritti in francese da quelli scritti in inglese, ma questo sistema ha creato una confusione incredibile. Poi ho capito che Morphy aveva usato le due lingue senza alcun criterio, seguendo il capriccio del momento, ho rimesso insieme il tutto ed ho seguito unicamente il criterio dell’analisi scacchistica. La faccenda è risultata alquanto complicata dal fatto che Morphy ha usato quella stupida notazione descrittiva che usavano ed usano ancora gli americani e gli inglesi, ma alla fine sono riuscito a dare un senso logico a tutto quanto”.
            “Cioè?”
            “Valeri, queste sono analisi di aperture che, come ti dissi tempo fa, erano scarsamente usate all’epoca di Morphy. Guarda” e mise sotto gli occhi dell’altro un foglio che iniziava con la scritta: “1. PQB4” e proseguì: “Questa è quella che oggi chiamiamo Partita Inglese e questa” disse, mostrando all’amico altri tre fogli scritti fittamente “è la continuazione delle analisi che, devo dirlo, sono notevolmente accurate e in un certo senso ‘moderne’”.
            “Da quello che ricordo, però” replicò Valeri “Morphy apriva invariabilmente con il Pedone di Re. Si stava forse preparando a cambiare il suo repertorio di aperture?”
            “No, no, non si tratta di questo. Morphy stava analizzando il repertorio di aperture di un altro giocatore . Guarda qui” e sollevò una decina di fogli “le analisi di Morphy sulla Partita di Donna. Vedi? In testa al primo foglio c’è 1. PQ4 e seguono le analisi, anche queste molto profonde ed accurate. Ad un certo punto le analisi configurano addirittura lo schema, da parte del Nero, di una difesa che venne considerata una novità venti  anni dopo la morte di Morphy, la difesa Cambridge Springs, impiegata in diverse occasioni nel 1904 durante il grande torneo di Cambridge Springs!”
            “Non capisco, a parte la indiscutibile genialità di Morphy, a cosa potessero servire…”
            “Ora ti spiego” lo interruppe Bondarevski “Quando Morphy venne in Europa, lo fece per incontrare Howard Staunton, considerato all’epoca il più forte giocatore europeo, e Staunton adottava generalmente le aperture analizzate in questi fogli!”
            “Allora Morphy…”
            “Aveva ricevuto in regalo” lo interruppe nuovamente Bondarevski “all’età di undici anni, o dodici, non ricordo, il libro scritto da Staunton, nel quale quell’inglese si autoincensava abbondantemente, e sicuramente queste analisi vennero da lui elaborate sulla base delle partite giocate da Staunton e riportate in quel libro”.
            Dopo qualche istante di silenzio Bondarevski riprese: “Ci sono anche analisi della Difesa Olandese ed alcuni appunti riguardanti schemi propri delle Difese Indiane. Il tutto, comunque, viene visto ed analizzato dalla parte del Nero, e ciò conferma il fatto che Morphy si preparava ad affrontare questo tipo di aperture e ad impiegare qualcuna di queste difese” concluse il Grande Maestro appoggiandosi allo schienale della sedia.
            “Fantastico! E’ una scoperta importante per la storia degli scacchi. La ricerca che tu hai fatto merita sicuramente gli onori di una pubblicazione”.
            Bondarevski scosse il capo: “Non credo. La Storia non si scrive sulle ipotesi, ma su fatti concreti”.
            “Ma… più concreti di questi fogli…!”
            “Valeri, con la tua cultura e la tua preparazione, sai benissimo che si trova sempre qualcuno pronto a contestare anche ciò che più concreto non potrebbe essere, ed io non sono disposto a correre questo rischio”
            “Di quale rischio stai parlando? Calligrafia, età dei fogli, le tue incontrovertibili deduzioni, stanno a dimostrare…”
            “Cosa? Non c’è nulla di dimostrato in tutto questo, e c’è innanzitutto una domanda che verrebbe posta da qualche bastian contrario ed alla quale non ho risposta”.
            “Sarebbe…?”
            “Questi fogli sono stati rinvenuti in Germania, non è così? La domanda è:  Se sono veramente opera di Paul Morphy, come hanno fatto ad arrivare in quel Paese?”.
 
Seconda parte – Intermezzo storico
 
Il romantico convertito
 
            Wilhelm Steinitz era nato a Praga nel 1836, in una famiglia ebraica numerosa e poverissima. Nonostante suo padre volesse fare di lui un rabbino, il giovane Wilhelm, non ancora ventenne, decise di abbandonare la famiglia e di stabilirsi a Vienna, la grande capitale dell’impero austro-ungarico, per guadagnarsi il pane come giornalista.
            Iniziò a frequentare i ritrovi scacchistici viennesi, facendo rapidissimi progressi nella tecnica del gioco, fino a quando riuscì a vincere il campionato cittadino del 1861-62.
            Il suo stile di gioco ricalcava quello imperante in quegli anni, apertura di Pedone di Re e immediata organizzazione di un assalto diretto contro il Re avversario, a qualunque costo, senza badare troppo allo spreco di materiale e senza curarsi di eventuali strategie difensive dell’avversario: lo stile che gli storici degli scacchi definiscono “romantico”.
            Il successo ottenuto a Vienna, una delle capitali scacchistiche europee, convinse i più facoltosi soci del circolo ad inviare, a loro spese, Steinitz a Londra, per farlo partecipare ad un grande torneo programmato nella capitale britannica.
            Fu, per i viennesi, una parziale delusione: il grande torneo venne vinto dal tedesco Anderssen, un insegnante di matematica slesiano di Breslavia, che già aveva vinto il primo grande torneo della storia degli scacchi, quello del 1851 a Londra, giocato durante la Grande Esposizione Universale. Steinitz ottenne un dignitoso ma non entusiasmante sesto posto ma, appena terminato il torneo, battè in match individuale il quinto classificato, l’italiano Serafino Dubois.
            Decise di stabilirsi in Gran Bretagna e nel periodo immediatamente successivo riuscì vincitore in alcuni incontri vis à vis contro forti giocatori locali, primo fra tutti Blackburne. Nel 1866, poi, riuscì ad organizzare un incontro con Anderssen, giudicato all’epoca come il miglior giocatore del mondo. Morphy era scomparso ormai da anni dalla scena scacchistica, non senza avere battuto Anderssen in un famoso match giocatosi a Parigi e l’esito dell’incontro tra Steinitz ed Anderssen – 8 vittorie del praghese contro le 6 del tedesco – consentirono a Steinitz di autoproclamarsi “campione del mondo”, titolo all’epoca inesistente e comunque contestato dai più.
A Londra Steinitz non era ben visto: straniero, basso di statura – poco più di un metro e cinquanta -, con un grosso cranio sopra un corpo massiccio, non molto padrone della lingua inglese, era costantemente oggetto di scherzi e di pesanti ironie da parte degli abituali frequentatori del Simpson’s Divan , il locale dello Strand considerato universalmente come il tempio degli scacchi mondiali. In realtà egli, nei suoi primi anni londinesi, tendeva ad essere affabile, disponibile e facilmente disposto al riso, ma non tollerava l’essere messo in discussione come giocatore.
            Riusciva a combinare pane e companatico grazie ad una rubrica scacchistica che scriveva per un periodico londinese e grazie alla sua attività professionistica. All’epoca si giocava sempre con una posta in palio ed il dilettante che lo sfidava doveva prepararsi a sborsare un po’ di quattrini, pur di avere la soddisfazione di battersi contro il “campione del mondo”.
            Giunse secondo, dopo Anderssen, al torneo di Baden-Baden del 1870, primo a quello di Londra del 1872 senza perdere una sola partita ed in quello stesso anno battè in match Johannes Zukertort, un polacco affermatosi come forte giocatore negli ultimi anni, con un punteggio che non ammetteva discussioni: 7 vittorie, 4 patte ed una sola sconfitta. In seguito a ciò Loewenthal, un forte professionista in attività da parecchi anni, scrisse che “il signor Steinitz può essere tranquillamente considerato l’occupante della posizione precedentemente tenuta dal signor Morphy” ed Amos Burn, altro forte giocatore, sentenziò che Steinitz era “probabilmente il più forte giocatore vivente”.
            Eppure soltanto un anno dopo, al grande torneo di Vienna del 1873, lo stile di Steinitz risultava cambiato radicalmente. Non più teso a rapidi attacchi contro il Re avversario, il piccolo praghese badava soprattutto agli elementi strategici della posizione, con grande attenzione agli elementi difensivi. Era l’inizio della grande rivoluzione del gioco mediante uno stile – quello introdotto da Steinitz – che venne definito come “posizionale”. Il praghese aveva così fondato gli scacchi moderni.
            Steinitz era praticamente coetaneo di Morphy ma mentre quest’ultimo mieteva successi in America ed Europa, Steinitz era ancora un piccolo ebreo confuso nella folla viennese, con un futuro quanto mai incerto sia come giornalista che come giocatore di scacchi.
Quando agli inizi degli anni Ottanta, ormai considerato dai più come il miglior giocatore di scacchi del pianeta, Steinitz decise di trasferirsi negli Stati Uniti d’America, tale decisione fu dovuta al fatto che, dopo vent’anni, in Gran Bretagna veniva considerato ben al di sotto dei suoi reali meriti, oltre alla speranza di trovare in America la tranquillità economica che gli era sempre venuta a mancare a Londra.
Una delle prime cose che fece Steinitz dopo l’arrivo nel nuovo continente di residenza fu quella di chiedere ed ottenere un colloquio con Morphy, il suo idolo di gioventù. Morphy acconsentì un po’ di contraggenio, a patto che nel corso dell’incontro non si parlasse di scacchi, e Steinitz accettò, anche se non avrebbe voluto parlare d’altro.
Questo incontro avvenne a New Orleans, nella grande casa di famiglia di Morphy, nel 1883.
Il francese eclettico
Jules Arnous-Rivière – che in seguito “nobilitò” il proprio cognome in Arnous de Rivière – era nato nel 1830, qualche anno prima di Morphy, nato nel 1837, e di Steinitz, nato un anno prima di Morphy. Scomparsi i grandi giocatori francesi come Labourdonnais, Saint-Amant, Kieseritzky, e decaduta quella che una volta veniva definita con orgoglio “la scuola francese”, De Rivière fu per una ventina d’anni considerato il miglior giocatore di Francia. Era anche appassionato di bridge e di biliardo, e non disdegnava qualche eccitante serata al tavolo della roulette.
Quando Morphy visitò Parigi per sfidarvi e battervi Harrwitz ed Anderssen, De Rivière lo accompagnò spesso nel corso delle sue lunghe passeggiate nella capitale francese. I due strinsero quella che si potrebbe definire una reciproca “cordiale simpatia” che risultò immutata quando l’americano tornò in Francia nel 1863, non volendo prendere parte alla Guerra di Secessione.
Poi, nel ’67, De Rivière si iscrisse ad un importante torneo, quello di Parigi, e la sua partecipazione coincise con una nuova visita di Morphy alla capitale francese. L’americano non volle nemmeno mettere piede nell’edificio dove si svolgeva la manifestazione, ma si vide spesso con il francese. Chiacchierarono e giocarono qualche partita sans façon così come avevano fatto quattro anni prima; quella fu l’ultima occasione di incontro tra i due.
 Il polacco cosmopolita
 
            Johann Hermann Zukertort era un po’ più giovane, essendo nato nel 1842 in Polonia. A diciannove anni si era iscritto alla facoltà di medicina dell’università di Breslavia, ma gli scacchi, appresi nell’adolescenza, ben presto gli presero la mano, visto che in quella città abitava il grande Adolf Anderssen. Invece di frequentare le aule dell’ateneo Zukertort frequentava la casa di Anderssen, e la sua perizia davanti alla scacchiera migliorò con estrema rapidità, fino a metterlo in grado di battere – non senza fatica – il padrone di casa, che aveva un’età per la quale avrebbe potuto essere suo padre. Il match tra i due, tenutosi nel 1871, si risolse infatti con cinque vittorie di Zukertort contro le due di Anderssen, ma quest’ultimo scrisse su una rivista scacchistica dell’epoca che, vista l’irregolarità delle date di gioco, non si era trattato di un vero e proprio “incontro ufficiale” ma di una serie di partite casuali. Se Zukertort voleva proprio giocare un match ufficiale, concludeva Anderssen, doveva mettere sul tavolo un bel po’ di quattrini a mo’ di posta e lui ne avrebbe messi il doppio; quando Zukertort raccolse la sfida, quel volpone di Anderssen lo annientò con un secco tre a zero.
 
Rinunciando a prendere la laurea, Zukertort decise di passare al professionismo, ma non rinunciò al titolo di “dottore” che, per gli anni a venire, gli venne tributato nell’ambiente scacchistico. Divenne anche famoso per aver stabilito il record di simultanee alla cieca: sedici partite senza vedere la scacchiera.
            Aveva una memoria prodigiosa, parlava più o meno correntemente sette lingue, leggeva tantissimo e si vantava di poter memorizzare immediatamente ed indelebilmente qualunque cosa egli leggesse. Aveva appreso dal suo maestro Anderssen uno stile aggressivo, “romantico”, ed era in grado di calcolare quasi infallibilmente le complicazioni insite anche nelle più intricate situazioni di gioco.
            Fu in quel periodo che un gruppo di appassionati londinesi, desiderosi di demolire Steinitz dimostrando quanto poco avevano capito, individuò in Zukertort l’uomo capace di infliggere una sconfitta a quello scorbutico praghese. Mandarono al polacco venti ghinee – una bella sommetta – per consentirgli di trasferirsi in Gran Bretagna e contrastare lo strapotere di Steinitz. Zukertort giunse a Londra, che gli piacque, ma venne sconfitto da Steinitz con un punteggio umiliante, venendo tuttavia unanimemente considerato come il “numero due” degli scacchi mondiali. I suoi risultati in torneo furono comunque notevoli, così come quelli ottenuti contro Blackburne, Rosenthal e Potter, giocator i of first rank battuti dal polacco con punteggi che non ammettano scusanti.
Il filosofo
 
            Emanuel Lasker nacque a Berlinchen, una cittadina del Brandeburgo oggi “passata” in Polonia, nel 1868. Suo padre faceva parte del consiglio della sinagoga locale. Ad undici anni il fratello maggiore, Berthold, gli insegnò il gioco, dal quale Emanuel rimase immediatamente affascinato.
            Nel corso degli studi secondari Emanuel rivelò un grande talento per la matematica. La famiglia lo mandò a Berlino per compiervi gli studi universitari, e nella capitale imperiale Lasker dedicò il proprio tempo libero a perfezionare il proprio gioco, frequentando i ritrovi scacchistici della grande città fino a quando, a 21 anni, conquistò il titolo di “Maestro” – a quei tempi ancora ufficioso – grazie al suo piazzamento in un torneo tenutosi a Breslavia.
            Nel 1890 Hoffer, una delle voci più autorevoli in fatto di critica scacchistica, ebbe modo di conoscere Emanuel Lasker ed il suo gioco durante un match che il ventiduenne tedesco giocò a Londra contro il quotatissimo Bird, incontro che Lasker vinse con un punteggio soverchiante. Hoffer lo descrisse come un “gentleman of culture, pleasing manners and becoming modesty”, aggiungendo che non era intenzione di Lasker praticare il professionismo scacchistico.
 
Eppure Emanuel Lasker dedicherà tutta la sua vita agli scacchi, anche se non solo agli scacchi. Scriverà testi di matematica e di filosofia, dopo essersi laureato presso l’università di Erlangen, anche se un po’ in ritardo rispetto al normale corso di studi.
            Infatti, i continui successi alla scacchiera convinsero il giovane tedesco a puntare in alto, molto in alto. Dapprima lanciò una sfida a Tarrasch, suo correligionario, medico a Breslavia, considerato unanimemente il miglior giocatore tedesco, ma quest’ultimo respinse sdegnosamente l’invito da parte di quel giocatore ancora semisconosciuto, anche se considerato una sicura promessa. Lasker allora decise di mirare al bersaglio grosso, il più grosso possibile: si trasferì negli Stati Uniti d’America dove battè un po’ tutti i migliori giocatori americani, compreso il campione in carica Showalter, e grazie a questi successi riuscì a raggranellare una somma da mettere in pa lio contro il campione mondiale Steinitz.
            I due tedeschi si batterono in America nel 1894 in un incontro itinerante tra diverse sedi, quelle delle città i cui circoli avevano contribuito alla borsa in palio ed alle spese generali. Steinitz era condannato alla sconfitta da due fattori: la differenza di età – 32 anni – con lo sfidante, e lo stile di gioco di quest’ultimo. Lasker aveva messo in mostra, nelle sue prove precedenti, una incredibile capacità di adattarsi alle più insolite situazioni che potessero verificarsi sulla scacchiera, rifiutando a priori ogni dogma scacchistico e creando complicazioni che risultassero sgradite all’avversario, anche a costo di correre inevitabili rischi. In realtà, il motto di Lasker davanti alla scacchiera pareva essere: “La perfezione non è di questo mondo” , e quando si accorgeva di aver commesso un errore non si scomponeva più di tanto, ed affrontava difficili situazioni difensive con freddezza e tenacia.
         Al termine della partita  – la diciannovesima – che sanciva la vittoria finale di Lasker, Steinitz invitò i presenti, pubblico ed arbitri, ad acclamare il nuovo campione mondiale. Ma la storia non finì a questo punto: il campione detronizzato pretese ed ottenne un match di rivincita, che venne giocato a Mosca nell’inverno 1896-97 , un match “che non si sarebbe dovuto giocare”, come lo definì un critico, visto che Lasker lo dominò ancor più nettamente del primo.
            Steinitz, all’epoca, soffriva per diversi acciacchi, primo tra tutti una stenosi mitralica, e di tanto in tanto aveva momenti di smarrimento e di irrazionalità. Subito dopo la seconda sconfitta con Lasker, Steinitz venne ricoverato, nonostante le sue proteste, per un periodo di quaranta giorni in una clinica moscovita, la Korsakov, dove venivano curati, secondo i sistemi dell’epoca, i cosiddetti “disturbi mentali”.
 
avatar Scritto da: Paolo Bagnoli (Qui gli altri suoi articoli)


4 Commenti a il caso Morphy, 5ª parte: aria italiana

  1. avatar
    Mongo 3 Dicembre 2012 at 17:34

    La storia si fa pruriginosa… 😉

  2. avatar
    Ivano E. Pollini 4 Dicembre 2012 at 07:58

    Le biografie dei 4 Campioni sono scritte molto bene e sono interessanti, come tutto quel che scrive Paolo Bagnoli.

    A me sono molto piaciute, e vi ho trovato del nuovo. Eppure pensavo di conoscere bene questi campioni ❗

    Bravo ❗ 😛

  3. avatar
    Michele Panizzi 4 Dicembre 2012 at 14:03

    Veramente un bel pezzo da leggere!

  4. avatar
    Giorgio 6 Dicembre 2012 at 07:46

    Sempre più interessante e avvincente, spero che la serie non finisca mai… 😛

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