“colui che si vede da lontano”

Scritto da:  | 15 Settembre 2013 | 15 Commenti | Categoria: C'era una volta, Personaggi

“Non è necessario essere pazzi per salire sul Mont Ventoux. Ma bisogna essere pazzi per ritornarci.”
(Antico proverbio provenzale)

Mont VentouxLa salita dal lato sud del Mont Ventoux era il piatto forte della 13° tappa del Tour de France 1967, da Marsiglia a Carpentras: qundici chilometri di ascensione con una pendenza fino al 15%. Il calvario sarebbe cominciato appena passata la cittadina provenzale di Bedoin, dopo 182 chilometri di saliscendi, e sotto i 42 gradi del caldo torrido di metà luglio.

Alle pendici della montagna la strada è ancora ombreggiata da una fitta foresta, che si dirada rapidamente per lasciare il posto alla macchia mediterranea. Finché tra gli ultimi cinque chilometri e i 1.912 metri della cima, domina un deserto sassoso come un paesaggio lunare, e talmente candido che a vederlo da lontano sembra il Fujiyama.

Eppure il Mont Ventoux non era la vetta più impegnativa di quel Tour de France, a cui si era deciso di far partecipare tredici squadre tutte rigorosamente nazionali, e tutte dell’Europa Occidentale. Appena due giorni prima, i ciclisti avevano affrontato le tappe alpine dall’altimetria più elevata, con i 2.556 metri del Col du Galibier e i 2.111 del Col du Vars. Lassù gli scalatori spagnoli, guidati dal veterano Julio Jiménez, avevano potuto sfoggiare i muscoli, senza però riuscire a scalzare dal podio il leader della corsa, Roger Pingeon.

Era arrivato così il giorno del Mont Ventoux, il Monte Ventoso, che coi suoi innumerevoli soprannomi altisonanti, come Il Gigante della Provenza, Il Monte CalvoLa Sentinella di ProvenzaIl Colle delle Tempeste, fino all’appellativo di Il Dio del Male coniato dal filosofo Roland Barthes nel 1957, si circondava da sempre di un alone mistico. Il Petrarca, primo tra tutti, aveva deciso di sfidarlo già nell’aprile del 1336, quando lo aveva scalato in compagnia del fratello Gherardo, spinto dall’intento di rievocare la sofferenza della via crucis, e incuriosito dalla fama sinistra propagata dalla gente del posto. E a proposito di questa fama, in una famosa lettera il poeta toscano, in veste di alpinista ante litteram, aveva annotato che, poco prima di arrampicarsi sul Ventosum, come si chiamava fino al medioevo:

Abbiamo trovato un vecchio pastore in una delle valli di montagna, che ha cercato, a lungo, di dissuaderci da la salita, dicendo che una cinquantina d’anni prima aveva, nella stesso ardore che hanno i giovani, raggiunto la cima, ma aveva avuto per i suoi dolori nulla, tranne la fatica e il rimpianto, e vestiti e il corpo dilaniato dalle rocce e rovi. Nessuno, per quanto lui o i suoi compagni lo sapeva, aveva mai provato la salita, prima o dopo di lui.  

Il Tour de France invece lo aveva scoperto in tempi relativamente recenti. E la prima ascesa portava la data del 22 luglio 1951, quando si era imposto il francese di origine greca Lucien Lazaridès. Quattro anni dopo sul suo altare era stata immolata la prima vittima sacrificale: il campione svizzero Ferdinand Kübler che, dopo avere tagliato il traguardo, si era accasciato sull’asfalto, stremato dal caldo e dalla fatica. Appena si era ripreso, aveva convocato una conferenza stampa per annunciare il proprio ritiro dalla vita agonistica, dichiarando ai giornalisti con una cospicua dose di auto-ironia:

Ferdi si è suicidato sul Ventoux.

Marsiglia, 13 Luglio 1967. Tom Simpson alla partenza della tappa verso il Mont Ventoux. Foto AFP

Marsiglia, 13 Luglio 1967. Tom Simpson alla partenza della tappa verso il Mont Ventoux. Foto AFP

Diversamente dal simpatico Ferdi Kübler, il ventinovenne Tom Simpson, inglese residente in Belgio, non aveva nessuna intenzione di fare harakiri. Col suo carattere estroverso, allegro e guascone, era perdutamente innamorato della vita, intesa soprattutto nei suoi aspetti più edonistici, come le auto sportive, le vacanze al sud dell’Europa (una sciccheria per l’epoca), e le femmes fatales, nonostante fosse già sposato con tanto di prole.

Nominato ”Sir” per meriti sportivi dopo la vittoria alla Milano-Sanremo del 1964, l’anno successivo aveva conquistato anche il titolo di campione del mondo a San Sebastián. Professionista fin dal 1959, dalla stagione 1963 correva per lo squadrone francese della Peugeot BP, anche se si vociferava di due squadre italiane, la Ignis e la Salvarani dei capitani Antonio Maspes e Felice Gimondi, fortemente interessate al suo ingaggio.

Tom Simpson preparava meticolosamente le proprie gare e la propria forma fisica, ed era un agonista per vocazione. Su quanto fosse importante per lui il successo professionale, la dice lunga questa sua battuta durante un’intervista del 1966:

Sono pronto a tutto pur di vincere. Anche all’ipnotismo.

Per un corridore tanto affamato di successo, la conquista del Tour de France avrebbe rappresentato il momento più alto della vita sportiva: più importante del campionato del mondo, più di ogni altra corsa a tappe, e più delle grandi classiche in linea. E Simpson voleva dimostrare a tutti di essere non soltanto un grande passista, ma anche un “uomo da Tour“.

13 Luglio 1967. Tom Simpson sul Mont Ventoux

13 Luglio 1967. Tom Simpson sul Mont Ventoux

Alla vigilia della tappa del Mont Ventoux stava dimostrando di esserlo a tutti gli effetti, dall’alto di una onorevolissima settima posizione in classifica generale. E la mattina di quel 13 luglio 1967, alla partenza nel centro di Marsiglia, con un caldo così soffocante da indurre gli organizzatori a distribuire foglie di verza da mettere sotto il cappellino a guisa di protezione, Tom Simpson si era svegliato di buon umore, tanto che aveva anche mimato una benedizione agli altri corridori, inzuppando quelle foglie con l’acqua minerale.

Fisicamente la sua condizione era meno incoraggiante. Già dalla salita del Galibier aveva cominciato a soffrire di una fastidiosa dissenteria che lo aveva sensibilmente indebolito. Anche strategicamente la situazione non era proprio l’ideale, visto che la sua squadra, la Gran Bretagna, era stata decimata dai ritiri nel corso della manifestazione, riducendosi ora ad appena tre unità oltre lui. Anche i tre gregari rimastigli accanto non erano in grado di fornire un grande sostegno, e solo raramente riuscivano a mantenere il contatto con i gruppi di testa durante le salite.

Dopo 137 chilometri, percorsi tutti sotto il sole battente e sotto il ronzio delle cicale che infestavano la Provenza a fare da colonna sonora, l’agenda della tappa aveva previsto un ultimo rifornimento a Carpentras, prima di scalare il Ventoux, per poi ridiscendere di nuovo nella stessa Carpentras dal versante opposto.

13 Luglio 1967. Tom Simpson sul Mont Ventoux

13 Luglio 1967. Tom Simpson sul Mont Ventoux

Del resto all’epoca non era permesso prendere acqua o cibo dalle auto delle squadre, e i gregari si precipitavano nei bar lungo il percorso a fare incetta di bevande. E proprio in un bar per la strada, come ha ricordato il giornalista del Guardian, William Fotheringham, nel suo libro “Put me back on my bike“, un gregario di Simpson, l’inesperto neo professionista Colin Lewis, oltre alla Coca Cola, aveva avuto la folgorazione di portare al suo capitano anche una bottiglia di cognac.

Il capitano era troppo assetato per dire di no. Secondo il racconto di Lewis, aveva afferrato spavaldamente quella bottiglia di cognac piena per un quarto, e ne aveva ingurgitato un’abbondante sorsata, prima di gettarla in un campo di girasoli.

Il sole caldo di luglio, unito ai superalcolici, poteva generare già di per sé una miscela micidiale. Ma Simpson, dopo aver placato la sete, aveva estratto dalla tasca posteriore della sua maglietta di cotone (quelle sintetiche in poliestere erano ancora prossime a venire) uno dei suoi tre tubetti di anfetamine, e ne aveva ingerito una compressa.

Infatti, come ricorda il suo stesso gregario e compagno di stanza a quel Tour de France, il solito Colin Lewis, citato sempre nel libro di Fotheringham, due loschi trafficanti italiani di anfetamine (a quei tempi il nostro paese godeva dell’assai poco dignitosa reputazione di centro di smercio di queste sostanze) erano comparsi alla porta della sua camera d’albergo. Simpson li aveva accolti a braccia apperte, acquistando da costoro una scatola di Mickey Finns, come chiamava familiarmente le anfetamine, ad un prezzo di 800 sterline, una cifra corrispondente a più di dieci volte la paga mensile di un ciclista professionista di medio livello.

Appena il gruppo dei corridori era giunto ai piedi del Mont Ventoux era scattata la bagarre tra i migliori in classifica generale. Lo spagnolo Julio Jiménez, seguito come un’ombra dal francese Raymond Poulidor, aveva preso qualche preziosa decina di metri di vantaggio su un gruppetto formato dalla maglia gialla Roger Pingeon, Felice Gimondi, Franco Balmamion, l’olandese Jan Janssen, e a chiudere, un Tom Simpson in visibile affanno. Più dietro, la matassa dei corridori, compattissima fino a poco prima, aveva cominciato a sfilacciarsi in piccoli gruppetti sparsi.

Raymond Poulidor era uno scalatore puro, ma in quanto compagno di squadra della maglia gialla Pingeon non aveva collaborato con Jiménez per la buona riuscita della fuga. Anzi, aveva applicato alla lettera i fondamenti dell’ostruzionismo, e quando si alzava dal sellino, era solo per raggiungerlo, sorpassarlo e rompergli il ritmo. Il loro effimero vantaggio si era così inevitabilmente assottigliato, fino a venire riassorbito del tutto dalla reazione del gruppetto dei migliori, dal quale intanto Tom Simpson cominciava a perdere contatto.

L’ossigeno si era rarefatto man mano che si saliva in altura. Non c’erano già più alberi a riparare la strada dal sole, e solo le borracce, allungate dai più misericordiosi tra i quasi centomila spettatori sparsi per la montagna, potevano offrire qualche attimo di refrigerio. A dieci chilometri dalla vetta i sei uomini in testa, a cui si era appena aggiunto lo spagnolo Eduardo Castelló, sembravano scollinare con eleganza e disinvoltura, mentre l’andatura dell’inglese, già affaticata, si appesantiva inesorabilmente.

Mont Ventoux, 13 Luglio 1967. Tom Simpson riceve i primi soccorsi

Mont Ventoux, 13 Luglio 1967. Tom Simpson riceve i primi soccorsi

Simpson, in sempre più evidente difficoltà, era stato raggiunto da un altro plotoncino di cinque inseguitori, condotto dal francese Lucien Aimar, il vincitore del Tour dell’anno prima. Ma anche in questo gruppetto la sua permanenza sarebbe stata breve, e lo stesso Aimar testimonierà che prima di distaccarlo definitivamente:

Gli ho offerto una borraccia, ma lui non mi ha potuto sentire. Il suo sguardo era perduto nel vuoto. Eppure la cosa più strana era che continuava a tentare di superarmi. Io gli ho detto di non fare sciocchezze. Ma lui non mi ha nemmeno risposto.

I fatti raccontati da Aimar avvenivano a poco più di cinque chilometri dalla sommità del Mont Ventoux. Ed è a questo punto che la crisi di Simpson si era aggravata drammaticamente. In condizioni normali probabilmente si sarebbe ritirato, o almeno avrebbe notevolmente diminuito la propria andatura. Ma l’effetto delle anfetamine aveva reso il suo sistema nervoso insensibile alla fatica, mentre l’azione combinata del caldo torrido, del sole delle tre del pomeriggio, della rarefazione dell’ ossigeno a quasi duemila metri di altitudine, e di uno sforzo al di là dei propri limiti, lo stava distruggendo fisicamente.

A due chilometri e mezzo dalla cima le sue difficoltà si stavano tramutando in un dramma vero e proprio. Aveva cominciato a pedalare a zig-zag, e sembrava dovesse crollare sull’asfalto da un momento all’altro. Il suo fisico era sul punto di cedere di schianto, ma il cervello gli suggeriva di andare avanti ancora. Avrebbe continuato così per un altro chilometro, quando dall’auto della sua squadra sarebbero usciti i suoi secondi per soccorrerlo.

Ma Tom Simpson, ormai intorpidito dall’insolazione e dalle anfetamine, aveva intimato loro con un filo di voce e un tono apatico:

No, no.  Voglio andare avanti. Lasciatemi andare.

Gli uomini della rappresentativa britannica inizialmente avevano eseguito alla lettera gli ordini del loro capitano, e lo avevano lasciato continuare per alcune decine di metri ancora. Poi, quando si erano resi conto che aveva perso del tutto ogni lucidità, erano tornati sui loro passi, e lo avevano accompagnato sul ciglio della strada. Anche questa volta però, Simpson aveva continuato a ripetere ossessivamente:

On, on, on. (Avanti, avanti, avanti).

Il giorno dopo un giornalista del Sun e di Cycling Weekly, Sidney Saltmarsh, avrebbe scritto che le sue ultime parole erano state: “Put me back on my bike” (“Rimettetemi in sella“). Questa frase, ben più suggestiva di quella realmente pronunciata, avrebbe colpito l’immaginario degli appassionati di ciclismo di tutto il mondo, e sarebbe diventata l’icona della sua odissea.

Riportando lo sguardo sulla tragedia del Mont Ventoux, Simpson era stato steso sulla pietraia biancastra, a poco più di un chilometro dalla vetta. I soccorsi erano arrivati dopo circa dieci minuti. E il dottor Pierre Dumas, il medico ufficiale del Tour de France fin dal 1952, gli aveva praticato una respirazione bocca a bocca, prima di applicargli una rudimentale maschera d’ossigeno sul viso.

Mont Ventoux, Provenza (Francia). La lapide in memoria di Tom Simpson

Mont Ventoux, Provenza (Francia). La lapide in memoria di Tom Simpson

Mentre il campione inglese agonizzava sul margine destro della strada, un chilometro e mezzo più in alto, Julio Jimenez, dopo essersi finalmente sbarazzato dell’asfissiante marcatura di Poulidor, arrivava a tagliare per primo, e con più di un minuto di distacco sui più diretti inseguitori, il traguardo del Ventoux, in cui era posto il Gran Premio della Montagna. Il suo vantaggio però si sarebbe squagliato rapidamente nei venti chilometri di discesa a capofitto verso il traguardo finale di Carpentras, dove avrebbe vinto allo sprint l’olandese Jan Janssen.

I ciclisti in discesa dal Mont Ventoux non sapevano ancora nulla di quanto stava accadendo a Simpson, così come ignoravano che un elicottero lo stava trasportando d’urgenza all’ospedale di Avignone, cercando disperatamente di salvargli la vita. Ma ormai era troppo tardi, e una volta giunto all’ospedale i medici non avevano potuto fare altro che constatarne il decesso.

Un’ora dopo, nella sala stampa del Tour, in una chiesa sconsacrata di Carpentras, il dottor Dumas aveva letto il comunicato ufficiale della morte di Tom Simpson, aggiungendo che: “I medici hanno deciso di rifiutare il permesso alla sepoltura“.

Questo significava che si sarebbe dovuta effettuare un’autopsia per stabilire le cause esatte del decesso. Infatti, anche se la notizia non era ancora stata ufficialmente comunicata ai giornalisti, erano stati trovati i tre tubetti di anfetamine nella tasca di Simpson, ed immediatamente consegnati alla Gendarmerie. Il procuratore locale aveva aperto un’inchiesta, e quella notte stessa i tecnici al seguito della squadra britannica erano stati sottoposti ad interrogatorio. Anche la camera d’albergo dove Simpson soggiornava era stata perquisita, e la polizia francese vi aveva rinvenuto altre dosi di anfetamine.

Venti giorni dopo la tragedia del Mont Ventoux, il 2 agosto 1967 venivano resi pubblici i risultati dell’autopsia, secondo la quale le dosi di stupefacenti ingerite da Tom Simpson non erano state la causa diretta della sua morte. Questa veniva infatti imputata a una serie di fattori concatenati tra loro: il colpo di calore, lo sforzo fisico e la rarefazione dell’ossigeno, che avevano determinato un collasso cardiaco. Ma senza l’assunzione delle anfetamine, che avevano alterato la sua percezione della fatica e della sofferenza, tutto questo non sarebbe certamente avvenuto.

In quelle settimane la tragedia di Simpson e le immagini della sua morte, registrate dalle televisioni, avevano colpito profondamente non solo il ciclismo, ma l’intero mondo dello sport. I giornali europei avevano dato un grande risalto ai fatti accaduti sul Mont Ventoux. E per la prima volta nella storia si era cominciato a parlare di “lotta al doping“. Il vaso di Pandora delle sostanze dopanti era stato appena scoperchiato.

separator4Un particolare ringraziamento a Francesco Monopoli e al suo “scatto di sport” del 6 ottobre 2008, al quale è ispirato questo articolo.

Mont Ventoux 2

avatar Scritto da: Marco Regazzoni (Qui gli altri suoi articoli)


15 Commenti a “colui che si vede da lontano”

  1. avatar
    Marramaquis 15 Settembre 2013 at 13:22

    Complimenti, Marco, interessantissima lettura e (per me) un gradito tuffo nel passato. Certo che il vaso di Pandora del doping deve avere mille coperchi.
    Proprio stamattina a Porta Portese ho conosciuto un signore di 72 anni, benissimo portati, ex calciatore ed ex ciclista. Va ancora in bici, tutti i giorni, e fa anche 100-130 Km al giorno. Porta con sé una borraccia d’acqua. Mi raccontava che, anche fra i cicloamatori, lui è fra i pochissimi ad andare avanti a pane ed acqua: tutti, giovani e meno giovani, mettono in borraccia qualcosina, dalle cose più innocue a quelle più strane. Ma allora?
    Ma allora?

  2. avatar
    Guy 15 Settembre 2013 at 19:18

    in calce a questo bellissimo pezzo di Marco vorrei aggiungere anch’io due righe sul commento di Mongo relativo al Giro del 1984 vinto da Moser:

    “Non credo che in quel giro Moser fosse dopato; certo che qualcosa di poco lecito, ma allora permesso o non ancora riscontrabile, lo aveva fatto prima di Città del Messico (si vociferava di trasfusioni di sangue).
    Però, e dimmi se sbaglio, a spingere quella bicicletta con quel super rapporto, anche se ‘aiutato’ dalle ruote lenticolari, ci volevano sempre delle signore gambe e Fignon, in quella tappa che concluse il giro a Verona, di gambe non ne aveva proprio più.”

    Da tifoso sfegatato del trentino considerai quel Giro vinto in modo meritorio. A posteriori non posso tuttavia non mettere sulla bilancia che:

    1.) gli fu ritagliato davvero su misura (tante cronometro e poca montagna)
    2.) probabilmente davvero Francesco aveva usufruito della preparazione ad hoc per il Record dell’Ora
    3.) Cronometro conclusiva (Soave-Verona): davvero l’elicottero della Rai riprendeva il francese da davanti e l’italiano da dietro… con probabile effetto vento a sfavore del primo e a favore del secondo

    In ultimo mi pare davvero poco plausibile che un corridore si ritiri e poi a distanza di anni torni a migliorare il proprio record dell’ora così inspiegabilmente…

    Tuttavia Moser è stato senza dubbio un ottimo corridore, sul pavé della Roubaix secondo forse solo al Roger De Vlaeminck dei tempi d’oro…

    • avatar
      alfredo 15 Settembre 2013 at 20:45

      tanto per dire : terzo fu il grande Moreno Argentin
      un fuoriclasse delle corse di un giorno
      ma che con le corse a tappe aveva un rapporto pessimo ( bassa guardare i suoi piazzamenti negli altri giri … tranne questo )

  3. avatar
    alfredo 15 Settembre 2013 at 20:15

    c’è qualcosa che ogni tanto non va
    avevo scritto una risposta a questo post e a Guy ( è un invito a nozze per un malato di ciclismo come me) ma il pc se lo è ancora mangiato
    Solo chi ha fatto il Ventoux puo’ avere l’idea di cosa sia
    ci sono salite piu’ dure ( il mortirolo o la Bocchetta del giro dell’ Appennino sono piu’ ” dur” ) ma nessuna ti dà l’impressione di ” morire” come sul VentouxA un certo punto , e ti succede in un momento senza nesun preavviso la gola e i bronchi ti sembrano carta vetrata e vorresti avere delle branchie per fa entrare un po’ di ossigeno
    una volta era considerato inviolabile .Il primo a farlo a piedi fu Petrarca .
    Simpson è , come dce Mura ” un caduto sul lavoro”
    ci mise del suo ma anche i medici lo lasciarono morire per un colpo di calore .
    Anche coppi in fondo mori’ per quello che ora chiameremmo un caso di malasanità

    • avatar
      fds 15 Settembre 2013 at 20:54

      Per cautela, prima di inviare una replica:
      a) evidenzia il testo e fai CTRL+C: salvi il testo momentaneamente negli Appunti del computer, oppure
      b) copincolli il testo in un editore di testo.

      E’ sostanzialmente seccante fare ciò, ma lo è di più riscrivere una replica se è lunga.

      Anche a me è capitato si perdesse una replica, e ho realizzato che accade se dimentico di riempire i campi Nome e Email.

      Ciao
      Franco

      • avatar
        alfredo 15 Settembre 2013 at 20:57

        grazie , Franco , del consiglio
        faro’ cosi’ da ora in poi
        Buona serata! 😀

    • avatar
      Yanez 15 Settembre 2013 at 20:54

      Già… non riuscire a diagnosticare una malaria al rientro da un soggiorno in Africa credo che equivalga a scambiare per una cannetta da irrigazione un serpente velenoso… e pensare che il buon Geminiani telefonò apposta indicando la diagnosi corretta…

      • avatar
        alfredo 15 Settembre 2013 at 21:06

        si ma i medici italiani volevano fare i ” fighi”
        la storia è raccontata molto bene da giuan Brera che di Coppi era amico
        Invece del chinino di stato ( lo si acquistava in tabaccheria a 10 lire) dopo aver diagnosticato una ” polmonite emorragica” lo riempirono di cortisone che per il plasmodio penso sia un alimento assai squisito
        Brera la chiama ” albagia” ” e definisce noi cerusici semplici artefici del destino.
        purtroppo Coppi era già debilitato , i suoi ultimi anni furono penosi
        correva in fondo per sfuggire alla dama bianca che non tollerava piu’.
        ho conosciuto bartali e Magni ( che aveva una concessionaria di auto qui a monza ) da anziani
        Ecco Coppi era qualcosa di diverso
        non me lo sarei mai immaginato anziano
        PS : al funerale di Magni ho visto da vicino Faustino Coppi , il figlio .
        Impressionante la somiglianza . solo un po’ piu’ in carne .
        in effetti noi medici siamo abbastanza stupidi ma nel caso di Coppi ” dotti , medici e sapienti” fecero ben meschina figura
        Allora era di voga la diagnosi ” brillante” , alla dottor Kildare
        e non pensarono a quella piu’ semplice .
        ( cfr Coppi e il Diavolo di Gianni Brera)

  4. avatar
    alfredo 15 Settembre 2013 at 20:20

    sul paragome Moser – De Vlaeminck mi dilunghero piu’ avanti
    chi ci ha pedalato accanto ( seppur su pista , in allenamento , al palasport di Milano, quello crollato sotto la nevicata del 1985 ) puo’ averne una idea
    Roger era un fruscio leggero
    Moser sembrava la cavalcata delle valchirie , faceva rimbombare i tasselli di legno
    li reputo alla pari anche se Roger appartiene alla rara genia dei fuoriclasse purissimi
    Moser fu un fortissimo campione
    Le notazioni su Moser 1984 sono le mie che ho già fatto in risposta a una specifica domanda dell’amico mongo
    discorso lungo …. che parte dal record dell’ora
    a presto
    un saluto a tutti gli amici di soloscacchi e agli amanti del ciclismo ( che per me comunque ieri è definitivamente morto)

  5. avatar
    Mongo 15 Settembre 2013 at 23:44

    Un bel tuffo nel tempo… Me sembra una storia dell’oggi.
    Maledetto doping; hai rovinato uno degli sport più veri che c’erano!
    Rimangono gli scacchi, la boxe (d’epoca) il rugby e… il curling!

    • avatar
      alfredo 16 Settembre 2013 at 12:12

      Solo che ora i corridori non muoiono in corsa, se non per qualche disgrazia come nei casi di Casartelli e Wylandt.
      Muoiono dopo per le conseguenze del doping che spesso innesca tossicodipendenza .
      La lista di corridori morti giovani è impressionante; solo per fare i nomi dei più noti: Pantani, Van den Brouke, Jmenez (tre campioni), Fois (un buonissimo corridore), Gelfi (suicida dopo depressione), Tonon ( ex prof con Battaglin) e tanti altri.
      Il caso Horner spero che segni uno spartiacque; è andato al di là del 20 – 30 per cento di limiti fisiologici misurabili il laboratorio in condizioni di base.
      Leggi l’articolo di Capodacqua, non basta più il passaporto biologico o il controllo a sorpresa dell’ematocrito ora (e mi dispiace non ci sia più Sassi) si può misurare la “cilindrata” di un corridore e se una ‘fiesta’ va improvvisamente come una Ferrari qualcosa non va
      smettiamola con questa farsa della accurata preparrazione e degli allenamenti
      vedere Horner a 42 anni scatare come Gaul o Pantani sull’Angliru non è semplicemente credibile agli occhi di nessuno .
      comunque tornero’ su Moser e de Vlaeminck ( il mio corridore preferito )
      complessivamente a carriera conclusa pi’ o meno da considerarsi alla pari ma con alcuni ma …

  6. avatar
    Marramaquis 16 Settembre 2013 at 06:40

    …. e il Nascondino!

  7. avatar
    alfredo 16 Settembre 2013 at 17:17

    beh Marramquis prova pensare se le olimpiadi del 2024 dovesero essere assegnate alla ” padania” come dice Maroni
    ora non ho tempo ma vorrei scrivere tante cose
    Simpson stava per essere ingaggiato da una squadra italiana ( mi racconto’ la storia un ex prof che ne era amico) , aveva preso una casa in corsica e tramite i suoi amici corridori la stava arredando con mobili di produzione italiana
    era un campione autentico vincitore di Sanremo, Tour e Lombardia , per dire
    La vedova sposo’ poi Barry Hoban che per anni fu il miglior corridore inglese dopo di lui e che perese al fotonisch un fiandre contro franc Verberck . Te lo ricordi Verbeck ?

  8. avatar
    alfredo 16 Settembre 2013 at 18:14

    la foto del Ventoux è splendida
    si vede proprio il tratto che dicevo
    quello in cui ti senti la carta vetrata in gola e nei bronchi e daresti un anno di vita per una molecola di ossigeno
    Le amfetamine le prendevano tutti
    l’errore che fece Tommy fu di bere un robusto bicchiere di ” pastis” che veniva offerta dai tifosi lungo il percorso .
    l’alcool ( il pastis è una bevanda fermentata fatta con la frutta e puo’ raggingere i 40 % di gradazione ) insieme alle amfeamine furono un cocktail micidiale .
    ma ripeto si poteva salvare semplicemente ” raffreddandolo” ma soprattutto fermandolo . Il corridore sotto amfeamina non si ferma . mi ricordo un anno al Baracchi un prfessionista , Scandelli , buttato giu’ al Vigorelli perchè non si fermava dopo il termine della corsa
    Anche alle Olimpiadi di Roma 60 vi fu un dilettante olandese che mori’ cosi’ durante la prova su strada
    Gianni Mura ricorda che prima della partenza Tommy prese un pennello a mo’ di aspersorio e benedi’ i suoi compagni di Tour con la frase ” ragazzi oggi andiamo a morire” .
    e pe lui cosi’ fu
    mi rendo conto di dire molte cose simili a quelle magistralmente raccontate
    ma la storia cosi’ fu .

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