“Papà, papà?! Hai portato un regalo per noi, da Parigi?” Con queste parole, Antonio e io, tutti felici per il suo ritorno, eravamo andati dal papà, seduto sul divano del salotto e occupato a fumare una sigaretta, dopo cena. Prima di quel momento non avremmo osato. Per noi era un rito, che si ripeteva tutte le volte che egli tornava da uno dei suoi numerosi viaggi. “Il faut des rites” scrive Antoine de Saint-Exupéry. Forse mio padre aveva deciso di chiamare mio fratello Antonio proprio come il grande scrittore aviatore di Lione. Mio padre era ingegnere aeronautico ed era appena tornato dal Salone di Le Bourget del 1975, dove aveva esposto anche la grande azienda per cui progettava. Era un esperto di teoria dei controlli e dinamica del volo. Da giovane aveva studiato negli USA, al prestigiosissimo MIT. Era il progettista più apprezzato dell’azienda, quello che sceglievano immancabilmente fra i tecnici da mandare nelle missioni all’estero, per risolvere problemi o per supportare i commerciali nelle trattative per le commesse.
Appena il papà entrava in casa dalla porta, correvamo subito verso di lui e gli saltavamo al collo, chiedendogli se era stanco e come era andato il viaggio. Il rito della “consegna” dei “souvenir” era riservato alla serata. Ma non si trattava di una vera consegna dei regali, uno per Antonio e uno per me, perché egli rispondeva: “Non mi ricordo se ho avuto tempo di comprarvi un regalino… Ma provate a cercare nella valigia!”. E noi andavamo di corsa in camera dei genitori, dove la valigia era adagiata a terra perché noi potessimo raggiungerla facilmente. La aprivamo lentamente, per cercare i nostri regali, senza metterne il contenuto in disordine. Spessissimo si trattava di due scatole di costruzioni, i famosi Lego. Ma altre volte erano delle “abat-jour” a forma di mulini a vento con le pale che giravano e il carillon incorporato, oppure dei cavallucci di legno svedesi dipinti a mano. I regali più divertenti erano quelli dai suoi viaggi negli USA, perché erano innovativi tecnicamente. Tecnica dei primi anni ’70, quindi un’automobilina a molla con le ruote sterzanti che faceva lo slalom fra ostacoli di plastica, seguendo un percorso programmato su schede perforate. I radiocomandi non esistevano ancora.
Quella volta da Parigi, il papà aveva portato due libri. Per me un libro pieno di fotografie di aeroplani coloratissime. Il libro per Antonio, che aveva un anno più di me, si intitolava “Le jeu d’échecs”, della famosa collana divulgativa “Que sais-je?”, scritto da François Le Lionnais. La lingua non sarebbe stata un grande problema per Antonio e me, perché la mamma, che aveva studiato letteratura a Grenoble, ci parlava spesso in francese per spingerci a impararlo. Antonio e io aprimmo il libro, incuriositi. Non sapevamo ancora nulla di quel gioco. Corremmo subito dal papà, con i due libri in mano, per ringraziarlo e anche per guardare i regali insieme a lui.
Velocemente sfogliammo insieme il libro sugli aerei, la mia grande passione. Volevo diventare pilota di aerei, ovviamente.
Poi passammo al libro di scacchi. L’avevamo dato in mano al papà, perché non capivamo niente di quei quadrati, a due colori come il vestito di Arlecchino, che vedevamo raffigurati in molte pagine, né quelle colonne piene di lettere e numeri, che ricordavano le operazioni di aritmetica che facevamo a scuola. Ma eravamo abituati a tutti i giochi di logica e geometria che il papà ci proponeva spesso e intuivamo che si trattava certo di qualcosa del genere e che ci fosse bisogno del papà per capirne le regole.
Egli sfogliò le pagine del libro sotto i nostri occhi, spiegandoci che si trattava appunto di un gioco, per noi nuovo, un po’ complicato, ma molto appassionante. Lo guardavamo con gli occhioni spalancati dei bimbi di 7 e 8 anni: “Papà, dai! Spiegaci il gioco!”
Allora andò a prendere una scacchiera e i pezzi da un cassetto del mobile bianco del salotto e ci illustrò come si muove ognuno dei pezzi. Ricordo ancora le parole: “Il Re si muove di una sola casella per volta, perché è vecchio e stanco…”
Poco dopo chiedemmo: “E il libro in francese a che cosa serve, se le regole si imparano così velocemente?” Allora ci disse che vincere a quel gioco non è semplice, ma c’è bisogno di una strategia; che ogni giocatore ha una sua tattica particolare, un po’ come Mazzola e Rivera corrono e tirano in maniera diversa dagli altri calciatori. Perciò ci sono i libri, scritti apposta per aiutare a migliorare le strategie. E iniziò a raccontarci la storia del grande Raúl Capablanca. “Papà, ma ora chi è il giocatore più forte del mondo?”, chiedemmo subito. “Bobby Fischer, un americano giovanissimo”. E così ci raccontava della sfida di Reykjavik contro Spasskij. “Papà, ma perché Fischer non scrive un libro per spiegare la sua strategia?”. “Non ne ha ancora scritti, ma se lo facesse, sarebbe un libro difficile. Invece il libro francese che vi ho regalato è il migliore di tutti, per iniziare.”
Così il papà ci raccontò di Le Lionnais, del grande matematico che era molto appassionato agli scacchi.
Avevo dimenticato da molti anni il libro di Le Lionnais.
E solo pochi mesi fa, una conferenza di matematica me l’ha ricordato.
François Le Lionnais fu un grande erudito. Laureato in ingegneria chimica, si occupò soprattutto di matematica, ma anche di letteratura e di scacchi.
Tenerissimo e godibilissimo!
Le Lionnais è senza alcun dubbio uno dei “grandi” del nostro gioco, non tanto per la forza di gioco, quanto per la sua Cultura Scacchistica.
Mi associo ai complimenti di Paolo che di racconti se ne intende… 😛
io mi sono commosso…
Faccio mio il commento del nostro Paolo: godibilissimo!!!
Bello. Il ricordo, come sempre non la nostalgia, è il futuro.
Mi è venuta in mente la canzone “Prima di Cena” di Fabio Concato (Album “Senza avvisare” “…e dalla strada il rombo del motore, era mio padre con quell’ “Appia” blu, e tornavi dopo un lungo viaggio, ero felice che fossi tu!”
Di Le Lionnais ho il mitico Le prix de beauté aux échecs. Oltre che una bellissima antologia di partite classiche, l’opera contiene anche la più accurata descrizione che conosca delle qualità estetiche di una partita, divise per tipologia. Un contributo quindi all’estetica degli scacchi, che l’autore si sforzò di tradurre in un metodo ‘oggettivo’ per assegnare i premi di bellezza. Come sempre quando si cerca di misurare ciò che per sua natura sfugge alle quantificazioni, questa è la parte meno riuscita del libro.