Pensieri e parole (e numeri)

Scritto da:  | 8 Dicembre 2014 | 57 Commenti | Categoria: Cultura e dintorni

Parbleu

L’altra sera ero lì con il mio anagramma a scarto in francese “Parbleu” che si parlava del per e del diviso (con vera immodestia, siamo più intelligenti non solo della media, ma anche della mediana e della moda). Ci hanno poi raggiunto il suo quasi sinonimo inglese “Wow” e il di lui palindromo “woW” (roba da rimanere senza fiato per quanto sono uguali: due vere gocce di gin).

Ooops, scusate. Per errore ho preso l’incipit di un mio intervento sul blog “Scolapasta per cappello” e non riesco a eliminarlo. Vabbe’, fa nulla, continuiamo così.

Durante la serata, abbiamo iniziato a giocare con le parole in diverse lingue europee. Abbiamo trovato ovvie similitudini, testimonianza di comuni radici proto-indo-europee (PIE), e alcune differenze. Ad esempio, stavamo accompagnando la nostra conversazione con “aqua vitae” secondo i latini, poi diventata per assonanza “acquavite” in italiano, “Okowita” in polacco, “Akvavit” in Scandinavia, e, semanticamente, “eau de vie” in francese, forse “vodka” in russo e “uisge beatha” in gaelico scozzese (da cui per inglesizzazione “whisky;). In ogni caso, un grande successo di mercato da qualche millennio a questa parte.

Qualcuno ha tirato fuori alcune mappe che ci hanno fatto sorridere, discutere e riflettere su quanto la storia dell’Europa sia stata nei secoli un crocevia di popoli, culture e lingue.

Birra

Pensieri e parole e numeri 5“Birra” in diverse lingue europee, con brevissima analisi etimologica.
Divertente il fatto che nella penisola iberica si usi un termine derivato dal gaelico gallese.
Altrettanto degno di nota come nel Caucaso ci siano così tanti diversi nomi per la stessa cosa.

Carta

Pensieri e parole e numeri 4“Paper” (parola di derivazione latina) è praticamente usata ovunque.
Colpisce però che in Italia si usi una parola (“carta”;) di origine greca.

Matita

Pensieri e parole e numeri 3La matita, invece, viene indicata con termini molto diversi, anche se di origine semantica simile

Mela

Pensieri e parole e numeri 2“Mela”, con i suoi molti e diversi nomi (di nuovo il Caucaso spicca per “etimo-diversità”

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Pensieri e parole e numeri 1“Arancia”, invece, viene praticamente indicata con solo 3 parole, ma di origine semantica molto differente: il termine in sanscrito (che significa “frutto favorito dagli elefanti”;), la provenienza del frutto (Cina) e chi lo ha importato (Portogallo)

Siamo poi passati a elencare i nomi del gioco e dei pezzi degli scacchi in tutte le lingue conosciute (e, grazie all’acquavite, anche sconosciute). Se noi occidentali siamo abituati a veder giocare il Re in coppia con la Regina (o Donna), nell’Est del Continente e in Asia quest’ultima ha mantenuto la sua neutralità originale, rimanendo “il visir” (ферзь o ferz’ in russo). Ma gli estoni lo chiamano “lipp“, che significa “bandiera“. Mah.

E’ stato deliberato comunque che è l’Alfiere il pezzo con i nomi più diversi nelle lingue originali: oltre ai camuffamenti europei già citati da Paolo Bagnoli nel suo “Scacchi Matti”, saperlo anche tiratore a Praga ed elefante a Mosca ha accresciuto di molto la nostra stima per questo multiforme pazzo vescovo corridore con lo stendardo (fou bishop läufer alfiere).

E’ stata inoltre eletta come parola della serata il nome del gioco degli scacchi in gallese: “gwyddbwyll“. La pronuncia dei due brilli WoW’s sembrava proprio quella di Stanlio e Ollio ebbri di “acqua ferruginosa”.

Notare al minuto 3:50 quella che può sembrare una scacchiera (ma non lo è) nel covo dei produttori clandestini di acquavite

Tutte queste parole ci hanno fatto anche scoprire collegamenti sorprendenti, come la possibile genesi dello spagnolo “Alfil” (e probabilmente del nostro “Alfiere;): deriverebbe dall’arabo “al-fil”, che è banalmente la parola “fil” con l’articolo davanti, dove “fil” è l’adattamento del persiano “pil“, adattamento causato dal fatto che l’arabo non ha la lettera “p”. E siccome “pil” in persiano significa “elefante“, ecco che lo “alfil” spagnolo nient’altro sarebbe che lo “слон” (slon, elefante) russo! Bellissimo.

Non mi ricordo chi ha cominciato invece ad analizzare le somiglianze dei numeri cardinali nelle varie lingue europee. In effetti, abbiamo realizzato rapidamente che le similitudini erano limitate alle lingue indo-europee (praticamente tutte le maggiori, con l’esclusione di Ungherese, Finlandese, Estone e Basco).

Quel saccente di Parbleu ha cominciato a snocciolare i numeri da uno a dieci in PIE (secondo Beekes): Hoi(h)nos, Duoh, Treies, Keutōr, Penke, (S)uéks, Séptm, Héktek, (H)Néun, Déḱmt. In effetti, abbiamo tutti trovato chiare assonanze con i numeri nelle nostre lingue, tranne… tranne… il quattro e il cinque!

Due

Dunque, vediamo: il due (2), tanto per fare un esempio si sarebbe trasformato da Duoh in Proto-Indo-Europeo a due/deux/dos/two/zwei/dva/duo in giro per l’Europa. Molto bene, tutto torna.

Quattro

Il Keutōr (4) in PIE sarebbe diventato invece quattro/quatre/cuatro per noi latini, četyre/cztery/čtyři nelle lingue slave (e fino a qui più o meno ci saremmo), ma four/vier nelle lingue anglosassoni e téssera in greco moderno.

Cinque

Il Penke (5) in PIE sarebbe diventato pènde in greco moderno, pyat’/pięć/pět nelle lingue slave (e ancora ci potremmo stare), ma cinque/cinq/cinco per noi latini e five/fünf nelle lingue anglosassoni.

Come si spiega? Pensa che ti ripensa, non è venuta fuori nessuna ipotesi robusta. Abbiamo deciso quindi di chiedere aiuto ai lettori di SoloScacchi. C’è qualcuno là fuori che ha un’idea in proposito?

Abbiamo quindi affrontato questioni di campanile, discettando di trifore e bifore, ma quando siamo scesi al livello delle metàfore, ci siamo sentiti veramente pesci fuor d’acquavite: chi insisteva che “vino fa buon sangue“, chi che “buon sangue non mente” e chi che “in vino veritas“. Insomma ci siamo trovati tutti circolarmente d’accordo con noi stessi, senza per questo essere tutti quanti d’accordo.

Alla fine, non essendo riusciti a venirne a capo nonostante i notevoli livelli alcolici raggiunti durante la serata, abbiamo ripiegato su altri giochi di parole: pangrammi in varie lingue e battute del tipo “Buongiorno, Aurelio“, “Piacere, Eustachio“, “Oh, anche lei panvocalico!“, “Ma come si permette?” e giù risate.

Narciso

Poi siamo passati ai palindromi, ammirando e ripetendo quel gioiello di Marco Buratti “Ora diverrò Tal e la Torre vi darò“. Dopo di ciò, Wow ha detto a woW “Ward, sides reversed, is draw“.

Parbleu è rimasto talmente impressionato da questa rivelazione che si è trasformato in un italiano anagramma a frase, ritrovandosi così “Pera blu“. E qui, per pietà, è calato il sipario.

Blue pear

PS: scusate l’approssimazione nella traslitterazione dalle varie lingue, ma questo articolo non è e non vuole essere un trattato di linguistica (di cui non sono affatto esperto: a parte un paio di articoli scientifici che mi hanno mandato alcuni amici, mi sono basato molto sulle mie osservazioni linguistiche in giro per l’Europa e su wikipedia per scrivere il pezzo). E’ solo un tentativo di ragionare e giocare assieme sulle e con le parole, gustandone somiglianze, differenze e possibilità nascoste. E anche di trovare nuove ipotesi alla questione del quattro e del cinque, che mi incuriosisce da parecchio tempo.
Tutte le mappe etimologiche sono prese da www.reddit.com/r/etymologymaps

avatar Scritto da: delpraub (Qui gli altri suoi articoli)

Ingegnere Nucleare mai praticante causa referendum, è Candidato Maestro (a tavolino) con carriera interrotta da una felice paternità. Ha fondato e gestisce una azienda di informatica e si occupa di progetti di ricerca applicata in ambito europeo.


57 Commenti a Pensieri e parole (e numeri)

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    Doroteo Arango 8 Dicembre 2014 at 10:45

    Come? …ancora nessun commento a questo strepitoso pezzo?!?

    Per caso… i topi non hanno nipoti? 😉

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    paolo bagnoli 8 Dicembre 2014 at 10:55

    Trovo il tutto assolutamente delizioso! Vi rimando all’altrettanto deliziosa “collaborazione” tra Eco e Bartezzaghi, in quanto ad anagrammi, sul “Secondo Diario Minimo”.
    Azzardo una ipotesi sul “quattro”: il “tessera” ricorda comunque il “tetra”, addolcito in slavo nella lettera iniziale.
    Una domanda. Mio figlio Alessandro, che vive a Brno, mi dice che il comunissimo nome “Jan” esiste soltanto nei documenti, mentre chi porta tale nome viene chiamato normalmente “Honza”. Perchè?

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      Payot 8 Dicembre 2014 at 11:12

      Se posso “amplificare” l’interpretazione di Paolo, ecco, dai miei ricordi ginnasiali in merito alla doppia grafia di certi nomi greci (per es. thalassa/thalatta) “tessera” probabilmente era “equivalente” a “tettera”, da cui appunto “tetra”, no?

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        delpraub 9 Dicembre 2014 at 22:16

        Paolo, Payot, quello che dite mi sembra molto sensato. Grazie.
        Posso smarcare il “ramo” greco della mia curiosità sulla discendenza del Keutōr (o kwetwores come suggerisce Renato) 🙂

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      Jas Fasola 8 Dicembre 2014 at 12:40

      Allora ti faccio la spiegazione :mrgreen:
      Io in realta’ mi chiamo Jan, Jas e’ il diminutivo (casualmente anche un tipo di fagioli bianchi 😆 ).

      I nostri vicini cechi per dire come fate voi Giovanni usano il termine Jan (di origine ebraica) ma preferiscono poi dire Honza che viene dal tedesco Hans, diminutivo di Johannes.

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    paolo bagnoli 8 Dicembre 2014 at 11:05

    Altro interrogativo: da dove salta fuori, in slavo, “devet” per “nove”?
    A proposito della singolarità dell’ungherese rispetto agli idiomi circostanti geograficamente, lessi anni fa che tra ungheresi e finnici esistono parecchie parentele anche linguistiche derivanti dal fatto che la grande migrazione ugro-finnica del MedioEvo (proveniente, tanto per canbiare, dalle steppe e dagli altopiani dell’Asia Centrale) si “spaccò in due” nell’allora quasi inesistente Russia, con magiari in cammino verso sud e finnici verso nord. E’ vero?
    Attendo lumi.

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      nikola 8 Dicembre 2014 at 11:28

      provo a rispondere al quesito ‘ungherese’ essendomi da qualche tempo stanziato in quel di Budapest. La mia ragazza, ungherese di nascita e studiosa di storia della lingua, mi ha detto più volte che l’ungherese e il finnico fanno parte dello stesso ceppo linguistico (unico al mondo e denominato appunto ugro-finnico). Essendo i primi ungheresi provenienti dagli Urali si può dedurre che i due popoli siano lontani parenti. recenti studi sul dna hanno dimostrato però che tra i due attualmente non ci sia affinità. si potrebbe dedurre che il patrimonio genetico delle antiche popolazioni magiare che hanno introdotto qui la lingua sia col tempo andato perso, ma che ovviamente sia rimasta la lingua.
      da parte mia posso dire che questa lingua è allo stesso tempo affascinante per la sua stranezza e difficile da imparare perchè totalmente diversa rispetto a tutte le altre per struttura e pronuncia.

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      delpraub 9 Dicembre 2014 at 22:27

      Una cosa che mi è stata detta (e di cui ho trovato conferma anche in qualche remoto anfratto di wikipedia) è la tendenza alla allitterazione di parole adiacenti in una sequenza (come i numeri).
      Nelle terre slave, Il nove avrebbe avuto la tendenza ad assomigliare al successivo dieci, con la conseguenza che l’iniziale “enne” è diventata una “di”: ecco quindi che il “nevet” (o simili) è diventato un “devet” (o simili).
      Credo che in qualche maniera questo fenomeno (che sicuramente “filologo” conosce davvero, non come me che spilucco informazioni qua e là) sta alla base della numerazione di fantasia che immagino molti noi abbiamo imparato da bambini. So che varia da regione a regione, ma io (di ascendenze senesi) me la ricordo così:
      Unzi, Dunzi, Trenzi, Quari, Quarinzi, Meli, Melinzi, Riffe, Raffe e Ceci.

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    Renato Andreoli 8 Dicembre 2014 at 11:41

    Un argomento affascinante e di una vastità inesauribile, caro Parbleu+d.
    Secondo me, la difficoltà che si presenta nel trovare le corrispondenza fra le parole antiche e quelle moderne può a volte dipendere dalla scrittura imprecisa dei termini che potrebbe non corrispondere alla pronuncia originale.
    Per esempio, se invece di Keutōr, scriviamo kwetwores, come trovo in un’altra fonte, possiamo passare più facilmente attraverso il gotico fidvor al tedesco vier e all’inglese four.
    Oppure, se la voce indoeuropea, invece di Penke è Pemkwe, si vede subito la somiglianza con il latino quinque.
    E’ sempre divertente il caso di parole che nel passaggio da una lingua all’altra vengono “addomesticate”, come nel caso dell’Alfiere.
    Un esempio bellissimo è quello del nome della città di Redipuglia, dove non ci entra né il re né la Puglia, ma l’origine sta nelle voci slave Sredi (fra) e Polja(piano).

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      delpraub 9 Dicembre 2014 at 22:45

      Hai ragione Renato, l’argomento è vastissimo e non ho nessuna presunzione di percorrerlo. Però tiro fuori spesso il “busillis” (ci torno dopo) del quattro e del cinque, e ti assicuro che nascono sempre discussioni interessanti.
      Quello che dici sulla dimensione fonetica delle parole antiche è giustissimo ed è molto probabile che la deriva gotica che tu citi sia la spiegazione giusta.
      Non che mi sembra però che si passi tanto facilmente da kwetwores a fidvor o da penke a fimf (come dice anche, più sotto, Filologo). Una volta fatto questo passo, arrivare a four/vier e five/fünf è semplice.
      Come prima nel caso del nove slavo che ha preso l’iniziale “di” dal successivo dieci, anche qui uno tra fidvor e fimf potrebbe aver preso la “effe” dall’altro, ma quale? Però ci stiamo avvicinando a ipotesi molto plausibili, che potrò giocare alla grande 🙂 Grazie.

      Per il “busillis”, è noto come questa parola (che ha il significato di problema difficile o impossibile) derivi da una errata interpretazione di un testo latino. Infatti, nella copiatura della frase “in diebus illis magnis plenæ” (“in quei giorni vi era abbondanza di grandi cose), un frate amanuense, ingannato dalla mancanza di spazi tra le parole (cosa normale all’epoca), trascrisse “indie busillis magnis plenæ” (“in India c’era abbondanza di grandi busillis”;). Ora il significato di questo ablativo plurale (“busillis”;) rappresentò, ovviamente, un problema irrisolvibile. Di tutto ciò a noi, complice il Manzoni, è rimasto questo termine assolutamente intraducibile in altre lingue.

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    Enrico Cecchelli 8 Dicembre 2014 at 13:52

    Dopo una mattinata trascorsa in giardino a vangare e zappare, pregustavo il momento in cui avrei potuto “liberare la mente” leggendo il mio blog preferito. …. MI COION I!!… Dopo aver letto l’articolo ho avuto gravi crisi d’identità, avevo paura di chiamare mia moglie Gabriella temendo di vedersi materializzare una caucasica tracagnotta o i miei prosaici e banali figli Giacomo e Filippo che potevano tramutarsi in due pigmei incrociati con un pinguino papua del borneo. Ma soprattutto lo sconforto più grande è stato quando mi sono soffermato a pensare se avessero fatto bene i miei genitori a farmi fare le scuole alte… Poi, dopo tre Spritz in rapida successione, improvvisa, chiara, la rivelazione . Si, i miei genitori hanno proprio sbagliato !
    P.S.Ovviamente complimenti per l’interessantissimo e originalissimo articolo!

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    Marco "Marchino" Nebuloni 8 Dicembre 2014 at 15:50

    Seppure da semplice lettore silente, da lurker, ho spesso riscontrato negli articoli a
    firma delpraub due costanti: l’originalità delle sue proposte e la freschezza della cifra stilistica. Innegabili qualità presenti anche in questo ultimo suo buon lavoro.

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    Zenone 8 Dicembre 2014 at 18:53

    Bellissimo e intessante il pezzo e i commenti alla stessa altezza!
    Quando leggo questi pezzi mi viene in mente una delle prime scene de “I 3 giorni del Condor”: Redford (Condor) esce dal posto di lavoro e entra in un bar vicino, piove. Mentre fa l’ordinazione, commenta con il barista il tempo con una frase da cui si comprendono le vaste conoscenze di Condor. Un operaio al banco si gira verso un collega e dice (vado a memoria): “Ecco perché vengo in questo bar la mattina: faccio colazione e imparo molte cose”. Ecco io mi sento così quando leggo questi pezzi (chiedo scusa se non sono precise le citazioni ma è tutto scritto di getto …“a mente”).
    Grazie

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      Tamerlano 9 Dicembre 2014 at 09:35

      Un grazie a Zenone 🙂 e faccio ‘mia’ quella frase! “Ecco perché vengo spesso in questo Blog la mattina, a pranzo e a cena: mangio tre volte al giorno e imparo molte cose”. 😉

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    Marramaquis 8 Dicembre 2014 at 19:46

    Tutto interessante e divertente insieme, ub.
    A proposito, mia moglie mi ricorda che anche nonno Camillo (suo nonno), che nacque in Trastevere e visse in Campo de’ Fiori, ha sempre chiamato “portogallo” l’arancia, e dubito che fosse il solo.
    Pertanto nel prospetto europeo dedicato all’arancia si poteva disegnare qualche pallino verde anche a Roma, oltre che in Piemonte e in Campania. Ma forse oggi non più.
    Mongo, a te risulta per il Piemonte la stessa cosa?

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      fds 8 Dicembre 2014 at 20:08

      Mi hai anticipato 🙂

      In dialetto napoletano l’arancia è il purtuall ovvero “il portogallo”, e i miei genitori usano il termine.
      Non sapevo fosse così pure in Roma o addirittura in Piemonte.

      Dalla cartina dell’articolo si evince che la parola è usata in Romania, Grecia, Turchia, medio-oriente, ecc.
      Da Wikipedia si apprende che in Italia l’albero fu portato da marinai portoghesi.

      La domanda sarebbe: il termine dialettale è importato dall’est Europa/medio oriente, oppure fa riferimento ai primi commercianti?
      Qualcuno lo sa?

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      Roberto Messa 9 Dicembre 2014 at 08:00

      Anche a Brescia si dice – o meglio si diceva – portogallo, soprattutto nel detto: “… verrò a portarti i portogalli” ma credo che pochi bresciani under 30 sappiano interpretare questa frase.
      Voi che non siete under 30, ma di altre regioni, avete lo stesso modo di dire?

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        fds 9 Dicembre 2014 at 08:50

        Se ti riferisci a chi è in carcere, si in Campania.

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          Roberto Messa 9 Dicembre 2014 at 10:07

          Proprio così. Probabilmente nei tempi andati chi andava in visita ai carcerati cercava soprattutto di portare agrumi, per prevenire lo scorbuto.

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            Mongo 9 Dicembre 2014 at 12:04

            Vero, però gli agrumi servivano anche a favorire la fuga dei detenuti.
            Famosa, a tal proposito, è la torta col ‘limone’! 😉

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            Doroteo Arango 12 Dicembre 2014 at 21:43

            Francamente, forse ingenuamente, ho sempre creduto che le arance ai detenuti sono “ammesse” perché per esser sbucciate non hanno bisogno di un coltello… non per tutti gli altri tipi di frutta questo è vero, no?

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      Tamerlano 9 Dicembre 2014 at 09:43

      Anche la mia nonna materna (di Bari) l’arancia la chiamava ‘portucalli’; e anche mia suocera (di Calimera, in provincia di Lecce) la chiama in questo modo ma anche con la parola ‘maranci’ o ‘marangi’…

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      Mongo 9 Dicembre 2014 at 11:44

      Noi mandrogni la chiamiamo portügà.

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    Enrico Cecchelli 8 Dicembre 2014 at 20:37

    Anche in dialetto ligure l’arancia si dice pertugallu

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      delpraub 9 Dicembre 2014 at 22:52

      Insomma, capisco di essere uno dei pochi che non aveva mai sentito chiamare l’arancia “portogallo” (o simili) in Italia!
      Difficile dire dove sia stata chiamata così per la prima volta (non posso credere che in posti diversi in Europa sia stato scelto indipendentemente lo stesso nome).

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    Cardillo - Cordiferro 8 Dicembre 2014 at 21:29

    Vorrei raccontare anch’io una storiella che forse pochi conoscono: esiste infatti in napoletano una locuzione curiosa e singolare che suona “tené ‘e lappese a quadriglié ca m’abballano p’a capa” che letteralmente si può tradurre come “Ho le matite a quadretti che mi ballano in testa” e che comunemente suole esprimere confusione e nervosismo. La cosa buffa è che molti napoletani credono che la locuzione risalga alle famose pubblicità della “matita nazionale Presbitero” i cui manifesti tappezzavano i muri di Napoli come di altre città italiane raffigurando un uomo con la testa trafitta da mille matite e dall’espressione evidentemente penosa e sofferente.
    Matita nazionale Presbitero
    Tuttavia come illustra correttamente Raffaele Bracale “Presa alla lettera la locuzione, che è molto antica, antecedente alle prime commercializzazioni di matite (làppese), non significherebbe niente, atteso che non si è mai visto, né è ipotizzabile qualcuno che abbia delle matite che gli danzino (che è il napoletano abballà etimologicamente dal basso latino ad + ballare) sulla testa, né fa testo il preteso riferimento caldeggiato da qualcuno ad una pubblicità di un’industria che sul finire del 1700 mise in commercio delle matite laccate a minuscoli quadratini bianchi e neri; nelle pubblicità, dette matite erano rappresentate infisse a mo’ di raggiera su di una testa d’uomo sorridente.
    In realtà, lappese = matite, (etimologicamente dal latino lapis (che è propriamente la pietra e cioè la grafite usata nelle matite per tracciar segni, con consueto raddoppiamento espressivo consonantico interno in parole divenute sdrucciole e paragoge finale della e) a quadrigliè è la corruzione dell’espressione latina lapis quadratum corrotta in quadrellatum; dal latino quadrellatu(m), per influenza della lingua iberica nella quale il suono della ll è gl, i napoletani ottennero quadriglié o quatriglié che sta per a quadretti), seu opus reticulatum antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre, facendo combaciare le facce laterali e tenendo la base rivolta verso l’esterno, ed il vertice verso l’interno, piccole piramidi di tufo o altra pietra, per modo che chi guardasse il muro, così costruito, avesse l’impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente. Questa costruzione richiedeva notevole lentezza, precisione ed attenzione con conseguente applicazione mentale tale da procurare nervosismo, rabbia ed instabilità umorale, di talché chi asseriva di avé o tené ‘e làppese a quadriglié intendeva ed intende dire di stare agitato e nervoso tal quale l’operaio che avesse tirato su un muro in lapis quadrellatum”

    Matita nazionale Presbitero

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    paolo bagnoli 8 Dicembre 2014 at 22:01

    In dialetto romagnolo (ravennate) l’arancia si chiama “partugala”. Sarebbe interessante sapere perché (sempre in ravennate) i piselli si chiamano “l’arveia”, mentre nel resto della Romagna la parola usata è “psaréll”.

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      delpraub 9 Dicembre 2014 at 22:59

      Mi hai incuriosito, Paolo, con questa domanda “l’arveia”. Prima dicevo delle mie ascendenze senesi, ma solo per metà: l’altra parte è reggiana e non ho mai sentito questo termine dai miei zii.
      Una possibile spiegazione è la varietà “Roveja” del pisello. Devo dire però che l’ho sentita nominare solo in Umbria e non in Romagna.

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        paolo bagnoli 12 Dicembre 2014 at 00:06

        Una precisazione: Reggio Emilia è in Emilia, la Romagna è in Emilia (si fa per dire…;), Ravenna è in Romagna. Il dialetto ravennate differisce in diversi termini dal dialetto – che so? – forlivese o cesenate o riminese, ma siamo sempre in Romagna. Il punto di riferimento per i ravennati sono i “Sonetti Romagnoli” di Olindo Guerrini (Stecchetti) che era di Sant’Alberto. Un ulteriore esempio: a Ravenna si diceva, per definire uno sciocco o un buono a nulla, “l’è un giulài”, riferendosi all’incapace generale austriaco (Gyulay) che fece impantanare le proprie truppe nelle risaie piemontesi. Ma ormai il nostro dialetto non lo parla più nessuno o quasi.

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          delpraub 12 Dicembre 2014 at 01:35

          Paolo, so bene che Reggio non è in Romagna (figùrati se non mi è stato detto mille e mille volte dai miei… 😉 ), ma visto che stavi cercando notizie su qualcosa che dici si usa solo a Ravenna, ho provato a chiedere se per caso “l’arveia” era una parola nota anche dalle mie parti.
          E poi, in qualche maniera, l’ho trovato (forse) in Umbria: ti sembra plausibile la mia ipotesi?

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            paolo bagnoli 12 Dicembre 2014 at 19:10

            Mi sembra plausibilissima! A questo punto sorge un ulteriore interrogativo: con l’Appennino di mezzo, come è avvenuto il trasferimento – con relativo imbastardimento ravennate – dall’Umbria a Ravenna (e soltanto a Ravenna)? Il termine avrebbe dovuto fermarsi dalle parti di Forlì o Cesena…..

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              delpraub 12 Dicembre 2014 at 19:24

              Veramente non saprei, ma su wikipedia dice che la Roveja viene coltivata anche nelle Marche e forse il termine ha comodamente viaggiato lungo la costa 🙂

              Già che ci siamo, mi ricordo che dalle mie parti il ghiacciolo veniva chiamato “bif” (non ho mai capito perchè). Anche dalle tue?

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                Ricardo Soares 12 Dicembre 2014 at 22:44

                Arveja em espanhol, ervilhas português.
                Grande bacalhau assado com ervilhas! Grande!

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                  paolo bagnoli 14 Dicembre 2014 at 12:41

                  Grazie Ricardo! Visto che Ravenna ha avuto gli Spagnoli in casa per diverso tempo, sicuramente arriverà da lì.

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                paolo bagnoli 14 Dicembre 2014 at 12:38

                Il ghiacciolo da noi era “COF”, la sigla che contrassegnava il produttore. Forse il vostro era “BIF”…

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    Filologo 9 Dicembre 2014 at 09:32

    L’apparente problema della diversità di dizioni per i numeri quattro e cinque si spiega con la presenza all’inizio di un’originaria consonante labiovelare indoeuropea kw o qw, ancora attestata nel dialetto miceneo di secondo millennio, ma trasformata, a seconda dei dialetti e delle lingue, nei suoni p, k o t. Così ad esempio in latino Quando, ma in greco ποτέ ( e però in ionico κοτέ). Le lingue germaniche mantengono comportamenti particolari (nell’esempio sopra inglese When, tedesco Wenn), e come si sia arrivati a un esito della labiovelare nella fricativa F è ancora ignoto.

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      delpraub 9 Dicembre 2014 at 23:10

      Grazie Filologo: contavo su di te (e sul fatto che il tuo nickname non fosse completamente inventato) 🙂
      Quindi la “kw” o “qw” sarebbe potuta diventare una “p”, ma poi perchè entrambe le “p” di 4 e 5 siano diventate “f” ancora non è chiaro.
      Qualcuno dei miei amici tedeschi suggeriva che nelle lingue germaniche si facesse spesso riferimento al 5 con la parola che significa pugno (“fust”;) e che alla fine tra “fust” e “penke” sia venuto fuori un “fimf”, dal quale poi il 4 abbia preso la “effe” per allitterazione.
      Sembra un po’ tirata ma ho visto ipotesi scientifiche molto più strampalate…
      Che ne dite?

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        Renato Andreoli 10 Dicembre 2014 at 13:48

        In effetti avevo dimenticato di scrivere che il vecchio dizionario etimologico che ho consultato alla voce cinque dice:
        dal lat. quinque, da penkwe indoeur. col significato originario di pugno; sansr. pànka, persn. pang(Punjab o Pangiab,”regione dei cinque fiumi”;)
        ….
        Il nome proprio Pompeius o Pomponius è la forma osca-umbra per indicare il quinto nato…

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      Tristano Gargiulo 10 Dicembre 2014 at 00:43

      Se posso permettermi di apportare un piccolo contributo all’interessante dibattito che si è sviluppato, osserverei che, nel caso di quinque, la labiovelare etimologica è la seconda (-que), cfr. gr. pente/pempe (che mostra, come anche il sanscrito, che la prima è un’autentica labiale), mentre il qu- iniziale è proprio per quel fenomeno di contiguità con il numerale precedente quattuor, nel quale la labiovelare è etimologica. Quindi l’etimo lat. di 5 sarebbe *penque. Da qui si arriva al germ. fünf per la legge fonetica detta ‘prima rotazione consonantica del germanico’, per la quale le occlusive sorde indoeuropee passano a fricative sorde: per es. lat. pater > ted. Vater ingl. father. E qui torna buona l’osservazione (fatta prima da qualcuno degli intervenuti) che bisogna considerare la fonetica più che la grafia (il ted. Vater equivale al gotico Fadar). E questo spiega anche come, in ultima analisi, l’iniziale di Vier corrisponda foneticamente a quella di Fünf

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        delpraub 10 Dicembre 2014 at 23:47

        Ah, certo, ma come ho fatto a non pensare subito alla “prima rotazione consonantica del germanico”? :mrgreen:
        Grazie Tristano, Filologo e Renato: ora devo solo trovare il modo di costruirci sopra una bella storia e fare il “figo” con i miei amici in giro per l’Europa. 🙂

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          Filologo 11 Dicembre 2014 at 01:59

          Nota anche come Legge di Grimm… In effetti, five/fünf si spiega bene, il problema vero è four/vier. Alcuni credono che sia un fenomeno analogo rispetto al numero cinque.

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            delpraub 12 Dicembre 2014 at 01:49

            Se ho capito bene, per le iniziali sarebbe successo questo nella transizione da PIE a Proto-Germanico:
            – la “p” di penk(w)e [5] si è trasformata (Grimm) nel suono “f”, da cui five/fünf
            – la k(w) di k(w)et(w)er [4] si è trasformata nel suono “k” che si è poi trasformato anch’esso (per allitterazione con la “f” del 5) nel suono “f”, da cui four/vier.

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    Tamerlano 9 Dicembre 2014 at 09:47

    Molto interessante davvero: cultura e divertimento insieme per un grande testo di storia dialettale. Bravo delpraub!

  14. avatar
    alfredo 9 Dicembre 2014 at 14:39

    un articolo veramente intrigante e divertente !
    grazie Del Preaub
    bellisssima la cartolina !

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      Jas Fasola 9 Dicembre 2014 at 15:05

      mi associo!! 🙂

  15. avatar
    Marco "Marchino" Nebuloni 9 Dicembre 2014 at 18:20

    La capacità di attrarre nuovi lettori e le divertenti dispute o discussioni che fioriscono
    come in questo bellissimo scritto di delpraub, rendono SoloScacchi gradevolissimo. Ciò di mattina, nel dopopranzo ed a cena. Di notte non saprei… dormo! :oops:

  16. avatar
    Ivano E. Pollini 9 Dicembre 2014 at 19:36

    Dopo tanti commenti cosa dire?

    Un contributo originale e divertente ❗

    Il pezzo con Stanlio e Ollio è addirittura esilarante 😛

    Soloscacchi si diversifica e migliora ulteriormente con questi pezzi.

    Grazie a delpraub.

  17. avatar
    delpraub 9 Dicembre 2014 at 23:14

    Grazie a tutti. Mi fa molto piacere poter discutere con voi di non “SoloScacchi” davanti ad un virtuale caminetto acceso e a un buono sorso di … fate voi 😛

  18. avatar
    Marramaquis 10 Dicembre 2014 at 07:31

    Marco Buratti! Stupefacente e insuperabile è la sua frase palindroma citata qui da delpraub: “ORA DIVERRO’ TAL E LA TORRE VI DARO'”. Marco, sei grande. Se ancora t’interessi di scacchi e per caso ci leggi, batti un colpo. Ciao!

  19. avatar
    alfredo 10 Dicembre 2014 at 17:27

    ” i topi non avevano nipoti”
    la frase palidrioma citata da sandro Veronesi nel suo caos calmo .
    Sandro Veronesi’ è uno degli autori cha Soloscacchi ha avuto l’onore di ospitare !

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    Renato Andreoli 10 Dicembre 2014 at 18:12

    A proposito di palindromi. Forse non tutti sanno che ne esiste uno mostruoso, di 4587 lettere, scritto da Giuseppe Varaldo per celebrare la vittoria dell’Italia nel mondiale di calcio spagnolo. Un vero e proprio poema, intitolato “11 luglio 1982”.
    http://parliamoitaliano.altervista.org/palindromi/

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      Mongo 10 Dicembre 2014 at 21:52

      E’ stupefacentemente meraviglioso! ❗
      Grazie Renato per la segnalazione e complimentoni al signor Varaldo.

  21. avatar
    brunov 10 Dicembre 2014 at 22:12

    Sentite cosa mi è successo l’altro giorno mentre ero nel mio ambulatorio. Appena arrivato un mio paziente dall’atteggiamento molto sofferente ed ansioso, mostrandomi il suo polso destro, mi chiese “E’ rotto, dottore?” Lo guardai, gli fasciai il braccio e gli prescrissi una radiografia.
    Subito dopo una signora mi portò il figlio che soffriva da tempo di tosse e catarro. Visitai accuratamente il bambino e prescrissi la cura. La signora, evidentemente soddisfatta del mio operato, mi disse che gestiva una gelateria e mi invitò ad assaggiare le sue specialità. Mi disse dove si trovava la gelateria e che non potevo sbagliare perché all’entrata era ben visibile un cartellone con la scritta: “A voi goloso tale gelato solo giova”.
    Mentre accompagnavo la signora all’uscita, vidi dalla finestra un tizio scendere da una limousine, vestito in modo appariscente ed affiancato da due bestioni che avevano tutto l’aspetto di due guardie del corpo. Dopo un minuto suonarono alla porta tutti e tre ed il tizio, esibendo un forte accento russo, volle passare a tutti i costi davanti agli altri pazienti in attesa ed entrò senza chiedere permesso. Dopo poco capii che pretendeva un certificato, sicuramente falso, per chissà quali loschi suoi scopi. E lo disse sventolando un mazzetto di banconote da cento euro. Poiché mi rifiutai di rilasciargli il certificato, se ne andò senza neanche salutare. Sollevato, perché con lui se ne andarono anche i due energumeni, condivisi con gli altri pazienti l’impressione che quel tizio fosse certamente un nuovo arricchito proveniente dalla Russia di Putin e cioè “il burino con i rubli”.
    Finita la giornata, me ne tornai a casa camminando all’indietro…

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      delpraub 10 Dicembre 2014 at 23:35

      A me invece era venuta in mente una domanda terribile prima del processo ad un “medaglione” della Sacra Corona Unita: “E se il GUP è pugliese?”
      Bentornato Brunov 🙂

  22. avatar
    brunov 10 Dicembre 2014 at 22:21

    Vedasi anche la poesia di Umberto Eco composta da parole con la sola vocale “a”.
    http://www.centriantiviolenza.eu/comunicazionedigenere/%E2%80%9Cla-mamma%E2%80%9D-di-umberto-eco-poesia-con-una-sola-vocale/

  23. avatar
    Cardillo - Cordiferro 11 Dicembre 2014 at 20:46

    Curiosa la copertina di stasera dedicata al numero 418, un numero sfenico, cioè esprimibile come prodotto di tre numeri primi: 2, 11 e 19

    • avatar
      delpraub 12 Dicembre 2014 at 15:29

      Grazie Cardillo-Cordiferro per aver aggiunto un’ulteriore sfaccettatura a questo post 🙂
      Ma visto che qui si gioca con parole e numeri, ho guardato rapidamente cosa vuol dire “sfenico”. Dovrebbe derivare dal greco σφήνα che significa “cuneo”.
      Adesso la domanda: perchè un numero con le caratteristiche descritte sarebbe stato associato al concetto di cuneo?

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