L’intruso

Scritto da:  | 30 Aprile 2015 | 4 Commenti | Categoria: Racconti

Si rese conto di essersi appisolato solo quando sentì il foglio di carta accarezzargli il viso scarno.
Sollevò la testa, mentre le mani cercavano d’istinto la penna. Gli sembravano passati solo pochi istanti da quando aveva dettato a Maria quel breve accenno di poesia che adesso emergeva dall’unico foglio sul tavolo, assediato da un mare di cancellature, testimoni dei suoi continui ripensamenti.
Ne ricordava chiaramente l’inizio

Intruso 2Poi, l’intuizione lo aveva sfiorato. Si era perso dietro un pensiero vago, che lo aveva sedotto e suggestionato al punto da sentire il bisogno di chiedere all’amica di lasciarlo per qualche minuto.
Lei aveva sorriso, ne era sicuro, ed era uscita per una breve passeggiata fino al lago.
Rimasto solo, era stato colto da un inaspettato torpore che lo aveva adagiato sul tavolo di noce scuro per un tempo indefinito.
Non ricordava sogni e aveva sete.
Si alzò, dirigendosi verso la porta dello studio. Non aveva bisogno di aiuto per muoversi all’interno della casa, nemmeno del bastone cinese che riposava tranquillo in un portaombrelli decorato con volti femminili a lui ignoti.
Scese reggendosi al corrimano di legno. Quando fu ai piedi della scala si bloccò come in preda a un ripensamento improvviso.
Si sentiva osservato.
Intruso 1Attese senza successo di sfiorare con le caviglie il corpo sinuoso del gatto che gli manifestava il suo affetto in questo modo silenzioso e discreto.
“Maria?” la voce tradì un ansia impercettibile.
“Siediti vecchio”
Lui trasalì. “Signore, non so chi lei sia, ma la avverto che…”
Una nuvola ha coperto il sole. Mucchi di cadaveri ovunque. Grida. Lamenti. I corvi banchettano con oscena lentezza. La battaglia è finita. È impossibile dire chi abbia vinto. Nel fetore dolciastro della carne in decomposizione regna solo la…
Il vecchio iniziò a tossire, si diresse verso la piccola e linda cucina. Prese con mano incerta un bicchiere dal mobile di legno sopra il lavello. Lo riempì e bevve lentamente alcuni sorsi d’acqua, rimettendolo immediatamente al suo posto.
Anni prima il suo medico, rispondendo ai suoi interrogativi, gli aveva spiegato che con la perdita della vista alcuni pazienti potevano accusare strane visioni, niente altro che allucinazioni prodotte dal cervello per compensare in qualche modo la scomparsa delle immagini reali.
Tornò nel salotto, una stanza non troppo grande di forma rettangolare, con un lato occupato quasi interamente da una finestra che dava sul lago. Per il resto, a parte una scrivania, due poltrone e un piccolo tavolo rotondo in un angolo, la stanza era interamente tappezzata di libri. Ve ne erano di molti generi, epoche, formati e dimensioni: testi di letteratura, libri d’arte, trattati di algebra, atlanti.
Spiccavano tra gli altri una Vendicazione della Cabala, una monografia sul Tetragràmaton, e un’edizione assai rara delle Mille e una notte di Weil. Una sezione era riservata all’enciclopedia britannica completa.
Incastrata tra i libri, ticchettava con consumata solerzia una pendola, testimone fedele dello scorrere dei giorni.
“Chi siete?” balbettò, col pudore di chi non ha il coraggio di andare oltre. Era ancora scosso dall’immagine che lo aveva stordito qualche attimo prima, forzando la sua mente come un grimaldello che scardini una porta ritenuta inviolabile.
“Vecchio, credo che tu lo abbia già capito”
Nel silenzio che seguì, il rumore dell’orologio pareva simile allo schioccare di una frusta.
“Sono la tua Morte“
Il vecchio cercò a tentoni la poltrona e si sedette.
Dopo questa dichiarazione, che avrebbe dovuto sembrargli assurda, aveva bisogno di un punto fermo da cui ripartire.
“La Morte che viene a cercarmi, non lo avrei mai immaginato – respirò un paio di volte – oppure sì e non lo ricordo più. Presumo che tutto questo contenga una logica, che vi sia un qualche disegno”
“Mi hai chiamato quando hai iniziato il tuo ultimo scritto. Consideralo un dono, un omaggio a quello che sei stato. A ciò che forse hai appena intravisto”
“Un dono vano come i libri di questa stanza!” alzò la voce senza averlo desiderato. Il suono delle sue parole iniziò a girargli intorno come un boomerang impazzito “…che ormai posso leggere solo nei miei sogni”
Fece una pausa. “Ho sempre sostenuto che la penna potesse muovere inconsapevolmente forze elementari e terribili. Che sia questo, dunque, l’estremo risultato dei miei sforzi?”
L’altro non sembrava interessato a rispondere agli interrogativi che gli venivano posti.
“Dimmi vecchio, corrisponde al vero che, a suo tempo, sei stato nominato supremo custode di tutti i volumi del tuo paese?”

Intruso 3
“Sono stato Direttore della Biblioteca nazionale di Buenos Aires. Fui anche nominato ispettore alle fiere comunali di pollame. Rifiutai, non mi sentivo all’altezza. Mi chiedo ancora oggi se non abbia perduto una grande occasione”
Aveva sperato che l’ironia della frase suscitasse un commento nel suo interlocutore, sarebbero bastate poche parole, solo per alleggerire la tensione. Visto che rimaneva silenzioso continuò, cambiando registro “A quel tempo avevo già perduto la vista quasi completamente. Intorno a me c’erano più di novecentomila volumi che potevo solo farmi leggere da altri. L’ironia di tutto ciò mi
parve sublime. Credo di essere stato sul punto di riconoscere l’esistenza di Dio, un Dio beffardo che elargisce doni in modo solo apparentemente casuale. Quel luogo, che per me poteva rappresentare il paradiso, era invece il simbolo di un’infernale sofferenza. Ci ho riflettuto e scritto per anni”
Tacque, timoroso di avere detto troppo. Girò la testa di lato a inseguire un rumore lontano.
“Abbiamo poco tempo, devi terminare ciò che hai iniziato”
Il vecchio sembrava non avere udito. Non ricordava più con chiarezza quale fosse il denso aroma dell’urgenza, cosa significasse avere una scadenza quando nella clessidra del tempo rimangono solo pochi granelli di sabbia. Per lui, come era stato per suo padre, l’unica battaglia che aveva combattuto con ogni energia disponibile era stata scandita dal fruscio delle pagine lette mentre il mondo intorno diventava indistinto. Entrambi avevano perduto: al termine di un lungo tramonto, il buio era calato su di loro come un manto. I libri non letti, ormai irraggiungibili, erano rimasti a fissarli dagli scaffali, sussurrando le loro storie con una voce troppo bassa per essere uditi.
“Molti anni fa pensavo che sarei morto col cuore trafitto da una lama sconosciuta. Negli orecchi l’eco lontana di una milonga, in qualche contrada polverosa e vaga – respirò brevemente – adesso penso solo al vento che muove la polvere e la sabbia e a tutte le cose che ritrovano un ordine di cui fanno parte anche se lo hanno dimenticato”
Non vi fu risposta.
Allora si alzò, ritornando verso le scale. Si muoveva adagio, prigioniero di un tempo sonnolento.

Intruso 4Costeggiando la parete sfiorava i libri dolcemente, non in cerca di sostegno: era una sorta di muto appello.
Si fermò, lasciando fuggire un soffio dai polmoni stanchi, incapaci di recuperare a ogni respiro l’aria sufficiente per emettere quello successivo.
“Questi libri mi ignorano da anni, non si accorgeranno che non ci sarò più”
Di nuovo non vi fu alcuna risposta.
Allora procedette, col passo di chi sa che la caduta è un evento ineludibile. Arrivato in cima si fermò: “Ho un piccolo desiderio prima di andare”
“Ho già preparato la scacchiera – lo anticipò l’essere senza volto – condurrò le armate bianche, di solito guido eserciti che non riflettono alcuna luce”

Intruso 5Stavolta fu il vecchio a tacere. Un sorriso, rapido come una scintilla, attraversò di nuovo il suo volto. Entrò nello studio e si chiuse la porta alle spalle.
Avrebbe dovuto scrivere da solo questa volta. Era molto tempo che non provava a farlo, Maria era praticamente sempre accanto a lui. Non si sentiva preoccupato, era pervaso da una strana eccitazione, come uno scolaro diligente che sta per affrontare un esame per cui si sente particolarmente preparato. Cercò a tentoni un righello di ferro nel primo cassetto della scrivania, lo avrebbe usato
come base su cui appoggiare le parole che cominciavano a turbinargli nella mente desiderose di qualcosa a cui aggrapparsi. Sentiva, dopo molti anni, di essere vicino a qualcosa di importante. Iniziò a sussurrare, suggerendo alla mano la cadenza, incoraggiandone il movimento. Dopo qualche minuto le dita che reggevano saldamente la penna avevano dimenticato che a guidarle fossero occhi
che da molti anni non conoscevano più la luce del sole.
Immersi nel silenzio notturno, i due giocatori si stavano sfidando. Il bianco annunciava le proprie mosse poi, alla replica del nero, spostava il pezzo nella casa corrispondente.
Il vecchio giocava senza vedere. La lunga pratica e l’abitudine all’ombra, avevano sviluppato in lui questa particolare capacità che normalmente è prerogativa solo di Maestri molto esperti.
Ogni tanto chiedeva qualcosa all’altro che non sempre rispondeva, preferendo rimanere in un composto silenzio.
“Nella mia vita ho pensato molto a questo gioco infinito. I pezzi non sanno dove le nostre mani li stanno conducendo. Allo stesso modo noi giocatori ignoriamo dove altre mani ci portano. E così ci dibattiamo all’infinito, persi in un labirinto di opposti specchi”
Col procedere della partita, la loquacità del vecchio aumentava. Parlava della sua arte, della vista perduta, e di quello che ancora avrebbe desiderato fare. Aveva voluto spiegare all’altro che il nome del gioco derivava dalla parola shah, che in persiano significava “Re”, incurante dell’ostinato silenzio con cui veniva quasi sempre ripagato.
Alla ventiduesima mossa, il bianco diede scacco con la donna. In questo modo però, quest’ultima poteva essere presa dal cavallo avversario che si trovava ancora nella casa di partenza, andando così a incrementare il vantaggio del nero che aveva già catturato numerosi pezzi.
Il vecchio non capiva lo scopo di quell’attacco insensato che aveva decimato le forze avversarie.
Ma questa perplessità gli appariva quantomeno insignificante, considerata l’intera vicenda nel suo complesso. Non sapeva chi fosse l’uomo che gli stava davanti, poiché ne era certo, non poteva che trattarsi di un uomo. Né immaginava per quale motivo costui si fosse introdotto in casa sua con quell’assurda messinscena. Perché ci tenesse tanto ad essere sconfitto, appariva a quel punto solo
una domanda oziosa.
Superata la suggestione iniziale, quando per un attimo – poteva confessarlo tranquillamente a sé stesso – aveva creduto di percepire qualcosa di insolito di fronte a lui, adesso si era convinto di trovarsi al cospetto di un impostore. Tuttavia indugiava volentieri nell’inganno che lo vedeva competere alla scacchiera, nientemeno che con la Morte in persona. Si ricordava di un film in cui un cavaliere aveva tentato allo stesso modo di salvarsi da un destino ormai segnato. Gli era rimasta impressa nella memora un’immagine nella scena finale, in cui figure sottomesse seguivano il Mietitore fino alla cima di una scogliera, scomparendo in una dissolvenza lattiginosa.

Intruso 12
Nella sua casa però non c’era alcuna troupe cinematografica in azione. La voce del suo interlocutore, profonda e al tempo stesso priva di spessore, lo inquietava. Era una voce senz’anima. Sentì un brivido percorrergli la schiena curvata dagli anni.
Alla mia età non posso certo temere la morte.
Si concentrò sulla partita, deciso più che mai a sconfiggere quello squilibrato che si era introdotto nella sua dimora turbandone la perfetta solitudine, alla ricerca di pochi attimi di notorietà.
L’unica cosa che non riusciva ancora a capire era come avesse fatto il sinistro visitatore a sapere dell’esistenza della poesia. Tutto il resto, inclusa la sua passione per gli scacchi, avrebbe potuto scoprirlo facilmente leggendo qualche vecchia intervista. Ma della poesia era a conoscenza un’unica persona.
Si riscosse dai suoi pensieri e tornò a concentrarsi sull’immagine della scacchiera. La sua mente non aveva bisogno delle orbite ormai spente per osservarla con una precisione analitica che neanche l’età aveva saputo sfiancare. Adesso vedeva la disposizione di ogni singolo pezzo, percependo il carattere particolare di ognuno di essi: la maestosità delle Torri alla ricerca di vaste pianure dove scatenare la loro potenza, l’irrequietezza dei Cavalli eccitati dall’odore dalla battaglia, l’obliqua pericolosità degli alfieri, l’incrollabile fiducia dei pedoni, il fascino mortale della Regina, bella e potente, alla cui furia distruttrice era impossibile sottrarsi.
E in ultimo il Re, a contemplare l’azione dall’alto della sua intoccabilità. Il più importante e il più vulnerabile. La sua caduta significava la sconfitta senza appello, la fine della battaglia.
Aveva letto in un libro di psicologia che l’atto finale di una partita, lo scacco matto, rappresentava l’atto di uccidere il proprio genitore.
Si domandava cosa avrebbe significato per lui questa partita.

Intruso 6Sentì un formicolio alla mano destra. Era una sensazione che conosceva bene, l’avviso di un pericolo imminente. L’aveva provato fin dalle prime mosse imparate sulla scacchiera di legno nello studio dove il padre riceveva i clienti. La stessa che suo padre aveva usato per spiegargli il Paradosso di Zenone: la fuga senza fine della tartaruga inseguita da Achille.
Aveva sempre pensato che dietro a questo gioco, le cui origini si perdevano nelle leggende giunte dalla Persia insieme alla polvere bianca del deserto, si nascondesse qualcosa di oscuro e decisivo, composto della stessa sostanza di cui è costituita la grana del tempo.
Chi aveva creato il gioco aveva pagato la propria avidità col sangue: la sua testa contemplava da secoli l’orizzonte dall’alto delle guglie di un minareto, la bocca riempita di chicchi di grano per ricordare agli umili, anche se ricchi d’ingegno, di non abusare della generosità dei potenti.
Era possibile che un semplice uomo avesse potuto immaginare un gioco per contenere segreti tanto importanti?
Ma era poi veramente un gioco?
A lui, che aveva passato lunghe notti alla ricerca di domande a cui dare risposte, sembrava più una religione pagana, capace di possedere i propri adepti con la forza di un Dio, portando alla pazzia coloro che osavano addentrarsi più a fondo lungo il sentiero di pietre bicolori che attraversa l’infinito labirinto della conoscenza.
Tuttavia doveva concentrarsi, lo scacco incombeva, se lo sentiva addosso come una cappa che gli rendeva affannoso il respiro. Aveva già deciso come neutralizzarlo, eppure qualcosa gli sfuggiva. Qualcosa di importante di cui sapeva che avrebbe dovuto tenere conto.
Trattenne il fiato un attimo più del necessario, preparandosi ad annunciare la sua mossa.

Intruso 0

“Cavallo prende la donna”. La mossa fu eseguita.
Adesso era il turno del bianco.
Il misterioso visitatore sollevò l’alfiere, preparandosi a rispondere.
“Tutto tra voi sembra accadere per caso, questo non vale per gli immortali per i quali ogni cosa è solo un’eco di identici atti che l’hanno preceduta. Tale è questa partita. Tu credi di avere compiuto qualcosa di unico e irripetibile. Ma questa sequenza di mosse già è stata. E adesso termina con lo scacco definitivo: il matto di alfiere”
Il vecchio parve percorso da un tremito improvviso. Senza pensare afferrò il braccio del suo interlocutore.
Percepì la stoffa dell’abito con la punta delle dita incerte mentre veniva attraversato da una scarica elettrica.
Ritrasse di scatto la mano. Ansimava.
“Saprò finalmente chi sono? – riuscì a sussurrare”
La Morte sollevò l’alfiere bianco.
“Vedrai di nuovo” – disse, mentre il pezzo si posava lentamente sulla casa di destinazione.
Nello stesso istante la pendola smise di misurare il tempo.
Uno specchio velato, riposto da molti anni in un armadio, si infranse.
Niente altro sconvolse il silenzio.
Non la penombra.
Non i pezzi rimasti sul campo di battaglia.
Né i libri, schierati a proteggere segreti di cui avevano perduto la memoria.
Né il miagolio di un gatto nascosto in un angolo oscuro.
E neppure gli uccelli notturni, persi nelle loro assolute simmetrie.
Per tutta Buenos Aires, e il quartiere della Recoleta non faceva certo eccezione, non si parlava d’altro. Due giorni prima, il 14 giugno del 1986, si era spento a Ginevra Jorge Luís Borges, scrittore, poeta e saggista. L’insigne argentino che aveva contribuito a rendere la sua patria, e soprattutto la capitale, famosa nel vasto mondo della letteratura era celebrato come un eroe nazionale.
Tutti i principali quotidiani, dal Clarín alla Prensa, avevano riservato a questo lutto straordinario le loro prime pagine senza omettere alcun dettaglio.
Si affermava che il corpo dello scrittore era stato rinvenuto accasciato su una scacchiera, stroncato con tutta probabilità da un attacco cardiaco.
Era stata inoltre scoperta una poesia inedita dal titolo Gli enigmi che, a detta della critica, appariva essere un ennesimo capolavoro, una sorta di testamento spirituale dello stesso Borges.

Intruso 7Apparentemente indifferenti a tutto questo fervore, due uomini percorrevano adagio Calle López, costeggiando il cimitero da sud.
Quello che camminava davanti era vestito con un elegante abito scuro che ne metteva in risalto il volto pallido. Era spesso costretto a fermarsi per attendere l’altro, più anziano, che procedeva malfermo sulle gambe e che sembrava essere appena uscito da una lunga convalescenza.
Costui si fermava appena poteva, approfittando dell’ombra di un muro, di un albero, di un appiglio qualunque da cui poteva riprendere fiato mentre si guardava intorno, mostrando curiosità per tutto quello che riusciva a scorgere solo vagamente.
Indicava all’altro luoghi che riconosceva o che in qualche modo catturavano la sua attenzione:
un palazzo, un’incisione all’angolo di una strada o un manifesto fuori da una sala de baile, che annunciava l’imminente gara di tango.
Proteggendosi dal sole del primo pomeriggio avanzava a capo chino, sorreggendosi al braccio del compagno con cui non pareva avere molta familiarità.
Sebbene le strade a quell’ora fossero già piene di gente, nessun passante arrivava a sfiorarli, deviando impercettibilmente la propria traiettoria all’ultimo istante.

Intruso 8
Alla fine di questo percorso intermittente i due imboccarono Calle Aguero, ritrovandosi in un grande parco che aveva al centro un edificio imponente che ricordava un gigantesco fungo.
Salirono una scalinata arrestandosi di fronte all’ingresso. Quello vestito di scuro indicò all’altro la grande targa di pietra posta sulla destra della porta di vetro e acciaio.
Lo sguardo del vecchio si illuminò, penetrando a fatica la vaga foschia da cui era stato avvolto per troppo tempo.
La mano tentò l’inutile porta della Biblioteca Nazionale.
Fu oltre.
L’altro restò immobile.
Immaginò il poeta errare dentro un labirinto di cui conosceva per nome ogni pagina.
Quanto a lui, aveva tempo prima del prossimo appuntamento e non ne era infastidito.
Attendere era una cosa che faceva da sempre.

avatar Scritto da: Lorenzo Cantini (Qui gli altri suoi articoli)


4 Commenti a L’intruso

  1. avatar
    alfredo 30 Aprile 2015 at 09:29

    un benvenuto 😀

  2. avatar
    Martin 1 Maggio 2015 at 09:21

    Vorrei ringraziare anch’io Lorenzo per questo meraviglioso ed emozionante racconto col quale ha vinto, l’anno scorso, il concorso internazionale letterario Il Prione…

  3. avatar
    The dark side of the moon 1 Maggio 2015 at 13:41

    Anche se non molto originale (secondo il mio modestissimo parere), il racconto è scritto con la stoffa dello scrittore.
    Complimenti e ben venuto anche da parte mia 😉

  4. avatar
    Lorenzo 2 Maggio 2015 at 11:07

    In qualche modo, questo sito rappresenta uno dei posti giusti dove questo racconto si sente decisamente a proprio agio :)
    Ringrazio per l’accoglienza e per l’ospitalità :)

    Lorenzo Cantini

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