Non, je ne regrette rien

Scritto da:  | 26 Maggio 2016 | 6 Commenti | Categoria: C'era una volta, Personaggi, Stranieri

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Lei era parigina, aveva una faccia disperata, il piccolo corpo fremente di un uccello – il suo nome d’arte significa “passerotto”, in argot – e una voce imperfetta e meravigliosa. Lui era algerino, aveva una faccia onesta piena di pugni e la rabbia di chi è nato povero ma il benessere non vuole rubarlo.
Edith Piaf e Marcel Cerdan s’incontrarono in un cabaret alla moda, il Club des Cinq a Montmartre, quando avevano varcato la linea dei trent’anni e sapevano cogliere il valore di un’occasione. Lei elegantissima, lui infilato in un abito stretto e vistoso. Così diversi, si annusarono, si rividero in America e lì s’innamorarono.
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Quando, a notte inoltrata, l’amica Irene de Trebert, che ospitava Edith, rientrò nell’appartamento di New York al buio, s’infilò nel letto a due piazze e si scontrò con due corpi avvinghiati e udì sospiri. La guerra, l’ultima nella cronologia dell’orrore, con i lutti infiniti e le macerie polverose, aveva destato voglia di pulizia, di essenzialità: voglia di ricostruire, di ricostruirsi. Edith e Marcel ci provarono. Fu un amore tragico, da romanzo. Nella seconda belle époque sulla Senna, Edith era la diva degli intellettuali, la prima, in anticipo su Juliette Greco, ben diversa dalla più matura Joséphine Baker che faceva impazzire Georges Simenon e tutti i parigini agitando il gonnellino di banane, unico orpello sulla pelle d’ebano; a fine spettacolo staccava le banane e le lanciava agli spettatori, come a dire: “Le bestie siete voi”.
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Per Edith, Jacques Prèvert aveva scritto poesie in forma di canzone. Per Edith, Jean Cocteau aveva scritto canzoni e un’opera teatrale, La bella indifferente. I registi del cinema e del teatro le proponevano copioni impegnati. E dire che la sua vita era cominciata in mezzo alle brutture, il 19 dicembre 1919.
Si chiamava in realtà Edith Giovanna Gassion, sua madre Line Marsa, italiana di Livorno, cantante nelle fiere di paese, sposata al saltimbanco Louis, l’aveva partorita sotto un lampione, in un quartiere malfamato, assistita da un poliziotto. I genitori viaggiavano in una sequela di spettacoli senza storia, l’affidarono alla nonna paterna Marie che gestiva un bordello in Normandia. Edith evase da quel luogo triste per cantare nei parchi e nelle taverne, in duo con l’amica Simone Berteaut. Aveva quindici anni. Poco dopo decise di fare da sola. Si presentò infilata in un abito nero fatto a maglia; non riuscì a ultimare le maniche in tempo e uscì sul palco con una stola sulle spalle.
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A diciassette anni restò incinta del muratore Louis Dupont; nacque Marcelle, morta a due anni di meningite. Tentò di soffocare il dolore cantando. Un abile impresario, Louis Leplé, la avviò al successo, prima di morire in circostanze misteriose.
Aveva una voce imperfetta, Edith, ma densa di emozione, capace di spaziare dalla passione alla leggerezza, dalla disperazione all’incanto. “Ha una gola piena di tragedia” scrisse il critico Lèon-Paul Fargue. Non era bella, Edith, ma fremente, misteriosa, fatale.
Durante la guerra lavorò in clandestinità contro la Gestapo nella Parigi occupata dai nazisti e andò a esibirsi arditamente nei campi di prigionia.
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A Marcel, nato in Algeria ma detto “il bombardiere di Casablanca”, invece la vita non aveva dato il tempo di leggere libri, la vita era fatta di pensieri semplici e cazzotti rudi senza cattiveria. Secondo le leggi del pugilato era un peso medio, il migliore mai visto in Europa. Le differenze, come capita, li attrassero.
La vie en rose, la celebre canzone di Edith, prese toni più caldi. Les feuilles mortes potevano oramai anche cadere, non si posavano più sulla malinconia. Si amarono nell’aria sudata delle palestre e nel profumo dei palcoscenici, tra pugni e canzoni.
Edith, abituata a condurre il gioco dei sentimenti, fu travolta da quell’uomo famoso quanto lei, tosto e tenero. Aveva avuto uomini più giovani, come Yves Montand, li aveva plasmati, aveva fatto la loro fortuna.
Fu attratta proprio dalla diversità di Marcel, dalla sua gentile rudezza, dalla sua maturità senza fronzoli.
La passione fece bene alla carriera.
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Edith era una musa, Marcel nel 1947 conquistò il titolo europeo buttando giù alla prima ripresa Leon Fouquet. Un anno dopo Cyrille Delannoit gli rubò la corona: passarono due mesi e se la riprese. Il titolo mondiale lo ottenne costringendo Tony Zale all’abbandono, sul quadrato di Jersey City.
L’America li adorò. Per lei era facile, le bastava cantare e cantare. Marcel fu costretto a fare i conti con la mafia, poiché la boxe era un business sporco, sotto la Statua della Libertà. Organizzarono la sfida con Jack La Motta, il Toro del Bronx, sul quale avevano molto investito i paesani del boss Frankie Carbo. Jack era davvero il Toro scatenato visto poi nel film, ma la sua vittoria non era certa, poiché Marcel possedeva tecnica raffinata e sonnifero nei pugni. I gregari di Carbo offrirono a Cerdan 400.000 dollari, una fortuna, perché a un certo punto scivolasse al tappeto.
Disse no: quella sua faccia biscottata dal sole la vedeva allo specchio come la faccia pulita della Francia delle colonie. Aveva un’idea limpida dello sport, un’idea perduta.
E tuttavia l’incontro al Briggs Stadium di Detroit, il 16 giugno 1949, fu un calvario. Una mossa falsa strappò i muscoli della spalla destra di Marcel. Il braccio gli pesava come un rimorso, non riusciva a sollevarlo a protezione della faccia e Jack martellava senza scrupoli. Gli assistenti volevano gettare la spugna, il segno della resa, ma Marcel disse: “Se lo fate mi ammazzo”.
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Difendendosi con un pugno solo sotto la tempesta di colpi, pensò al paese lontano, alla Francia accogliente, soprattutto pensò a Edith che doveva essere comunque fiera di lui. Resistette nove riprese, gli inviati speciali adoperarono aggettivi da epopea. Fu la quarta sconfitta in 123 combattimenti. Cerdan decise che avrebbe avuto la rivincita. Tornò in Europa a prepararsi, voleva stendere Jack La Motta e Frankie Carbo, la pena e la sfortuna. Edith rimase in America, passando di trionfo in trionfo. Un giorno gli telefonò: “Ti prego, vieni subito. Prendi l’aereo, con la nave ci vuole troppo tempo. Ho bisogno di te”.
Marcel non la rivide mai. Il suo apparecchio si schiantò sul Picco Redondo, nelle isola Azzorre, il 27 ottobre 1949. Ventiquattr’ore dopo, in nero come sempre, imbottita di roba chimica per restare in piedi, Edith annunciò al pubblico del Versailles, il locale notturno francese di New York: “Stasera canto per Marcel Cerdan, per lui soltanto”. Cantò l’Hymne à l’amour, il suo inno privato: Se un giorno la vita ti strapperà a me, sta’ lontano da me… Se tu muori allontanati da me. Poco mi importa se tu mi ami perché anch’io morirò,  avremo per noi l’eternità, nell’azzurro di tutta l’immensità, nel cielo senza più problemi.
Non lo finì, crollò priva di sensi.
Tento di stordire il dolore nell’alcol, nella droga, in una sequenza di relazioni senza gioia, come quella con Eddie Constantine, il duro dei film polizieschi. Flirtò con l’allora sconosciuto Charles Aznavour. Nel 1951 si illuse di aver ritrovato un uomo giusto, il compositore Jacques Pills, e lo sposò; lo lasciò dopo qualche anno per il ragazzo Felix Martin, a sua volta spodestato dal pittore americano Douglas Davies. Le attribuirono pure amicizie femminili.
Ma non trovò pace, niente la consolava, neppure cantare l’Hymne à l’amour, neppure il trionfo all’Olympia, neppure i sette minuti di applausi alla Carnegie Hall di New York, neppure il dilagare delle autobiografiche Milord – “figlia del porto, ombra della strada” – e Non, je ne regrette rien, “no, nulla di nulla, non rimpiango niente,  né il bene ricevuto né il male”.
All’epilogo del 1961 incontrò un ragazzo semplice, il parrucchiere di sangue greco Teophanis Lamboukas, detto Théo Sarapo. Lo sposò senza starci a riflettere, gli affidò quanto restava della sua vita, nel 1962 per il congedo dall’Olympia intonò insieme con lui A quoi sert, l’amour?Nel 1963 si ammalò di broncopolmonite, Théo la portò in convalescenza sulla Costa Azzurra. Edith era un fantasma, solo le mani, pur ischeletrite, conservano una bellezza regale. Ebbe una ricaduta e tornò in ospedale. Se ne andò all’alba dell’11 ottobre 1963.
Mantenendo una promessa, Théo prelevò in segreto il suo corpo, lo sistemò sul sedile posteriore e viaggiò fino a Parigi. Ai funerali c’era tanta folla, furono necessarie undici vetture per trasportare i fiori.


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avatar Scritto da: Pietro Gargano (Qui gli altri suoi articoli)


6 Commenti a Non, je ne regrette rien

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    Roberto Messa 26 Maggio 2016 at 10:39

    Questa donna, questa storia, questo epilogo, sono pugni duri e, se lasci che ti colpiscano di primo mattino, dopo il caffè, possono metterti al tappeto per tutta la giornata. Io l’ho fatto, ma… “je ne regrette rien”

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    Fabio Lotti 26 Maggio 2016 at 11:58

    Bell’articolo. La vita, la vita, la vita…

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    Enrico Cecchelli 27 Maggio 2016 at 11:26

    Bellissimo articolo per una storia bellissima anche se triste! Vivere per qualcuno o qualcosa così’ intensamente giustifica e riempie sempre la nostra esistenza… Anche attraverso il dolore! Complimenti all’autore da cui aspettiamo altri ritratti per rivivere attraverso la sua penna altre avventure.

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    paolo bagnoli 27 Maggio 2016 at 21:55

    Da parecchio tempo stavo pensando ad una riflessione del tipo “se avessi fatto, se avessi detto…” che può valere anche negli scacchi, così come nella vita. C’è qualcuno che, impassibile, può affermare di non aver mai pensato in questo modo? Amore, vita (VITA) e quel che ne consegue richiamano alla mente lontani ricordi, sfumati nella nebbia del tempo trascorso, ma ancora vivi (VIVI) nei cassetti della memoria.
    Conoscevo molto bene l’affaire Piaf+Cerdan e non posso fare altro che complimentarmi con l’Autore dell’articolo, ma dopodomani scoccano i miei settantacinque anni, un’età nella quale il futuro fugge dietro le spalle, inesorabile, crudele.
    Confesso, senza alcun imbarazzo, di aver pensato sovente in questo modo (“ah, se avessi…”;) ma posso, in assoluta coscienza, affermare di essermi lasciato tale pensiero come scacciare una fastidiosa zanzara?
    Da qualche giorno ho ripreso in mano una raccolta di pseudopoesie di un mio conterraneo, Lorenzo Stecchetti (alias Olindo Guerrini); si intitola “Le rime di Argia Sbolenfi” e risale ad un secolo fa, anno più anno meno. Sottilmente erotico, vagamente volgare, ma sempre permeato di un trascinante umorismo, è un testo che fa riflettere, ivi compresa la prefazione dello stesso Autore. Se vi capita e ne avete voglia, leggetelo, prefazione compresa.

    • avatar
      danilo 28 Maggio 2016 at 13:48

      il tuo compleanno? bene bene, puoi comunicare per favore il tuo iban alla redazione?… metti che ti volessimo fare un regalo… 🙄

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        paolo bagnoli 29 Maggio 2016 at 10:21

        Il mio IBAN è IT32U0306967684510330075926 ma… parli sul serio? Paolo

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