La mia mente ha preso il volo

Scritto da:  | 12 Gennaio 2016 | 7 Commenti | Categoria: Personaggi

David Bowie 03Lo sgomento per la notizia, alle 8 di mattina di un lunedì di gennaio grigio e quasi berlinese, è indescrivibile. Mi sveglio pensando a quanto pallosa sarà la settimana che sta iniziando, le feste natalizie sono da poco finite e mancano ancora due mesi al prossimo ponte che allungherà il weekend di un giorno. Apro Facebook, vedo dei link che parlano di una morte improvvisa ma sono ancora rincoglionito dal sonno, poi mi concentro e comprendo che David Bowie se n’è andato e mi crolla il mondo addosso. Quello presente, ma soprattutto quello che fu: i ricordi di una vita all’improvviso mi scorrono davanti agli occhi come se pure io fossi passato ad altra vita. A peggior vita. Perché c’è vita senza Bowie? Per me, per il 90% dei miei amici e per milioni di persone nel mondo non se n’è andato un cantante qualsiasi, ma un amico, un fratello, un padre, un’icona di un’era che viene definitivamente archiviata. Fine. Non c’è più. Bowie non respira più la mia stessa aria. Addio.

David Bowie 04I ricordi, dicevo. Tanti, troppi. Dalla prima volta che notai questa curiosa creatura (perchè Bowie lo vedi, prima di ascoltarlo e ancora prima di capirlo) nella notte dei tempi, quando ero ancora poltiglia informe senza arte né parte, ascoltavo musica in modalità random, senza sapere cosa davvero pretendevo, dalla musica. E poi crescendo l’ho snobbato, lo ammetto. Avevo bisogno di un sound più terrificante, demoni lungocriniti e urlanti per esorcizzare i demoni dentro di me. Ma verso i 20 anni Bowie è tornato, eccome se è tornato. Abbandonati i sulfurei territori metallici ho abbracciato con anima, corpo e scrause tinte per capelli il suo culto, anche io ennesimo Rebel Rebel without a cause con l’eyeliner sbavato sotto gli occhi e lo smalto scrostato. Bowie influenzava le mie band preferite, loro influenzavano me, io imparavo a padroneggiare la materia attraverso le riviste specializzate, tutti lo citavano e io conoscevo solo le hit e allora spulciavo avidamente nei negozi e acquistavo i suoi dischi, talvolta per omologazione, senza neppure comprendere tutte le sfumature e i sottotesti culturali e sonori che essi contenevano.

David Bowie 06Cominciavo a uscire sempre di più la sera: Milano come Londra, il brit-pop e le serate con la Union Jack fissa nei flyer e sul loro retro duecento nomi di artisti e band suonate dai DJ. Bowie c’era sempre, figuriamoci. Io e gli altri componenti della mia gang ci scambiavamo le cassettine con i dischi che ci mancavano e per riempire i 90 minuti si piazzavano come bonus le b-side contenute nei singoli o le versioni live dei pezzi più fighi. Cioè quasi tutti. Ogni weekend era Natale, davanti alla stazione di Porta Genova il venerdì sera alle 22:30, perché poi nei locali si andava dall’apertura per fare le richieste al DJ e ballare proprio i pezzi di Bowie (& figli) anche a pista semivuota. E poi il sabato a spulciare nel reparto pop-rock alla Virgin in Duomo, facendo mentalmente i conti perché con quei pochi soldi in tasca ci dovevo campare nel weekend, includerci magliette dei gruppi, nuove spillette da appuntare alla giacca di pelle, cinture borchiate, alcol e oltre. E in macchina verso i club ‘Jean Genie’ a tutto volume diventava “gengive”, nei locali i balletti in pista, i pugni alzati al cielo cantando quegli inni generazionali scritti 20-30 anni prima ma così attuali e intensi. E quei 20 secondi di concerto a Milano nel 2003: io a casa scazzato perché con la pseudo-ragazza di allora ero a un vicolo cieco e lei mi chiama per farmi sentire la sua voce mentre canta ‘Ziggy Stardust’. E gli eccessi, lo scimmiotamento del personaggio nel trucco e parrucco e ci si sentiva un po’ goffi e un po’ cool, come il giovane Christian Bale in ‘Velvet Goldmine’, meraviglioso tributo di Todd Haynes alla metamorfosi estetica, interiore, concettuale e sentimentale dell’alieno che rifugge sé stesso, il suo pubblico, l’amore e persino la morte per divenire altro, sempre in anticipo sul mondo, sempre lievemente fuori sincronia e allo stesso tempo dentro lo spirito dei suoi tempi.

David Bowie 07E tutti i suoi “ch-ch-ch-ch-changes“, dal mullet fuxia e i trampoli rosso fuoco al giacchettino di pelle vinilico color pece di ‘Heroes’, che nella Berlino Ovest di fine ’70 forse era un po’ leggero ma c’era altro a far dimenticare l’inverno e la guerra fredda, al ciuffo rockabilly di ‘Boys Keep Swinging’ e la faccia sudata nel bar in Australia per il video di ‘Let’s Dance’, agli antipodi del mondo e agli albori di quegli anni ‘80 in cui il re della forma nella sostanza si è scontrato con un universo concorrente e avverso di pura immagine svuotata da quella presa di coscienza che traspariva dalle canzoni di Bowie. Perché il lascito del Duca Bianco all’umanità, ciò che lo differenzia e lo eleva rispetto a tutti gli altri artisti rock moderni, è la capacità di aver saputo veicolare e imbellettare attraverso le decadi e i generi musicali quella sensazione che i romantici tedeschi dell’Ottocento chiamavano sehnsucht: lo struggimento per qualcosa di indefinito, per una mancanza nell’animo che conduce a irreparabile tristezza. Quell’ossessione per il tempo che passa, che a volte prende una sigaretta e te la mette in bocca, altre volte ti restano solo cinque anni per vivere e altre volte basta un giorno per essere eroi. La dipendenza dal desiderio di restare eternamente vivo e affascinante, solo in apparenza alleviata dall’essere sempre contemporaneo, attraverso il trasformismo estetico e sonoro che nascondeva (o mirava a farlo) una profonda introspezione e una vita di paure, domande e dubbi che per noi fan erano già le risposte di cui avevamo bisogno. C’è vita su Marte? Che domande, ovvio. Non si spiega altrimenti quel volto alieno con il trucco blue (per oggi, scritto sempre con la e alla fine) e quella rara forma di eterocromia degli occhi che turbava e affascinava e ha fatto vacillare l’eterosessualità di intere generazioni di ragazzi, incluso chi scrive. Un doppio sguardo di un viso che in 50 anni di carriera ha indossato mille maschere, giocato con l’ambiguità e con la finzione, con l’innocenza e la malizia, il sogno e la fisicità della performing art, il viaggio negli spazi più profondi e nella psiche di un uomo ossessionato dall’affermazione del suo ego.

Potremmo parlare per ore della sua musica: degli archi di ‘Space Oddity’ e di quell’angosciante countdown, della chitarra di Fripp che dilata un’unica nota per tutta ‘Heroes’ e senti che è la cosa più bella che sia stata mai ideata, una linea sonora eterna che parte dal Muro, circumnaviga il globo e si impenna nella stratosfera mentre Bowie canta della caducità della vita. Quello stronzo è pure riuscito a saltare sul carrozzone dei plumbei anni ‘70 e a rendere cool l’eroina con il suo contributo alle musiche di ‘Christiane F. e i ragazzi dello zoo di Berlino’. Bowie ha inventato il glam-rock, rielaborato il soul e la disco music, si è innamorato delle sperimentazioni kraut. E la fascinazione per l’Oriente, il pop d’autore degli anni ‘80, la parentesi Tin Machine che non se li è cagati molta gente ma ‘Jump, They Say’ e lui ha fatto l’ennesimo salto nel vuoto per reinventarsi di nuovo. Fino agli anni ‘90 e l’industrial rock in ‘Outside’ e pure la sterzata drum’n’bass in ‘Earthling’. Proprio l’altro giorno avevo una voglia assurda di sentire quella gemma chiamata ‘Little Wonder’, col video Mansoniano di Floria Sigismondi negli edifici fatiscenti, la vasca incrostata, il suo doppelganger alieno sugli zatteroni d’oro e Bowie pirata in total black che saltella come un clown del quarto millennio. Un suono rivoluzionario per il me stesso del 1997, che poi veniva rassicurato dal ritorno violentemente rock con l’intergalattico “Sending me so far away” ripetuto all’infinito e la pelle sulle braccia e sulla schiena ancora oggi si alza di due centimetri. Con gli anni 2000 il nostro rapporto confidenziale si incrina: Bowie non sforna di certo dischi epocali e io beh, io mi dimentico di Bowie per inseguire nuove, posticce sirene finite tutte, stagione dopo stagione, nella turca del Plastic. A ‘The Next Day’ nel 2013 dedico ingiustamente un blando ascolto, mentre ‘Blackstar’ non l’ho ancora sentito e ormai credo che aspetterò, perché è il primo disco da quando Bowie non c’è più.

Bisogna poi menzionare il Bowie attore. Alieno (quindi sé stesso) in ‘The Man Who Fell To Earth’, vampiro in ‘The Hunger’, maggiore dell’esercito inglese in ‘Furyo’, cotonatissimo re dei goblin in ‘Labyrinth’, Andy Warhol in ‘Basquiat’, Nikola Tesla in ‘The Prestige’. E l’ultima maschera, quella benda sul volto nel video di ‘Lazarus’, nasconde la sofferenza di un uomo anziano e malato che ha comunque la forza di alzarsi dal suo letto di morte e interpretare fino alla fine il ruolo di giullare triste e nevrotico. Con la sua dipartita è morta anche una parte di me. Ora Bowie ci guarda da chissà dove e senza di lui questo pianeta è ancora più blue. And there’s nothing we can do.

David Bowie 01

avatar Scritto da: Fabio Marcon (Qui gli altri suoi articoli)


7 Commenti a La mia mente ha preso il volo

  1. avatar
    DURRENMATT 13 Gennaio 2016 at 10:06

    …Buon viaggio Duca.

  2. avatar
    Danilo 13 Gennaio 2016 at 14:09

    Grazie Fabio per il tuo contributo sul duca bianco, poco ne so, ma vedo che ė stato amato. Hai scritto in forma personale ma interessante.

  3. avatar
    The dark side of the moon 13 Gennaio 2016 at 14:19

    Un personaggio polivalente, uno degli ultimi Artisti.

  4. avatar
    Enrico 13 Gennaio 2016 at 16:23

    La macchina di Fred lanciata verso l’estate.Prendo la cartuccia super 8.Alzo il volume.Parte “Rebel Rebel”.Quando tutto sembrava conquistabile,quando tutto sembrava possibile.So long,thin white duke

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    Giorgio Gozzi 13 Gennaio 2016 at 18:47

    No. Mi dispiace ma ci deve essere un errore. Ieri mattina si è spento il signor David Robert Jones da tempo malato. David Bowie è vivo e continuerà ad esserlo fino a che le sue note sopravviveranno nella nostra memoria e produrranno testi grondanti di passione come questo bellissimo articolo di Fabio.

  6. avatar
    Roberto Messa 14 Gennaio 2016 at 19:33

    Forse la mia preferita è Space Oddity.
    Sulla sua tomba scriverei:
    “I’m stepping through the door
    And I’m floating in a most peculiar way
    And the stars look very different today”

    Grazie a Fabio Marcon per l’intenso, passionario articolo.

  7. avatar
    Mongo 15 Gennaio 2016 at 00:01

    Non è mai stato uno degli artisti da me ‘amati’. L’unica sua canzone che adoro è ‘Absolute beginners’. RIP 🙄

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