Due parole, en passant, in tema di prescrizione dei diritti e ragionevolezza delle decisioni

Scritto da:  | 20 Dicembre 2017 | 3 Commenti | Categoria: Regolamento, Zibaldone

Sulla scia di un parallelismo già sperimentato, vorrei provare a dare conto della differenza che passa tra la prescrizione (estintiva) e la decadenza, due istituti del diritto privato con i quali, più o meno consapevolmente, tutti abbiamo a che fare. Concluderò questo articolo con qualche divagazione sul concetto di ragionevolezza applicato alle decisioni giudiziarie e al gioco degli scacchi.

  1. Decadenza e prescrizione nel regno delle 64 caselle

Sia la prescrizione che la decadenza hanno a che vedere con il trascorrere del tempo ed entrambe possono comportare l’estinzione di un nostro diritto.

Benché accomunate da questo effetto, detto appunto estintivo, esse sono fondate su due diversi presupposti: il presupposto della prescrizione è l’inerzia del titolare del diritto (es. posso perdere il diritto di passo sul fondo del vicino se non lo esercito per un periodo di venti anni); in questo modo la legge tende a dare certezza al rapporto eliminando un diritto rispetto al quale il titolare mostra un perdurante e totale disinteresse.

La decadenza, invece, si fonda sull’esigenza (oggettiva) di fare in modo che determinati diritti vengano esercitati entro un preciso termine spirato il quale il titolare, come si dice, decade (es. acquisto da un negozio di animali un gatto siamese di tre mesi; dopo un po’ che lo tengo con me, scopro che non miagola per una tracheite -così mi dirà il veterinario- contratta alla nascita; ebbene, siccome questo costituisce un vizio (occulto) dell’animale -tanto più che i siamesi sono apprezzati per i loro frequenti miagolii-, posso rivolgermi al venditore per avere una riduzione del prezzo, ma devo farlo entro otto giorni dalla scoperta del vizio, a meno che non vi siano leggi speciali o usi particolari che dispongano diversamente).

Data la diversità tra i due istituti, determinate regole che riguardano la prescrizione non si applicano alla decadenza. Non si applicano, ad esempio, le disposizioni relative all’interruzione (la prescrizione del diritto di credito posso interromperla con un sollecito di pagamento) e quelle relative alla sospensione (derivanti o da rapporti tra le parti, es. coniugi, o per via di particolari situazioni inerenti il soggetto, es. interdizione per infermità di mente).

Nel regno delle 64 caselle vige una regola che ci aiuta a comprendere la differenza tra prescrizione e decadenza.

Tutti sappiamo che i pedoni, in partenza schierati sulla seconda e sulla settima traversa, si muovono in avanti, occupando la casa immediatamente superiore nella propria colonna; a differenza degli altri pezzi, non possono mai retrocedere e catturano i nemici solo se questi si trovano sulla colonna adiacente in posizione immediatamente superiore. Sono gli unici abitanti del regno che eseguono la presa in maniera diversa dal loro modo di muoversi. Ma le particolarità che li riguardano non finiscono qui. A loro, infatti, sono concesse due facoltà: una è quella di avanzare di due case quando vengono spinti per la prima volta, l’altra è quella di catturare en passant il pedone nemico. Vediamo di che cosa si tratta. Può succedere, come detto, che un pedone avanzi di due case e si affianchi a quello avversario, il quale si trova già o in quarta traversa, se nero, o in quinta, se bianco. Orbene, questo pedone può essere catturato come se si fosse mosso di una casa soltanto. Il pedone affiancato, in sostanza, avanza e si pone nella casa lasciata libera posta alla sua destra o alla sua sinistra. La ratio di questa regola risiede nel fatto che l’avanzare di due case è una sorta di eccezione, consentita, appunto, solo alla prima mossa. Del resto i pedoni sono la milizia che marcia a piedi e, all’inizio della battaglia, sono freschi e pieni di energie; poi si stancano e procedono con lentezza, sempre mirando all’orizzonte dell’ultima traversa per ottenere la meritata promozione… Pertanto, a colui che viene affiancato in un colpo solo dopo aver già faticosamente superato la metà campo viene concessa questa facoltà. Cosa c’entra, tutto questo, con la prescrizione e la decadenza? Con la prescrizione nulla… ma con la decadenza… Chicco e Porreca, nel Libro completo degli scacchi (1957), precisano: “La facoltà del pedone in quinta traversa a catturare il Pedone spinto di due passi ha valore solo per un tempo; se la presa (detta “en passant” o “al passo”) non viene effettuata subito, ad essa non si avrà più diritto, salvo ovviamente il ripetersi di simile situazione su un’altra colonna”. Come si vede, la cattura en passant (ovvero di passaggio: ti supero e ti prendo) o viene eseguita immediatamente (l’espressione, del resto, denota la simultaneità dell’azione) o mai più.

Da questa regola possiamo dunque ricavare un’ immagine che scolpisce in modo efficace il concetto di decadenza la quale, sul piano giuridico, come diceva Torrente, nel suo insuperabile e sempre attuale manuale (una specie di Porreca del diritto), “implica (…) l’onere di esercitare il diritto nel tempo prescritto dalla legge” e può essere “impedita solo dall’esercizio del diritto mediante il compimento dell’atto previsto (per es., con la proposizione della domanda giudiziale)”.

Ma il gioco degli scacchi consente di dare ragione anche della prescrizione. Le partite vengono infatti disputate assegnando ai giocatori un certo tempo. Si va da quelle di un minuto, a quelle a tempo lungo ed inoltre possono essere previsti degli incrementi a mossa. La partita può finire con la vittoria del giocatore che, pur non avendo dato scacco matto, ha utilizzato meno tempo per eseguire le mosse. In altre parole, l’esaurimento del tempo a disposizione comporta la prescrizione del diritto che mi è stato concesso all’inizio. A loro volta, gli incrementi di tempo possono essere visti come casi di sospensione della prescrizione, mentre le mosse di volta in volta compiute sono assimilabili all’interruzione (il mio orologio infatti si ferma e corre quello dell’altro). Come si può intuire c’è una bella differenza tra la prescrizione del diritto al gioco e la decadenza dal poter effettuare, nell’ambito di quel gioco, una determinata mossa!

  1. Il pedone che promuove cambia natura? Sugli effetti della mancata opposizione alla cartella esattoriale…

Una sentenza delle Sezioni unite della Cassazione (la n. 23397 del 17.11.2016), in tema di prescrizione dei diritti, apre una finestra su una questione di cui si sono occupati, guarda caso, alcuni giuristi medievali: il pedone che promuove cambia natura oppure no? Diventa cioè una donna, un cavallo, etc. oppure rimane se stesso, salvo partecipare dell’essenza altrui acquisendone le prerogative?

Prima di dare una risposta e di occuparci delle implicazioni che vi sono tra questi interrogativi e la sentenza in esame è bene ricordare che quando la cassazione si pronuncia a sezioni unite è un po’ come se i cinque giocatori più forti del mondo si riunissero insieme per conferire un premio bellezza ad una partita di scacchi giocata in un determinato torneo. Non lo decide solo Carlsen, ma anche gli altri quattro che gli vengono subito dietro. Insomma, un parere autorevole che, molto difficilmente, può essere messo in discussione. Le sezioni unite si pronunciano, di solito, quando ci sono dei contrasti giurisprudenziali sull’ interpretazione di talune disposizioni normative. Una sezione la vede nera, l’altra la vede bianca, con opposte conseguenze giuridiche. Siccome la disposizione di legge è la stessa, questo contrasto va eliminato per evitare che vengano date soluzioni diverse ad una medesima questione. Ne farebbe le spese, in ultima analisi, il principio per cui tutti siamo uguali davanti alla legge.

Quanto ai diritti, va ricordato che, salvo i casi in cui la legge dispone diversamente, essi si prescrivono in dieci anni (prescrizione ordinaria). Se io presto una somma di denaro, ho dieci anni di tempo per richiederla indietro a partire dalla data concordata per la restituzione. In alcuni casi la legge accorcia la vita del diritto prevedendo una prescrizione più breve. Per fare solo un esempio: se chiedo il ristoro per dei danni, derivanti da un fatto illecito, ho cinque anni di tempo a partire dal giorno in cui si è verificato l’evento e questo tempo si accorcia a due anni se il danno è stato prodotto dalla circolazione stradale. La prescrizione breve, tuttavia, può trasformarsi in prescrizione ordinaria. Lo stabilisce l’art. 2953 del codice civile il quale appunto prevede la “conversione” della prescrizione breve in quella ordinaria con riguardo a quei diritti per i quali sia intervenuta una sentenza di condanna passata in giudicato (c.d. prescrizione decennale da actio judicati).

Il seguente esempio spero possa chiarire il funzionamento e la ratio della regola: nel rispetto del termine dei cinque anni dal fatto, cito in giudizio chi mi ha provocato un danno in quanto mi vedo respingere ogni bonaria richiesta. Se il giudice accerta la responsabilità del mio avversario, lo condanna a pagarmi una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno. Da questo momento (o meglio, da quando la sentenza, come si dice, “passa in giudicato” e cioè non può più essere messa in discussione da nessuno) il termine che la legge mi assegna per recuperare il mio credito diventa quello della prescrizione ordinaria (dieci anni). La ragione di questa trasformazione consiste nel fatto che il mio credito, adesso, non deriva più dal fatto illecito, ma da un provvedimento giurisdizionale, il quale, per così dire, riporta le cose alla normalità, riconduce cioè il diritto alla regola generale. Questo potere di trasformare la prescrizione breve in ordinaria la legge lo assegna soltanto alla sentenza. Ciò nonostante alcuni giudici hanno pensato che anche altri atti (c.d. paragiudiziali, come ad esempio le cartelle esattoriali), una volta divenuti definitivi, potessero spiegare gli stessi effetti della sentenza. Si pensi ad una banale sanzione amministrativa derivante da una violazione ad una disposizione del codice della strada, quella che in gergo si chiama multa. L’autorità amministrativa (es. il Comune di Genova) ha tempo cinque anni, dalla data della commessa violazione, per riscuoterla (art. 28 della Legge 689/81). Se non pago la multa, vengo raggiunto da una cartella esattoriale, per una somma che, generalmente, è pari al doppio della sanzione che avrei potuto pagare nei 60 gg. oltre interessi, oneri di riscossione e spese varie. Ovviamente, se ho dei motivi validi, possono impugnare e oppormi alla cartella, ma se non lo faccio (nel termine di trenta giorni) la cartella diventa definitiva. E qui sta il punto. Fino alla sentenza delle sezioni unite, si riteneva da più parti che Equitalia (ora sostituita dal servizio di riscossione della Agenzia delle Entrate) potesse dar corso all’esecuzione (es. pignorando un bene del debitore) entro dieci anni da quando la cartella era divenuta esecutiva.

Se andiamo a leggere l’art. 2953 c.c.: (“I diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni.”) non possiamo non chiederci come una cartella possa essere stata messa sullo stesso piano di una sentenza.

La cartella, infatti, seppur divenuta definitiva e non più attaccabile, non è una sentenza che promana da un giudice terzo, ma un atto interno e di formazione unilaterale. Certo, per carità, è cosa buona e giusta che la Pubblica amministrazione non sia costretta a rivolgersi al giudice per ottenere un titolo esecutivo, considerati gli interessi pubblici e generali (e non individuali e particolari) che persegue. Ma spingersi oltre, fino ad equiparare la cartella ad una sentenza (un pezzo ad una qualità) conduce alla creazione di un privilegio in favore della Pubblica Amministrazione.

Mentre per il codice la prescrizione passa da breve a ordinaria per solo effetto del provvedimento giurisdizionale (la sentenza), questo modo di intenderla opera una vera e propria magia: il credito (di natura pensionistica, sanzionatoria, fiscale, etc., per il quale è prevista una prescrizione breve) cambia natura e diventa un credito ordinario nel momento in cui spira il termine per fare opposizione alla cartella di pagamento.

Perciò, giustamente, le sezioni unite hanno stabilito che “sia la cartella di pagamento sia gli altri titoli che legittimano la riscossione coattiva di crediti dell’Erario e/o degli Enti previdenziali e così via sono atti amministrativi privi dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato” e che l’unico effetto derivante dalla scadenza del termine perentorio per proporre opposizione è quello “sostanziale della irretrattabilità del credito.” In sostanza è stata negata la possibilità di applicare in via analogica la disciplina sulla prescrizione stante la diversa natura tra gli atti amministrativi e le sentenze, unici atti capaci di trasformare la realtà (res iudicata facit de albo nigrum, originem creat…).

Ed eccoci, nuovamente, al nostro pedone il quale ci aiuta a capire meglio l’errore che stava dietro all’interpretazione estensiva della disposizione. Egli, a fatica, sotto il fuoco nemico, giunge in ottava traversa e ottiene la promozione. Così come, a fatica, il danneggiato ottiene dal giudice una sentenza che condanna il danneggiante recalcitrante. Giusto che il pedone venga promosso, giusto che la prescrizione breve diventi ordinaria. Nell’uno, come nell’altro caso, la vita si fa più semplice e meno complicata, controbilanciando un dispendio di energie. Ma sarebbe contrario alla regola se consentissimo al pedone di essere promosso anche una volta arrivato in settima traversa, dicendo: “beh, è quasi in ottava”. Il divario tra la penultima e ultima traversa è un divario esistenziale che nessuno può colmare (a meno che, appunto, non si cambi la regola, magari premiando il pedone in settima con un grado inferiore e cioè concedendogli la facoltà di divenire qualunque altro pezzo ad esclusione della Donna).

I giuristi medievali, anch’essi appassionati come noi del gioco degli scacchi, avevano da subito colto in questa regola una implicazione di carattere ontologico, come ci ricordano Chicco e Rosino, nel volume Storia degli scacchi in Italia: “Tipica era la questione relativa alla scommessa di dare matto con un pezzo segnato, cioè con un pezzo determinato (… ) Di solito questo pezzo era un pedone, che doveva mattare il Re nemico in un angolo della scacchiera (…). L’Azzio dedica a tale questione un intero capitolo, soffermandosi soprattutto sul caso del pedone fatto Donna”. Ci si chiedeva dunque se la scommessa poteva essere vinta ugualmente se lo scacco veniva dato con il pedone trasformato in un pezzo.

Anche tra i giuristi dell’epoca (i tempi cambiano, le divergenze restano) vi era contrasto. Troviamo a discuterne personaggi del calibro di Bartolo da Sassoferrato (1313 – 1357) e Cino da Pistoia (1270 – 1336). Il primo, insieme ad Angelo d’ Arezzo, sosteneva che il pedone non mutasse natura ricevendo solamente una promozione (“Pedona facta Domina, quia honor ejus tantum auctus, non condictio mutata”) mentre altri giuristi, richiamandosi a d un caso di estinzione del legato del servo previsto dal diritto romano, erano dell’opinione contraria. Per Cino, invece, occorreva distinguere se la scommessa riguardava o meno un determinato pedone. Nel primo caso, il pezzo in cui si sarebbe trasformato faceva parte dello stesso corpo, e la scommessa era vinta; nel secondo caso, quello di dare matto con un pedone qualsiasi, era persa.

Le sezioni unite hanno evidenziato che gli effetti del giudicato non stravolgono la natura del credito, ma gli conferiscono unicamente un valore aggiunto che nessun’altra traversa gli può attribuire se non l’ultima. Situazione, questa, capace di evocare contrasti esistenziali (vita e morte, condanna e redenzione), di cui ne sa qualcosa il giovane don Aloiz Bauer, protagonista del romanzo di Maurensig, il quale, dopo essersi insediato come parroco in una piccola comunità del Tirolo, riscopre la passione per gli scacchi cadendo sotto scacco e cedendo alla tentazione proprio in ultima traversa.

  1. Cino e Selvaggia: un mare di combinazioni

I giuristi medievali erano anche letterati, filosofi, teologi, astronomi (e non solo giocatori di scacchi…). Le diverse discipline si intrecciavano e integravano tra loro, ma l’utilizzo indistinto delle categorie richiedeva molta cautela, come avvertiva Cino da Pistoia per il quale, ad esempio, la dialettica era uno “strumento di cui la mente umana può servirsi, ma da cui non deve dipendere”. Detto strumento doveva essere impiegato per la soluzione delle questioni giuridiche nel rispetto di precise regole: “circa lecturam tenebo hunc ordinem: quia primo dividam, secundum ponam causm, tertio colligam, quarto opponam, quinto queram” (Bellomo, Società e Istituzioni in Italia dal Medioevo agli inizi dell’età Moderna, dal quale sono tratte anche le ulteriori seguenti citazioni).

Per spiegare il diverso modo di intendere i rapporti tra diritto comune e iura propria in relazione all’equità (“Rispetto ai praecepta, l’interprete si pone con grande libertà e indipendenza, come colui che può e deve giudicare della conformità del precetto all’aequitas”), venivano utilizzati parallelismi astronomici: il sole (l’equità) riscalda la terra, al centro, immobile e in posizione orizzontale, che costituisce il complesso di norme (principali e accessorie). Per Bartolo, invece, diritto comune e iura propria non stanno sullo stesso piano, ma all’interno di uno spazio sferico e sono mossi dall’equità.

Di qui una curiosa coincidenza. Nel 2005, il Minor Planet Center ha dedicato proprio a Cino da Pistoia un asteroide (“cinodapistoia”) scoperto cinque anni prima dall’Osservatorio di San Marcello Pistoiese. Ha un diametro compreso tra i 3 e i 6 Km, maggiore della media degli asteroidi, si trova nella fascia principale degli asteroidi (tra Marte e Giove) e impiega 3,79 anni per girare intorno al sole.

In questo modo Cino, destinato a ruotare attorno all’Aequitas (almeno ancora per un bel po’ di anni), nutre la sincera speranza che il prossimo pianetino venga dedicato alla sua Selvaggia. Famosi i sonetti “Ciò ch’i veggio di qua m’è mortal duolo” (forse scritto nel periodo dell’esilio) e “Io fui ‘n sul beato monte” ispirato dalla visita alla tomba dell’amata.

Espressione della sua tensione religiosa e che lo riguarda come giurista, è invece il sonetto “A che Roma superba tante leggi, tutte ingiuste e vane senza la Tua, che scritta in cor si porta” a dimostrazione che la congestione normativa ha radici antiche, perlomeno nel nostro Paese.

Ma numeri astronomici riguardano anche le possibili combinazioni nel gioco degli scacchi: “Lo schieramento iniziale offre al Bianco una scelta tra 20 mosse diverse e al Nero 20 possibili risposte, per un totale di 400 posizioni possibili, dopo una mossa di entrambi i giocatori. Dopo 2 mosse invece, il numero sale a 71.852. In 232 di queste posizioni il Bianco ha la possibilità di fare delle prese “en-passant”, per cui, teoricamente parlando, il numero delle posizioni sale a 72.084, che possono verificarsi in 200.000 modi diversi. Dopo 3 mosse di entrambi i giocatori, il numero di mosse possibili è qualcosa di molto vicino ai 9 milioni. Se volete provare tutte le combinazioni effettuabili con le prime 4 mosse, dedicando un solo minuto per ciascuna, ci vorrebbero circa 600.000 anni.” (http://www.matean.net/scacchi-numeri).

  1. Mosse giuste e sentenze ragionevoli o mosse ragionevoli e sentenze giuste? Alla ricerca di un equilibrio…

Giunti a questo punto, non ci resta che ringraziare l’umile pedone (Bauer nella lingua tedesca significa contadino e designa anche il pedone nel gioco degli scacchi) il cui valore intrinseco, come si sa, corrisponde a 1. Ce ne vogliono 5 per fare una Torre, ma mai questa potrà avere la forza di una Donna e, in certi casi, neppure quella di una solida catena.

Pertanto, è proprio dalle cose che, a prima vista, appaiono di scarso o modesto valore che dobbiamo trarre lo spunto per saperle valutare in profondità e nel contesto in cui si trovano. L’intuizione del musicista-scacchista francese André Philidor (1726-1795) trova spiegazione sia per le nascoste potenzialità del pedone, sia per la forza che può avere se viene posto in stretta collaborazione con i suoi simili. La stessa difesa da lui inventata: 1.e4 e5 2.Cf3 d6, vede protagonisti i pedoni, i quali non solo hanno un’anima, ma costituiscono l’anima stessa del gioco.

A me piace pensare che il pedone, una volta giunto in ultima traversa, anziché trasformarsi in un altro pezzo, viene, più semplicemente, sostituito. In questo modo egli non solo conserva la sua natura, o meglio la sua identità, ma continua ad essere se stesso, il valoroso combattente che esce dal campo di battaglia (divenuto ormai troppo vasto per lui) permettendo al suo esercito di rafforzarsi. Riscattata la Donna, una qualità, o un pezzo minore, fiero della sua prodezza, lo possiamo immaginare mentre osserva trepidante il finale di partita. In questa prospettiva, tutti gli altri pedoni e i pezzi dell’esercito che sono stati catturati, continuano a vivere e attendono con ansia la definitiva liberazione per tornare protagonisti al più presto.

Concepito per servire e non per essere servito, non se ne avrà a male se ora il discorso si sposta su di un altro e possibile punto di contatto: quello tra il gioco degli scacchi e la ragionevolezza (o giustizia) delle sentenze.

Gli scacchi sono, come si dice, lo sport della mente. Chi gioca deve fare uso soltanto della ragione. Nulla è lasciato al caso. Non ci sono pali e traverse. Non si può gridare al “quasi matto” come se fosse un “quasi gol”. C’è il bianco e c’è il nero e non esiste il grigio. Chi esce sconfitto deve solo riconoscere che l’altro è stato più bravo ad azzeccare tutte le mosse… o, come direbbe Tartakover, a commettere il penultimo errore. Sotto altro profilo si può dire che il vincitore è stato dei due il più equilibrato o, secondo Nimzowitch, il più democratico: sviluppare in modo armonioso i propri pezzi in modo che non si intralcino tra di loro; distribuire i compiti in modo da bilanciare attacco e difesa; curare le varie fasi del gioco con la stessa attenzione; prevedere le mosse dell’avversario e adottare delle contromisure; sacrificare dei pezzi solo per ottenere dei maggiori vantaggi; tutto ciò non è segno di democrazia o, in altri termini, di equilibrio?

Insomma, a scacchi, ad avere la meglio, è il giocatore il cui processo decisionale risulta più equilibrato e lineare; quello che, nel governo complessivo del proprio esercito, è stato più giusto e democratico.

Anche la battaglia che si vive nella aule giudiziarie, battaglia che in termine tecnico si chiama “causa”, vede contrapposti due soggetti, l’attore e il convenuto, uno che attacca e l’altro che si difende. Spesso capita che il contenzioso riguardi l’interpretazione di una disposizione di legge o di un complesso di disposizioni. In questi casi, vincerà la battaglia chi saprà fornire al giudice argomenti più convincenti a favore della propria tesi. Argomenti coerenti dal punto di vista della logica, che non si contraddicono tra loro e che si collegano in modo armonioso conducendo a soluzioni equilibrate e, quindi, giuste perché rispettose di principi universalmente accettati.

Ma si può parlare di sentenze giuste così come si parla di mosse giuste?

La corte di cassazione, con la sentenza 9 dicembre 2015, n. 24822 (anche questa resa dalle sezioni unite), ha stabilito un importante principio sugli effetti della notificazione dell’atto di citazione in revocatoria.

La revocatoria è un’ azione che consente di far invalidare degli atti dispositivi (es. la vendita di un immobile) compiuti dal debitore al fine di sottrarre i propri beni alla possibile azione esecutiva del creditore.

La questione da risolvere era la seguente: la prescrizione dell’azione revocatoria ex art. 2903 c.c. (che è di cinque anni dalla data dell’atto dispositivo ) viene interrotta dalla consegna dell’atto di citazione all’ufficiale giudiziario perché provveda alla notifica oppure nel momento in cui il destinatario lo riceve?

Le S.U. prendono le mosse dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 477 del 2002 che ha fissato il principio della differente decorrenza degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario ritenendo irragionevole far ricadere sul primo il ritardo con cui l’atto viene portato a conoscenza del secondo attraverso un altro soggetto (l’ufficiale giudiziario o il postino). Per la cassazione tale principio vale anche nel caso della citazione in revocatoria, essendo più ragionevole privilegiare le ragioni del notificante in luogo di quelle del destinatario. Il dubbio era se valorizzare il diritto di difesa e la certezza dei rapporti giuridici (e, quindi, ricollegare gli effetti della domanda alla ricezione della stessa) oppure il “principio di ragionevolezza” (sul quale appunto si era fondata la pronuncia della corte costituzionale), tutelando il notificante.

In particolare, le sezioni unite hanno dato al giudice ordinario un’ indicazione di metodo per indirizzarlo verso scelte interpretative costituzionalmente orientate. La via suggerita, se si vuole che le proprie decisioni siano animate dal principio di ragionevolezza, è quella di operare un bilanciamento dei beni in conflitto (si parla appunto di “tecnica del bilanciamento”) tenendo conto di una serie di passaggi (steps) che, in ordine logico, vengono così individuati: a) un bene può essere sacrificato solo per garantirne un’altro di preminente valore costituzionale; b) a parità di effetti si deve operare il sacrificio minore; c) va comunque tutelata la parte che non versa in colpa; d) se nessuna parte è in colpa, l’onere di diligenza va imposto a quella che vi può provvedere in modo più agevole.

Alla fine (posto che i primi due passaggi possono essere utilizzati pari pari per il gioco degli scacchi), la sentenza si fonda sulla seguente considerazione: se si dovesse privilegiare la tesi per cui la prescrizione viene interrotta alla ricezione dell’atto, il notificante subirebbe “un danno senza colpa” mentre il notificato godrebbe, per “puro caso”, “di un vantaggio senza merito”.

Si tratta della traduzione in italiano del principio per cui è sempre preferibile anteporre qui certat de damno vitando a qui certat de lucro captando, brocardo che, non a caso, viene spesso menzionato proprio in tema di azione revocatoria.

La cosa interessante è che questa soluzione sarebbe, secondo le S.U., anche quella “più razionale” avendo il pregio di “salvaguardare il diritto di una parte incolpevole ponendo a carico dell’altra parte – parimenti incolpevole – un pati, cioè una situazione di attesa che non pregiudica, comunque, la sua sfera giuridica”.

Quello che suscita qualche interrogativo è l’utilizzo del termine “razionale”.

Non sembra infatti che ci sia davvero bisogno si scomodare la razionalità per operare una scelta di preferenza tra chi dorme ed è (almeno in apparenza) onesto, e chi invece è bello arzillo ma è (almeno in apparenza) disonesto apparendo più coerente appellarsi ad un criterio di giustizia che impone di disincentivare, ove possibile, comportamenti che altrimenti favorirebbero l’inadempimento delle obbligazioni.

Una soluzione che, sulla base di un bilanciamento di interessi contrapposti, salvaguardi il principio dell’honeste vivere, dell’alterum non laedere e del suum cuique tribuere non può essere definita (senza dover chiamare in gioco la razionalità) quella “più giusta”?

Dovremmo forse cambiare le scritte per identificare l’edificio ove si amministra la giustizia e chiamarlo “Palazzo della ragionevolezza” o “Palazzo della razionalità”? Inoltre, siamo proprio sicuri che tutto quello che è razionale in generale è anche ragionevole in concreto?

Sembra quasi che i giudici abbiano paura a parlare di giustizia, come se giustizia alludesse a qualcosa di sfuggente, relegato nella sfera soggettiva di chi è chiamato a decidere, mentre è proprio la giustizia (e non la razionalità o la ragionevolezza) che ogni giorno sono chiamati ad amministrare.

In via di prima approssimazione, il termine “razionalità” sembra ricollegarsi meglio alle disposizioni di legge, mentre il termine “ragionevolezza” con la giustizia in concreto, cioè con l’attività interpretativa, nel senso che il principio di ragionevolezza conduce ad adottare delle decisioni giuste, equilibrate e coerenti con il sistema giuridico considerato nel suo complesso.

Per mera curiosità, riporto un passo tratto da Barbero, Liserre, Floridia, Il sistema del diritto privato, dove, sempre in tema di azione revocatoria, si fa riferimento alla razionalità e all’ingiustizia (ho sottolineato i termini che interessano), allorché si viene spiegando la regola, sancita dal comma 3° dell’art. 2901 c.c., per cui non è soggetto a revoca l’adempimento di un debito scaduto: “Il principio è razionalissimo: difatti è chiaro che se, dove non vige la disciplina della par condicio creditorum (…), il debitore è libero, fra più debiti concorrenti, di soddisfare taluni con danno indiretto di altri, perché questo danno non si converta in frode, occorre che i debiti soddisfatti, rispetto a quelli sacrificati, siano anch’essi scaduti; in caso diverso la preferenza è ingiusta.”

I termini ragionevole e ragionevolezza vengono usati anche nella letteratura scacchistica: cfr. Mednis, Dall’apertura al finale, Mursia, 1983, p. 142: “Esaminando le varianti concrete, evidenzieremo poi ulteriori difficoltà di sviluppo. Per il nero le mosse più usuali sono (…). Due altre possibilità ragionevoli sono: a) 7. … c5?! Cercando di ottenere un po’ di spazio al centro, ma il conseguente indebolimento dell’ala di Donna è anche peggio di un semplice handicap.” Come si vede, anche qui, occorre fare dei continui bilanciamenti…

Come si può intuire, scavare nel profondo delle regole, individuarne la ratio nel contesto del sistema e applicarle con ragionevolezza al caso concreto, operando un bilanciamento degli interessi in gioco, sono tutte attività che offrono buone probabilità sia di rendere giustizia che (in campo scacchistico) assicurarsi la vittoria.

Lasciamo dunque che la bilancia (simbolo di equilibrio ed equità) e la spada a doppio taglio (simbolo della forza che si impone) ci guidino, mossa dopo mossa, verso nuovi orizzonti del sapere, nella consapevolezza che essere animali ragionevoli “non è semplicemente una definizione, ma un programma. Dalla nascita alla morte, ciascun essere umano deve lavorare secondo le sue possibilità individuali per divenire sempre più quel che sarebbe un essere conoscente e agente in tutto secondo i lumi della ragione. E non solo per se se stesso, ma anche per la società, perché il destino che gli impone la sua natura di essere conoscente può compiersi solo in comunione con gli altri esseri ragionevoli che cercano, come lui, di attualizzarsi nel modo più perfetto possibile nell’ordine dell’essere e del bene. L’esistenza dunque si dispiega a partire dall’intimo dell’essenza, ma tuttavia in un campo in qualche modo infinito… (E. Gilson).

avatar Scritto da: Marco Tiby (Qui gli altri suoi articoli)


3 Commenti a Due parole, en passant, in tema di prescrizione dei diritti e ragionevolezza delle decisioni

  1. avatar
    Uomo delle valli 21 Dicembre 2017 at 20:06

    Gran bel pezzo! Molto interessante. Dotto e approfondito.

    Mi piace 1
    • avatar
      Marco 22 Dicembre 2017 at 18:24

      Grazie!

  2. avatar
    Fabio Lotti 22 Dicembre 2017 at 09:39

    Me lo copio e me lo leggerò con calma.

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