Sfide

Scritto da:  | 3 Febbraio 2019 | 21 Commenti | Categoria: Attualità, Cultura e dintorni, Personaggi, Scacchi e scienza

Da Mac Hack VI a AlphaZero: come l’intelligenza artificiale si è cimentata nei giochi scacchistici finendo per sostituire l’essere umano.

Garry Kasparov ha definito gli scacchi una drosophila della ragione. La drosophila è quello che viene comunemente definito moscerino della frutta, uno degli insetti che più ha ispirato la scienza, suggerendo diverse intuizioni a biologi e genetisti. Gli scacchi, allo stesso modo, nonostante sembrino “solo” un gioco, offrono comunque la possibilità a chi li studia di vivisezionare l’intelletto umano, compresa la sua contrapposizione attuale con l’ascesa dell’intelligenza artificiale. Sotto questa luce la scacchiera assume il ruolo di campo di battaglia tra uomo e macchina: un inseguimento in cui le parti sembrano essersi invertite in maniera irrimediabile, una lunga storia che ha coinvolto attori differenti con esiti altrettanto distanti tra loro.

Apertura

È significativo che scacchi e computer vadano a braccetto fin dagli albori dell’informatica. Tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 comparvero i primi articoli (con firme di scienziati illustri quali Claude Shannon, Norbert Wiener e soprattutto Alan Turing) che disegnavano algoritmi in grado di giocare. Nonostante ciò, bisogna aspettare fino al 1967 per uscire dalla teoria e vedere un programma vero e proprio, cioè Mac Hack VI, competere in un torneo riservato agli umani, seppure con risultati modesti. Nel 1967 giocò quattro tornei amatoriali, vincendo tre partite, perdendone 12 e pareggiandone tre.

La ricerca andò avanti e passò per l’esplosione globale dell’informatica. Tutti i principali home computer dei primi anni ’80 (Apple II, Sinclair ZX Spectrum, Commodore 64) ospitavano rudimentali programmi scacchistici: la potenza di calcolo di quelle macchine era risicata, ma la loro popolarità contribuì ad allargare la proporzione del problema. I computer batteranno mai l’uomo sulla scacchiera, un giorno? Le risposte a questa domanda, nella storia del ‘900, schizzano da un estremo all’altro e spesso diventano oggetto di scommesse: da una parte l’ansia futurista dei programmatori, dall’altra l’orgoglio dell’appassionato che non vuol vedere la sua arte svilita da una macchina.

Nel 1957 i ricercatori della Carnegie Mellon University fissarono il sorpasso del computer sull’uomo a dieci anni dopo, sovrastimando di molto lo stato dell’arte. Proprio nel 1969 il Maestro Internazionale David Levy rincarava la dose: scommise oltre mille sterline con il pioniere dell’intelligenza artificiale John McCarthy che, a dieci anni di distanza, non sarebbe stato sconfitto da un computer. Sicurissimo della sua posizione, affermava di poter estendere la scommessa nei decenni a venire: «Ipotizzo che un motore scacchistico non raggiungerà il titolo di Maestro Internazionale prima del prossimo secolo, e la prospettiva di un campione del mondo elettronico resterà confinata ai romanzi di fantascienza». Poco tempo dopo il Maestro e professore di psicologia Eliot Hearst gli faceva eco: «L’unica maniera in cui un programma per computer potrebbe vincere una singola partita contro un maestro, sarebbe che il maestro commettesse un errore inaudito, rintontito mentre gioca cinquanta partite contemporaneamente».

Levy ebbe ragione nella sua scommessa, anche se ancora per poco. Già all’inizio degli anni ’80, infatti, computer come Bell battevano regolarmente validi giocatori umani, competendo al livello di Maestro. Giocavano con uno stile “terribile, inefficiente, semplicemente brutto”, come commentava il New Scientist, eppure vincevano capitalizzando gli errori umani. Quando Levy reiterò la sfida, alzando la posta fino a cinquemila dollari, trovò infine pane per i suoi denti: nel 1989 fu sconfitto dall’ultimo programma sviluppato da IBM, Deep Thought, come il supercomputer che, nella Guida Galattica per gli Autostoppisti di Douglas Adams, era deputato alla “risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto”.

Nella comunità scacchistica anche i più scettici cominciavano ormai a considerare il nuovo millennio come data per l’ormai probabile sorpasso. In realtà ci si sarebbe arrivati addirittura prima, per mano proprio del successore di Deep Thought.

Mediogioco

Il primo grande successo dei computer, in realtà, è una sconfitta. Quella che lo stesso Kasparov infligge a Deep Blue, il nuovo software IBM, nel primo dei loro confronti. Siamo a Philadelphia, il 10 febbraio 1996; Kasparov prevarrà 4 a 2 nella serie al meglio delle sei, ma il risultato fa notizia perché per la prima volta nella storia un computer strappa una partita al campione del mondo in carica: la sfera ha cominciato la sua corsa sul piano inclinato. Nel rematch dell’anno successivo Deep Blue vince di misura sconvolgendo la comunità scacchistica e lo stesso Kasparov che, nel corso delle sei partite, prima incappa in banali errori, poi prova a sorprendere il computer con giocate inusuali e infine invoca addirittura il complotto.

La seconda partita è emblematica. Kasparov non si accorge di poter strappare un pareggio sul filo di lana e si arrende prima del dovuto: intervistato a caldo, accusa la IBM di aver utilizzato un Grande Maestro per manovrare Deep Blue in tempo reale (accuse ritrattate in seguito da Kasparov, e sostituite da un’onesta autocritica). Il giorno dopo la sesta e conclusiva partita, il valore di IBM sul mercato azionario cresce del 10%.

12 anni dopo la competizione tra uomo e macchina sembra essersi già spenta. L’attuale campione del mondo Magnus Carlsen vanta il punteggio ELO più alto di sempre (2882, raggiunto nel maggio 2014) e guida una nuova ondata di giovani fenomeni sostanzialmente impeccabili sulla scacchiera. Nonostante ciò, la comunità scacchistica umana non può tenere il passo dei computer, che hanno dalla loro una potenza di calcolo sempre maggiore. Come recita la legge di Moore: “La complessità di un microcircuito, misurata ad esempio tramite il numero di transistor per chip, raddoppia ogni 18 mesi (e quadruplica quindi ogni 3 anni)”. Con lo sviluppo dei supercomputer, la tecnologia su cui Deep Blue si appoggiava è diventata archeologia informatica: oggi persino uno smartphone può far girare un motore scacchistico più potente e più raffinato. Nel 2009 l’ormai obsoleto HTC Touch HD, un telefono dal processore di 528 MHz, poteva far girare un software scacchistico al grado di Grande Maestro.

L’ultima sfida credibile tra uomo e macchina nel campo degli scacchi si gioca nel 2006, a Bonn, dove il Grande Maestro russo Vladimir Kramnik si siede di fronte a Deep Fritz, erede di Deep Blue, progettato in Germania. Il computer vince 4-2 e per il giocatore umano è un tracollo. Nella prima partita Kramnik accetta una patta non sfruttando una possibile linea per la vittoria. Nella seconda, commette addirittura quello che i commentatori definiscono “l’errore del secolo”: alla mossa 34, dopo aver costruito una solida offensiva coi pezzi neri e con ancora molti minuti a disposizione, muove la regina invitando Deep Fritz a scambiarla con la propria, ma non si accorge di aver lasciato scoperto il proprio re. Alla mossa successiva Deep Fritz dà scacco matto, e da quel giorno, i motori scacchistici non si sono più guardati indietro. «The science is done», commentava a ragione il docente della McGill University Monty Newborn.

Oggi i computer totalizzano punteggi ELO vicini a 3500 e competono tra loro in appositi campionati. Il gioco è talmente ottimizzato che la patta è il risultato più comune, e spesso servono serie da cento partite per decretare un vincitore. Komodo, Stockfish e Houdini sono i software protagonisti delle sfide più lunghe e avvincenti, tra i favoriti dell’annuale World Computer Chess Championship (Komodo ha trionfato nelle ultime tre edizioni) e di ogni tappa del Top Chess Engine Championship.

I giocatori umani seguono i computer e li guardano dal basso, li sfruttano per i loro allenamenti com’è abitudine per i campioni più affermati. Qualche analista ha incolpato proprio l’influenza dei computer per una certa tendenza alla “normalizzazione” negli scacchi ipermoderni che rappresentano lo stile dominante ad alti livelli, col recente campionato del mondo tra Magnus Carlsen e Fabiano Caruana a fornire un valido esempio: due giocatori precisi e prudenti, calcolatori infallibili, che hanno pareggiato tutte e dodici le partite prima degli spareggi con cadenza ridotta – ovverosia, con meno tempo per eseguire le mosse e più probabilità d’incappare in un errore.

Computer e uomo si somigliano sempre di più. I computer scacchistici, cioè, tendono a giocare come noi, a essere le migliori versioni possibili di noi stessi. Sono equipaggiati con un database che contiene un repertorio onnicomprensivo di aperture e finali, e da questa base di partenza implementata dall’uomo analizzano ogni singola posizione con la potenza di calcolo di cui dispongono. Se un Grande Maestro umano può esaminare decine di alternative per ogni mossa, ipotizzandone i futuri sviluppi sulla scacchiera, un computer si spinge agilmente oltre le migliaia e fino ai milioni.

Per questo motivo, il successivo atto della storia riguarda potenzialmente solo le macchine. Stavolta i computer scacchistici tradizionali, nello specifico una versione del noto Stockfish, fungono da “rappresentanti” del genere umano, nella sfida contro la mente artificiale, come adesso possiamo davvero definire.

Parliamo di AlphaZero, l’algoritmo di intelligenza artificiale sviluppato da DeepMind, azienda poi passata sotto il controllo di Google. DeepMind apprende in maniera autonoma, sfruttando il cosiddetto machine learning, e si appoggia alla tecnologia delle reti neurali; quando Google ha deciso di cimentarsi con gli scacchi, si è semplicemente trattato di impegnare AlphaZero in partite contro se stesso istruendolo solo con le regole basilari. In poche ore può giocarne fino a 44 milioni: immaginatelo come un giocatore umano, però forte di un’esperienza ultrasecolare e capace di ricordare a memoria ogni mossa che abbia mai giocato, senza perdere colpi per via dell’anzianità (alcuni mesi dopo l’esperimento è stato replicato, con esiti incoraggianti, dal programma di machine learning open-source Leela).

Google ha recentemente divulgato i dettagli della sfida tenutasi tra Stockfish e AlphaZero nel dicembre 2017, insieme ai diagrammi delle partite che stanno spopolando tra gli appassionati. Il risultato è stato schiacciante: 28 vittorie per AlphaZero in cento partite, 72 patte e nessuna sconfitta (poi esteso ad altre mille partite in cui AlphaZero è rimasto comunque imbattuto). Rimane qualche ombra, come il fatto che Stockfish non girasse nella sua versione più performante (il programmatore di Stockfish Tore Romastad ha paragonato la sfida a “un confronto tra mele e oranghi”), ma sono dubbi che non fanno che accrescere l’attesa per nuove partite, magari in contesti ufficiali e con una cornice di prestigio.

La maggioranza dei Grandi Maestri ha accolto con entusiasmo la prestazione di AlphaZero per il potenziale innovativo che ha espresso: Wesley So ipotizza un rating ELO vicino a 4000, Fabiano Caruana si meraviglia che abbia raggiunto un simile risultato con pochissime ore di apprendimento, e il francese Maxime Vachier-Lagrave afferma che, se tutti avessero accesso ai dati di AlphaZero, la teoria degli scacchi cambierebbe radicalmente. Dal punto di vista della capacità di calcolo, però, AlphaZero partiva in svantaggio. Nonostante l’algoritmo fosse ospitato dai prestanti computer di Google, calcolava circa ottantamila posizioni per secondo. Novecento volte più lento di Stockfish, che girando su un hardware a 44 core ne calcolava settanta milioni.

Ma AlphaZero funziona diversamente dai motori scacchistici tradizionali, quelli che lavoravano per “forza bruta”, eseguendo calcoli finché non incappavano nella mossa corretta. Già da qualche tempo i programmatori si sono accorti dell’importanza delle valutazioni euristiche, una sorta di pensiero laterale che garantisce risultati migliori rispetto alla pura forza matematica. In sostanza, si tratta di guidare la ricerca permettendo al computer di riconoscere i filoni di indagine più promettenti, riducendo la complessità dell’algoritmo sia in senso temporale (la durata della ricerca) che in senso spaziale (la memoria occupata dal processo). I sistemi moderni sfruttano il Montecarlo Tree Search, un algoritmo che decostruisce la partita in alberi, poi in rami e infine in nodi, cioè le giocate che più influenzano il risultato finale. AlphaZero estremizza la tendenza e si fonda in misura ancora maggiore sulle funzioni euristiche: individua cioè la mossa ideale nel modo più economico possibile, esplorando vie alternative. Con una metafora umana potremmo dire che pensa fuori dagli schemi, e non ha quindi bisogno di mostrare i muscoli (informatici, in questo caso).

Ma soprattutto, AlphaZero non è influenzato dal database che istruisce il suo rivale, composto da secoli di partite e regole umane. Ragionando di testa propria, ha ottenuto la vittoria con mosse che nessun maestro di scacchi sano di mente consiglierebbe ai propri allievi: sviluppare la regina prima degli altri pezzi, ad esempio, muovere più volte lo stesso pezzo nella stessa sequenza d’apertura, o scoprire il re impiegandolo con propositi offensivi.

I diagrammi delle partite tra AlphaZero e Stockfish suscitano osservazioni singolari. Da una parte lo stile di gioco di AlphaZero è talmente inusuale da apparire alieno, capace di strangolare Stockfish con stratagemmi del tutto inediti; dall’altra, la sua attitudine al gioco aggressivo, il poco interesse per i vantaggi posizionali e il coraggio nel sacrificare i pezzi fanno sembrare AlphaZero “più umano”, persino dei granitici Carlsen e Caruana, quasi come se si ispirasse allo stile romantico che era in voga nell’Ottocento. Anche all’epoca l’idea era quella di reagire alla tendenza tatticista sorprendendo l’avversario con mosse spettacolari, sacrifici inaspettati e offensive rapide. Una moda che si spense con gli anni, ma che ha lasciato in eredità qualche insegnamento attraverso le partite di maestri come Paul Charles Morphy o Adolf Anderssen: sviluppare i propri pezzi fin dall’apertura, con un’idea chiara su come avverrà l’attacco.

Nella mente di AlphaZero i pezzi non possiedono valore intrinseco, perciò li lancia in battaglia senza remore. In una delle partite contro Stockfish, AlphaZero muove il re in e3 già alla diciassettesima mossa e poi lo rende protagonista di una marcia fino al lato opposto della scacchiera: una delle tattiche preferite dal maestro austriaco Wilhelm Steinitz, che a metà dell’Ottocento scriveva: «È oggi assodato che il re dev’essere considerato un pezzo forte, sia in attacco che in difesa» e «Il mio re combatte valorosamente al centro della scacchiera!». In un’altra occasione, AlphaZero sviluppa la regina già alla quinta mossa e nel giro di quindici mosse la sposta altre tre volte: una mossa che molti considererebbero un “peccato mortale”. La situazione è questa (AlphaZero ha i pezzi bianchi):

La regina sembra pericolosamente esposta al centro della scacchiera, e la struttura pedonale non sembra essere una difesa efficiente. Solo quattro mosse dopo, la partita si evolve in questo modo:

AlphaZero ha guadagnato un grande vantaggio in termini di spazio e stringe Stockfish in un assedio che gli varrà la vittoria.

Il finale

Quando i computer hanno sancito la loro superiorità sul terreno degli scacchi, gli umani si sono rifugiati in altri giochi più complessi – o quantomeno, giochi che esigevano un’intelligenza più “sensibile”. Si è iniziato a guardare con più attenzione alle varianti eterodosse degli scacchi: gli scacchi di Capablanca, ad esempio, con due colonne e due pezzi in più (arcivescovo e cancelliere), o le varie possibilità di aumentare le dimensioni della scacchiera fino a un piano infinito.

Qualcuno ha organizzato esperimenti originali, come l’ingegnere informatico Omar Syed che all’indomani della seconda sfida tra Kasparov e Deep Blue ha creato Arimaa, un gioco con strumentazione e tavola simile agli scacchi ma dotato di regole più complesse, particolarmente ostiche per un processore: ogni giocatore dispone i pezzi a proprio piacimento, ci sono quattro caselle trappola, si possono eseguire fino a quattro movimenti in un turno e non esiste il pareggio. Per stimolare la competizione, Syed ha istituito l’annuale Arimaa Challenge dove il migliore tra i software dedicati al gioco avrebbe sfidato il campione umano. La vittoria ha sempre arriso all’uomo – fino al 2015, quando David Wu ha vinto i 10.000 dollari offerti da Syed col programma da lui stesso sviluppato, battezzato Sharp. Considerando la limitata notorietà dell’evento, è facile immaginare come le risorse a disposizione di Wu fossero decisamente inferiori rispetto a quelle di Google.

A distanza di pochi mesi è il colosso di Mountain View a compiere il passo decisivo nella lotta per la supremazia sulla scacchiera, nella ben più popolare cornice di un gioco di tradizione millenaria, il go. La prima iterazione di AlphaZero nasce proprio col nome di AlphaGo, un algoritmo di machine learning ideato per superare l’uomo sul suo stesso campo, quello dell’intuizione.

Il go è un gioco di origine cinese, assai diffuso in tutto l’estremo oriente, dove i due giocatori dispongono liberamente i pezzi, tessere bianche e nere dette pietre, su una griglia di 19×19 caselle, detta goban. L’obiettivo è conquistare aree di territorio con tessere del medesimo colore, ma l’avversario può “catturare” le zone in nostro possesso accerchiandole. Man mano che una partita di scacchi procede il giocatore avrà sempre meno mosse legali da valutare e si stima che, in media, si disponga di trentacinque alternative per ogni mossa; nel go c’è maggiore libertà di movimento in tutte le fasi della partita, e il numero di alternative legali per ogni mossa sale a circa duecentocinquanta. Mentre gli scacchi, ad alti livelli, sono “ottimizzati” (si pensi di nuovo alle dodici patte tra Carlsen e Caruana) non è raro vedere i migliori talenti del go commettere errori o scelte approssimative. Mettendola in termini matematici, una partita di scacchi presenta circa 10 alla 120esima possibili permutazioni (cioè combinazioni della scacchiera), e una partita di go circa 2×10 alla 170esima (si consideri, come termine di paragone per entrambi i casi, che il numero stimato di particelle elementari presenti nell’universo si aggira intorno a 10 alla 80esima).

Dati alla mano, si riteneva quindi che il metodo tradizionale dei motori scacchistici classici fosse inefficace per affrontare le raffinate strategie del go, e che fosse preferibile possedere il coup d’œil di un grande generale che scruta il campo di battaglia. La valutazione era corretta, l’errore stava nel convincersi che tale dote fosse una prerogativa umana.

Ke Jie contro AlphaGo

AlphaGo irrompe sulla scena internazionale nella primavera 2016 battendo il campione sudcoreano Lee Sedol in quattro partite su cinque. Gli esperti del settore e gli azionisti di DeepMind, tra cui Elon Musk, si aspettavano di dover attendere altri dieci anni prima che una macchina battesse l’uomo, ma il risultato non ha lasciato adito a dubbi. Ancora più sbalorditivi, poi, sono i diagrammi delle partite che svelano le tattiche adottate dal computer. Mosse mai tentate prima in secoli di tradizione, alcune in aperta contraddizione con le teorie più accreditate, eppure capaci di minare la fiducia di Lee Sedol e stringerlo in una morsa inesorabile.

Si prenda la mossa 37 della partita 2: un attacco a sorpresa sul lato destro della tavola, che di primo acchito appariva un errore e alla fine ha premiato AlphaGo con la vittoria. Una soluzione rivoluzionaria secondo il parere di tutti i commentatori, una singola mossa che scava un solco profondissimo nella storia del gioco. Nei mesi successivi AlphaGo si è preparato per la sfida decisiva. Facendosi le ossa nel gioco online, terrorizzando sotto mentite spoglie i server più frequentati dai professionisti, prima che da Mountain View rivelassero chi si celava sotto il profetico nickname di “Master”: 60 vittorie e nessuna sconfitta contro i migliori giocatori del globo.

Il confronto definitivo viene fissato tra il 23 e il 27 maggio 2017 a Wuzhen, in Cina, un testa a testa contro il numero uno della classifica mondiale, il cinese Ke Jie (le partite sono state censurate dai media cinesi fino allo scorso novembre). Il rappresentante umano è giovane e sprezzante, ha studiato lo stile di AlphaGo e ne ha già imitato, con successo, le soluzioni più audaci, ma l’algoritmo nel frattempo si è ulteriormente raffinato. L’incontro si chiuderà sul 3-0 per AlphaGo, con un dominio ancora più schiacciante di quello applicato su Lee Sedol. «Dodici mesi fa il suo modo di giocare era ancora simile a quello di uomo, stavolta sembrava di avere di fronte un dio», sarà il commento a caldo di Ke Jie: una chiosa eloquente, che getta un’ombra distopica – chissà quanto consapevole – sulla faccenda.

Lee Seedol contro AlphaGo (foto Getty Images)

Dopo quel 27 maggio AlphaGo ha abbandonato le competizioni per dedicarsi a scopi più nobili, come la ricerca scientifica, lasciando il mondo del go in un disorientamento simile a quello che provò Kasparov nel 1997. Il suo ritorno sul campo dei giochi strategici arriva a sorpresa nel dicembre 2017, stavolta nella veste “evoluta” di AlphaZero. L’esperimento sembra avere le caratteristiche di un divertissement per gli sviluppatori di Google, una sfida per scoprire in quanto tempo AlphaZero può sviscerare un gioco complesso. Oltre a invadere gli scacchi, AlphaZero assesta la spallata definitiva al go (60 vittorie e 40 sconfitte contro la più recente iterazione dell’originale AlphaGo) e già che c’è mette il naso pure negli shogi, gli “scacchi giapponesi” – batte Elmo, il software più accreditato, con 90 vittorie, 8 sconfitte e 2 pareggi in cento partite.

Per chiari motivi di popolarità sono le partite contro Stockfish ad avere catturato le luci dei riflettori, insieme ai successivi contributi che svelano le analisi di AlphaZero sulle dodici patte nell’ultimo mondiale tra Carlsen e Caruana. Da questo campione di dati emerge quell’idea singolare, e un po’ disturbante, a cui accennavamo in precedenza: AlphaZero intende gli scacchi in maniera profondamente umana da un lato, e irrimediabilmente aliena dall’altro. Preferisce, ad esempio, prendere l’iniziativa e “forzare l’azione”, puntando poi sull’intuizione e sulla visione d’insieme per gestire il vantaggio nel mediogioco. È un atteggiamento che qualunque principiante, poco propenso a calcoli e tattiche attendiste, potrebbe condividere. Ma la differenza principale è che “l’intuizione” di AlphaZero si spinge oltre limiti che noi fatichiamo immaginare: quei confini che ci hanno portato, dopo secoli di pratica, a stabilire quelle regole “di buona condotta” sulla scacchiera a cui AlphaZero puntualmente contravviene.

Facciamo un esempio. L’approccio di AlphaZero predilige l’attività, cioè l’azione dei pezzi in senso offensivo, rispetto al materialismo, cioè difendere i propri pezzi dall’attacco avversario. Ad alti livelli, i giocatori umani condividono coi motori scacchistici proprio quest’ultimo atteggiamento conservativo in osservanza di una massima, in effetti, molto semplice: si sacrifica un pezzo soltanto quando si intravede un vantaggio da concretizzare in un numero ragionevole di mosse. Il nocciolo della questione si annida in quel “ragionevole”. AlphaZero adotta uno stile aggressivo, quasi romantico, perché immagina possibili vantaggi dove l’uomo – e i motori scacchistici da lui creati – non riescono nemmeno guardare. Per questo reputa conveniente muovere la regina prima di pezzi meno pregiati o lanciare il re in incursione. Proprio in questa sua visione sta la caratteristica più aliena – o più divina, direbbe forse Ke Jie – di AlphaZero.

Il prossimo passo di Google rimarrà nell’orbita dello sport, in contesti ancora più dinamici e originali: le intelligenze artificiali si sono già cimentate coi videogiochi – dal classico Civilization al competitivo Dota 2 – e il CEO di DeepMind, Demis Hassabis, ha strizzato l’occhio all’idea di affrontare il poker, nella variante Texas Hold’em, e il caposaldo degli esport, Starcraft II.

La peculiarità di questi giochi è che, a differenza di scacchi e go, le informazioni a disposizione dei giocatori sono imperfette (non sappiamo cosa sta facendo l’avversario, e non possiamo controllare la componente casuale) rendendo necessaria l’attuazione di una strategia in tempo reale. Recentemente anche StarCraft II, uno degli esport più seguiti, dove i giocatori ingaggiano un conflitto militare tra fazioni aliene, è caduto per mano dell’intelligenza artificiale di Google. Una nuova iterazione del software, dedicata specificamente al videogioco e denominata AlphaStar, ha battuto per dieci volte su undici professionisti umani dopo essersi allenata col consueto metodo di deep learning: duecento anni di esperienza condensati in una settimana di lavoro. AlphaStar ha affrontato il terreno di battaglia di StarCraft con un piglio simile a quello di AlphaZero sulla scacchiera: compie meno azioni al minuto rispetto agli umani, che in questo esport vantano tempi di reazione ridottissimi, ma riesce a vincere grazie a una migliore pianificazione strategica.

Scatto matto?

A questo punto viene da chiedersi se sarà mai possibile risolvere gli scacchi, cioè individuare la scelta ottimale a ogni mossa fino a realizzare la partita perfetta. Secondo la teoria dei giochi, sulla carta sì. Gli scacchi sono un gioco finito senza elementi casuali, e i giocatori hanno a disposizione informazioni complete. È anche un gioco a somma zero, che significa che il vantaggio di un giocatore è necessariamente lo svantaggio dell’avversario. Il problema sta nella complessità e nell’altissimo numero di variabili: è anche il motivo che rende gli scacchi così umani e affascinanti, invitando i commentatori a utilizzare termini presi in prestito dal mondo delle arti come armonia, ritmo, profondità. Facendo un passo indietro, un gioco semplicissimo come il tris condivide le caratteristiche degli scacchi, ma con appena 512 combinazioni possibili: la “partita perfetta” è alla portata di qualsiasi giocatore intelligente. La dama si colloca su un gradino più alto, ma ha comunque meno combinazioni possibili di scacchi e go (1018). Nel 2007 il software Chinook, sviluppato presso la University of Alberta, in Canada, ha decodificato la dama nella sua variante inglese risolvendo a tutti gli effetti il gioco e ottenendo la partita perfetta: un pareggio.

Risolvere gli scacchi, o in senso ancora più fantascientifico il go, al momento sembra però un’impresa irraggiungibile. L’uomo ci ha già provato in passato con l’approccio scientifico del matematico Emanuel Lasker e del suo Manuale degli Scacchi, dove postulava che, preparando teoremi per i finali di gioco e raccogliendo prove a sufficienza da partite reali, si sarebbe potuta ricavare una partita perfetta. Cento anni dopo si studiano effettivamente i finali come fossero teoremi, ma si resta lontani dal credere che possano rendere giustizia a tutte le sfumature del gioco.

Osservando i progressi di AlphaZero, del machine learning e delle reti neurali, si prova un certo fascino nell’interrogarsi sul destino ultimo del gioco. Parlando semplicemente di potenza di calcolo, Google si sta avvalendo di una nuova generazione di processori TPU pensati appositamente per l’auto-apprendimento delle macchine: 64 schede collegate in un pod possono raggiungere una potenza di 11.5 petaflops. In termini più comprensibili, si tratta di 11 milioni e 500mila miliardi di informazioni al secondo.

Altrettanto suggestivo è riconoscere nella sfida per la supremazia sulla scacchiera gli albori di una singolarità tecnologica che porterebbe, negli scenari più bui, a un futuro dominato da intelligenze artificiali ostili, à la Skynet, o quantomeno indifferenti all’uomo. I futurologi più avveduti, in realtà, ci ricordano che persino gli algoritmi di machine learning delle reti neurali, così superiori a macchine che lavorano “per forza bruta”, hanno un enorme gap da colmare e un lungo tragitto da compiere in territori sconosciuti prima di avvicinarsi a una parvenza di “coscienza” umana – in termini scacchistici, dovrebbero imparare ad aggirare le regole, anziché obbedirvi ciecamente, o ribaltare la scacchiera quando le cose si mettono male.

Non è tuttavia un caso che letteratura e cinema di genere fantascientifico abbiano da sempre trovato accattivante la metafora scacchistica, da Isaac Asimov a Blade Runner. Al di là delle fantasie, cupe od ottimiste che siano, studiare il rapporto tra uomo e macchine negli scacchi stimola a riflettere su un tema di impellente attualità, per come gli algoritmi stanno modellando la società in cui viviamo e partecipando alla ricerca scientifica.

Demis Hassabis

Quel che è certo è che AlphaZero lascerà un’impronta significativa nel mondo degli scacchi. Il Grande Maestro Matthew Sadler e il Maestro Internazionale Natasha Regan ne sono certi, dopo aver ottenuto libero accesso ai dati di Google per un libro atteso nei primi mesi del 2019 e intitolato appunto Game Changer.

I giocatori professionisti, interpellati sulla questione, tentennano. I più scettici, come Hikaru Nakamura, aspettano di assistere a un confronto “ufficiale” tra Stockfish e Alpahzero prima di sbilanciarsi, e non ritengono che il nuovo arrivato stravolgerà la situazione. Altri invece sono convinti che la collaborazione tra uomo e macchina possa proseguire, e non vedono l’ora che l’algoritmo venga commercializzato per integrarlo nella propria routine di allenamento. «Forse cambierà il nostro metodo di preparazione» dice Wesely So «Ci alleneremo pensando a trenta mosse in avanti sulla scacchiera, anziché venti». Caruana invece non si aspetta cambiamenti epocali, ma si cimenterebbe volentieri con AlphaZero. Sergej Karjakin è dello stesso parere, ma aggiunge che con il suo aiuto si potrebbero risolvere problemi annosi, come certe linee dubbie nei finali. Non mancano le opinioni catastrofiche: «Se davvero esiste un programma capace di stracciare il motore scacchistico più forte in circolazione» scherza Ian Nepomniachtchi, «significa che molto presto ci ritroveremo tutti a giocare a qualcos’altro».

AlphaZero ha mostrato, in effetti, una visione del gioco diversa da quella di Stockfish e degli altri software, ma l’impressione generale è che le sue caratteristiche non possano essere replicate efficacemente dai giocatori umani. Eppure, l’algoritmo di Google ha imparato a giocare a scacchi da autodidatta, per tentativi, con un metodo in fin dei conti profondamente umano. Garry Kasparov ha apprezzato il suo stile “aggressivo e creativo”, ed è convinto che le intelligenze artificiali che ammiriamo sulla scacchiera forniranno un grande aiuto alla società. «AlphaZero ci dimostra che le macchine possono diventare i nuovi esperti, non meri strumenti. Dobbiamo lavorare insieme e unire le nostre forze. So meglio di molti altri cosa significhi competere contro una macchina: è meglio stare dallo stesso lato, che mettersi contro di loro».

Anziché estinguere il gioco degli scacchi con una soluzione inattaccabile, insomma, AlphaZero potrebbe rilanciare la creatività umana. Da quando l’uomo ha inventato i computer, ha cercato di imitarli, per poi accorgersi che la propria capacità di calcolo sarebbe stata sempre vessata da un limite, sulla scacchiera come in altri ambiti. Allora ha costruito computer specializzati che calcolassero al posto suo, nel miglior modo possibile. La novità di AlphaZero è che torna indietro di uno step in questo processo. Le reti neurali, anche nel mondo degli scacchi, ragionano come un uomo che non si è mai accorto dei propri limiti perché, semplicemente, non ne ha.

avatar Scritto da: Andrea Cassini (Qui gli altri suoi articoli)

Andrea Cassini, classe 1988, è giornalista e scrittore. Filologo medievale di formazione, scrive di basket per FIBA, di cultura per L'Indiscreto e di eSport per GEC. Ha collaborato con numerose riviste sportive e pubblicato racconti per blog letterari come Crapula Club e il collettivo Spaghetti Writers.


21 Commenti a Sfide

  1. avatar
    fabrizio 4 Febbraio 2019 at 00:05

    Eccellente punto della situazione su un tema appassionante, per gli scacchisti ma soprattutto per i futurologi. La domanda banale è: cosa sarà degli scacchi? quella più impegnativa: cosa sarà dell’uomo?

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    The dark side of the moon 5 Febbraio 2019 at 12:42

    Ottimo articolo, complimenti all’autore.
    Nell’ultimo paragrafo c’è la sintesi perfetta di tutto.
    Il rischio riguardo all’intelligenza artificiale è che l’uomo disimpari o quantomeno metta da parte tutti i secoli di apprendimento e progressi fatti nella propria storia; è importante che ciò non avvenga altrimenti saremo governati da macchine che decideranno per noi.

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    Giancarlo Castiglioni 5 Febbraio 2019 at 22:30

    Abbiamo già dibattuto l’argomento Alpha-zero su Soloscacchi, ma non sono riuscito a ritrovare l’articolo.
    Spero che qualcuno mi indichi dove è.
    Comunque in sintesi non sono d’accordo nel ritenere Alpha-zero qualcosa di rivoluzionario per gli scacchi.
    Il match con Stokfish è pesantemente taroccato.
    Stokfish era in versione depotenziata e girava su un hardware nettamente meno potente di quello di Alpha-zero.
    Esaminando qualche partita ho verificato che il mio Stokfish, certamente non l’ultima versione e che gira su un normalissimo tablet, è nettamente più forte di quello che ha sostenuto il match.
    Per me Alpha-zero è un programma che gioca a scacchi ad un livello molto buono, come tanti altri programmi, niente di più.
    Come pensavo Alpha-zero è sparito dalla scena degli scacchi “perché si dedica ad altro”.
    E’ stata una riuscita operazione mediatica-commerciale continuandola avrebbe mostrato la corda.
    Aggiungo che nelle sue partite non vedo niente di particolarmente originale.
    Chi lo vede mi faccia esempi concreti.

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    Mongo 7 Febbraio 2019 at 18:08

    Concordo con Giancarlo.

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    Chess 7 Febbraio 2019 at 23:03

    Indipendentemente da quale sia la verità è cosa tristissima pensare che fine stiano facendo gli scacchi per non parlare degli uomini.

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      fabrizio 8 Febbraio 2019 at 14:35

      Forse sei troppo pessimista. Il futuro è incerto per definizione e non è detto che l’intelligenza artificiale (se è di questo che stiamo parlando) debba produrre, sia per gli scacchi che per l’umanità, solo effetti negativi.

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        Dossena Bonesso Torrisi 8 Febbraio 2019 at 14:53

        In senso astratto sicuramente no, ma l’uso che se ne farà, anzi, che già se ne sta facendo, in questa società dei consumi, ove solo produrre e guadagnare di più è l’imperativo di tutti, è emblematico di quanto velocemente ormai si stia discendendo la china.

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          fabrizio 8 Febbraio 2019 at 19:55

          Perché non pensare che la futura e vera I.A. (quella attuale è ancora ai primordi, a mio parere) indurrà un inevitabile cambiamento sociale ed economico? Se il crollo dell’attuale sistema consumistico e capitalistico dovesse avvenire senza lasciare troppe macerie, forse ci saranno le possibilità di una società più equa e più giusta, dove gli esseri umani, liberati dai carichi di lavoro meno qualificanti e “aiutati” dalle intelligenze artificiali, potranno dedicarsi a tutte le attività “creative” (scacchi compresi, speriamo). Molte previsioni e/o fantasie riguardo il futuro girano spesso sul ruolo delle I.A., se “amichevole” o “antagonista” nei riguardi degli esseri umani: io voglio sperare che la “vera” intelligenza sia del primo tipo (ma forse sono troppo ottimista!).

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          Giancarlo Castiglioni 8 Febbraio 2019 at 20:52

          Ma quale “discesa della china”?
          Basta con questi luoghi comuni.
          Basta con questi moralismi.
          Basta con questa paura del progresso.

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          Chess 11 Febbraio 2019 at 23:15

          Assolutamente d’accordo con te

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            Chess 11 Febbraio 2019 at 23:16

            Intendevo dire con Dossena Bonessi

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      Giancarlo Castiglioni 8 Febbraio 2019 at 20:37

      Che fine stanno facendo gli scacchi?
      A me sembra che gli scacchi in Italia non siano mai andati così bene.
      Più o meno 700 bambini ai Campionati Italiani giovanili, gli ultimi due Campioni italiani assoluti sotto i 18 anni.
      Grazie alla informatica posso consultare gratis un data base di 4.000.000 di partite e ho sulla scrivania un notebook che gioca al livello di un grande maestro.
      Era meglio prima?

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        fabrizio 9 Febbraio 2019 at 11:09

        Caro Giancarlo, penso che tu abbia ragione nel sottolineare gli aspetti positivi che sono presenti negli scacchi odierni, che non possono essere sottovalutati e sviliti.
        Forse i “pessimisti” rimpiangono (e non si può dar loro torto! anch’io sono tra questi) altri aspetti, indubbiamente pressoché scomparsi, quali le atmosfere dei vecchi circoli di scacchi e la socialità che ne derivava; oggi mi sembra che la maggior parte degli scacchisti viva la sua passione in maniera più isolata e meno condivisa. Ma questi sono discorsi che vanno molto al di là degli scacchi.

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          The dark side of the moon 9 Febbraio 2019 at 13:24

          La mia opinione fa testo relativamente essendomi approcciato al gioco degli scacchi circa 10 anni fa; penso però che stiamo parlando di aspetti diversi: ha ragione Giancarlo quando dice che i giocatori di scacchi sono diventati mediamente più forti grazie alla tecnologia ma ha altrettanto ragione Fabrizio quando afferma che oggi lo scacchista vive la sua passione in modo isolato.
          Ecco il punto!
          Vale la pena barattare i rapporti sociali creati nei vari circoli col progresso individuale nel gioco?
          Per me assolutamente no non essendo un professionista degli scacchi.
          Oggi manco ci si saluta più in sala gioco, vi rendete conto?
          Questo aspetto rientra in un quadro generale dove si sono persi i rapporti sociali, vogliamo parlare a proposito di cellulari o di social network?
          Si pensava che attraverso il loro uso, le persone di tutto il mondo avrebbero avuto l’opportunità di socializzare maggiormente.
          E’ successo il contrario!
          L’imbarbarimento del linguaggio attuale ha fatto il resto: quando sto alzando il tono di voce o peggio ti mando al diavolo, sto affermando che con te non voglio più comunicare.
          Ok, mi fermo qui che già sto andando fuori tema. ;)

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            Giancarlo Castiglioni 9 Febbraio 2019 at 14:17

            Non aver paura di andar fuori tema, non per niente il sito è Soloscacchi …e non solo.
            La frequentazione dei circoli si è certamente molto ridotta, ma non credo che negli ultimi 10 anni sia cambiato qualcosa.
            E’ vero che molti scacchisti non si muovono da casa, ma è una scelta individuale.
            Io uso il PC per vedere e analizzare partite, ma non gioco mai con il PC e non gioco mai on-line.
            I rapporti personali bisogna coltivarli.

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              The dark side of the moon 9 Febbraio 2019 at 14:31

              Io sono arrivato tardi al gioco per poter fare delle differenze sulla mia diretta esperienza.
              Il circolo che frequentavo all’inizio però non c’è più anche se per motivi personali dei diretti responsabili.
              In generale probabilmente anche se negli ultimi 10 anni non è cambiato abbastanza, la tendenza dall’uscita del pc, è che molti giocatori non frequentano più i circoli perché non è più necessario dato che possono apprendere e giocare on line.
              La tua scelta di usare il pc solo per analizzare o vedere le partite è condivisibile ed anzi è prassi che tutti dovrebbero seguire ma purtroppo la realtà è quella sopra citata.

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              fabrizio 9 Febbraio 2019 at 19:02

              Scusa Giancarlo, ma mi sembra che tu sia un po’ troppo drastico nei tuoi giudizi: dici che “è vero che molti scacchisti non si muovono da casa, ma è una scelta individuale” e che “I rapporti personali bisogna coltivarli”. Giustissimo se si trattasse di vere scelte, ma non mi sembra che questo accada oggi così spesso: oggi la questione non è se andare o non andare al circolo di scacchi, ma se esiste un circolo ragionevolmente accessibile. Ti posso portare l’esempio concreto di Roma: quando, molti anni fa, io ho cominciato a giocare c’erano decine di circoli attivi e diffusi in tutti i quartieri della città, così che era abbastanza facile frequentarli, incontrare molti altri appassionati e creare e mantenere quella socialità che oggi scarseggia. Attualmente credo che a Roma non ci siano più di quattro o cinque circoli effettivamente funzionanti (e tutti con grosse difficoltà di sopravvivenza); per una città delle dimensioni di Roma, con i suoi problemi di spostamento, ecc., il loro numero è assolutamente insufficiente per creare le “reti sociali” del passato. Aggiungi che molti giovani scacchisti sono attratti soltanto da Internet ed il circolo vizioso negativo è bello che completo: i pochi circoli rimasti moriranno quando, inevitabilmente, i “vecchi” se ne andranno. Purtroppo siamo in presenza di un fenomeno che non interessa solo gli scacchi, ma la vita sociale nel suo complesso, che tende sempre più all’individualismo: ma,come abbiamo già detto, questi sono altri discorsi.

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    Fabio Lotti 10 Febbraio 2019 at 09:44

    Ieri al circolo del CRAL del Monte dei Paschi di Siena ben tre tornei: uno per i ragazzini, un secondo per i giocatori grandi meno forti e l’ultimo per gli esperti. Con mamme, babbi e altri a guardare. Una bella soddisfazione. Merito, soprattutto, di Mario Leoncini e Alessandro Patelli. Diciamo, allora, che sta anche a noi vivificare il “nobil giuoco”.

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    Giancarlo Castiglioni 10 Febbraio 2019 at 12:43

    @Fabrizio
    Per quanto riguarda gli scacchi il tipo di attività è cambiato.
    Quando ho iniziato a giocare a Milano non c’erano molti circoli, praticamente solo la Milanese molto frequentata; negli anni successivi si è aggiunto qualche altro circolo credo con discreta attività, ma allora tra lavoro e famiglia non frequentavo più i circoli.
    Però c’erano pochi tornei, i tornei sociali, il Campionato di Milano, qualche torneo amichevole, tutti non validi per le promozioni.
    Adesso ci sono moltissimi tornei tutti validi per le promozioni.
    Tra Milano e immediate vicinanze c’è almeno un torneo al mese, probabilmente di più.
    A volte vado a vedere i tornei a Milano, c’è molta gente che si incontra in quella occasione.
    Prima il circolo era l’unica possibilità di giocare, adesso si preferisce partecipare ai tornei.
    Per quanto riguarda i rapporti personali credo che il fenomeno sia più dovuto all’età che all’individualismo.
    Io ho molti amici che una volta vedevo spesso ed ora quasi mai.
    Ma lo stesso accadeva a mio padre; ricordo che mi meravigliavo che non vedesse mai i suoi amici.
    I miei figli hanno molti amici che vedono di frequente, anche se adesso, che nella loro generazione stanno arrivando i primi figli, mi sembra meno spesso.
    Non ho mai visto un amico di mio nonno, che viveva in un piccolo paese; però al suo funerale c’era moltissima gente e nel film che aveva fatto mio zio, visto molti anni dopo, mi aveva colpito un signore anziano che piangeva commosso.
    In gioventù di amici doveva averne avuti anche lui.

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      fabrizio 10 Febbraio 2019 at 15:33

      @ Giancarlo Non ci sono dubbi che oggi le attività scacchistiche agonistiche siano aumentate e migliorate rispetto al passato; sono d’accordo con te che le amicizie siano più “facili” in gioventù e che con l’avanzare dell’età ci sia una fisiologica tendenza a frequentare meno gli altri. Da quello che mi descrivi, deduco che gli ambienti scacchistici milanesi siano in condizioni molto migliori di quelli romani. Ma questo nulla toglie al fatto che la “socialità scacchistica” (quella che io ho tentato di descrivere nei miei articoli sul Caffé Branca di Roma e sull’Amatori Scacchi di Genova) sia ormai qualcosa pressoché perduta e forse irripetibile, soprattutto perché non si limitava soltanto agli scacchi, ma comprendeva anche aspetti culturali, politici, relazionali più vasti.
      Sono totalmente d’accordo con te che oggi gli scacchi siano, da un punto di vista tecnico, formativo, di diffusione, ad un livello molto più in alto che in passato e che piangere sulla loro morte e decadenza sia per lo meno prematuro. Sono altresì convinto, sulla base della mia personale esperienza, che nel processo evolutivo qualcosa di importante si sia perso: anche se non mi ritengo un nostalgico, permettimi di “rimpiangerlo” :( .

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        Giancarlo Castiglioni 11 Febbraio 2019 at 08:01

        Permesso accordato.
        Per me è diverso; ricordo volentieri il passato, ma nessun rimpianto.
        Anche alla mia età guardo avanti.

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