Filossa

Scritto da:  | 7 Settembre 2019 | 5 Commenti | Categoria: Zibaldone

Le popolazioni del nostro Appennino ebbero il primo approccio con la corrente elettrica negli anni ’50.
Prima -e da sempre- l’illuminazione domestica di cui disponevano erano le lampade a petrolio e/o candele.
Possiamo immaginare, quindi, quali e quanti disagi affrontavano, specie d’inverno, tenuto conto della miseria in cui versavano. La guerra, poi, complicava maledettamnte le cose.
Le risorse per il loro sostentamento lo ricavavano dal poco terreno che posssedevano e che da generazione in generazione si suddividevano in famiglia col risultato di immiserirsi sempre più.
Nulla era superfluo; tutto serviva persino uno spago trovato in terra poteva tornare utile e anche un pezzo di carta… ho visto raccoglierli da terra da un anziano che -dai suo imovimenti – denunciava evidenti dolori alla schiena… e ciò malgrado si chinava…
Tra i nuclei famigliari sovente esisteva la figura della persona adottata – solitamente donne – che partecipava alla vita famigliare alla pari con gli altri componenti. Erano orfani e/o abbandonati che la Carità pubblica aveva il dovere di accogliere e che, in cambio di un modesto compenso, peraltro preziosissimo per il nucleo adottante veniva affidato a questo, esimendo l’autorità affidante dal provvedere direttamente..
Quanti trovatelli trovarono “sistemazione” a quel modo!
E del resto erano pur considerati “alla pari “ dalla famiglia accogliente che non ne aveva certo più di loro!
Aggravava la situazione la non infrequente presenza di ritardati mentali, frutto di matrimoni tra consanguinei, quando non di incesti…
Il lavoro dei campi, su terreni impervi e frazionati era svolto a braccia e con l’ausilio di animali bovini i quali erano ricoverati nelle stalle formanti corpo unico con la casa colonica del nucleo famigliare.
Alle bestie bisognava accudire quotidianamente e oltre al fieno, d’inverno si dava loro un beverone caldo che conteneva ogni sorta di scarto di vegetali.

Beverone preparato nell’ampia cucina, unico luogo della casa riscaldato da stufa di ghisa che bruciava legna tagliata nel bosco, avendo peraltro cura per ricavare questa, di abbattere solo piante malaticcie, in tal modo e nel contempo, eseguendo la “pulizia” del bosco per consentire il rigoglio delle piante giovani. (una successione, omaggio alle generazioni future… )
Anche la stufa, terminata la cena, non veniva più alimentata e il fuoco moriva…
E ai giovani in famiglia e non ancora alle prese col servizio militare in mancanza di luoghi pubblici, non restava che andare a letto o in… FILOSSA
Spiego: andare in filossa significava un complesso di cose: anzitutto un luogo con un po’ di tepore, visto che nelle case le stufe erano spente e il freddo incombeva. Poi un luogo – la stalla più accogliente – ove incontrare coetanei con i quali intrattenersi fino all’ora del sonno …poi l’immancabile anziano senza famiglia che tramandava racconti e aneddoti, magari ripetendosi chissà quante volte… e poi e poi vedere la ragazza del vicino, molto spesso parente, con la quale appartarsi per momenti di intimità.
Tutto a costo zero o quasi perché al riscaldamento provvedevano generosamente le mucche col proprio fiato e le loro… deiezioni; all’illuminazione, bastava un mozzicone di candela. Rompeva la tenebre e tanto bastava.
Al resto suppliva la beata gioventù…

avatar Scritto da: Antonio Pipitone (Qui gli altri suoi articoli)


5 Commenti a Filossa

  1. avatar
    Fabio Lotti 7 Settembre 2019 at 22:13

    Caro Antonio
    grazie ancora per questi tuoi ricordi di vita. Belli.

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    Giancarlo Castiglioni 9 Settembre 2019 at 13:32

    Questi ricordi devono far riflettere sul cammino fatto dall’Italia in questi anni.
    I giovani queste cose non le sanno e non se ne rendono conto.

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      Antonio Pipitone 9 Settembre 2019 at 21:33

      E’ questo il punto: “non le sanno e e non se ne rendono conto”: come non sanno che per andare al cesso si doveva andare in ballatoio per un’unica turca a servizio delle famiglie dello stesso piano; per lavarsi con acqua fredda si doveva servire dell’unico rubinetto esistente in cucina; per andare al lavoro dell’unica bicicletta di famiglia cercando di combinare luoghi di riferimento e poi essere ospitati sul telaio della bicicletta del congiunto col quale si tornava a casa per un po’ di tepore emanato dalla stufa sulla quale la famiglia cucinava i pasti…
      Si deve ricordare non per tornare a quei tempi. Anzi, ma per meritarsi ed apprezzare ciò che si ha. Che è tnto e da difendere con l’unghia e i denti in quanto conquiste costate fatica e talvolta sangue…
      Allora tutto migliorerebbe e certi tromboni che vanno per la maggiore ne uscirebbero ridimensionati e di molto!

      :) :)

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      fabrizio 12 Settembre 2019 at 00:19

      Caro Giancarlo, come forse già detto anche in altra occasione, sono d’accordo con te che non bisogna affatto dimenticare i grandi progressi fatti dal punto di vista economico e materiale, ma soprattutto dal punto di vista dello stato sociale, che hanno reso la vita di moltissimi meno faticosa e più sicura.
      Molti giovani di oggi, soprattutto la maggioranza urbanizzata, non conosce affatto quali erano le condizioni di vita degli italiani del dopoguerra, fino ad arrivare ai primi anni ’60, anni pieni di ottimismo che segnano il venir meno della miseria per molti.
      Quello che io lamento, e proprio in questi giorni di vacanza a Matera ne ho avuto ulteriore conferma, è che in molti casi il progresso economico e materiale indiscutibile ha avuto come contraltare la perdita di gran parte della socialità e dei valori di condivisione che contraddistinguevano le società povere, valori che soli permettevano di resistere a condizioni di povertà estrema.
      Proprio stamane la guida turistica(una giovane archeologa materana preparatissima, che tra l’altro ricordava bene i racconti della nonna che aveva abitato quasi tutta la vita nei Sassi e solo nei suoi ultimi anni aveva avuto una casa popolare dignitosa, con tutti i confort moderni) ci ha illustrato, oltre che i monumenti, anche la storia e le (incredibili oggi!)condizioni di vita di allora, diceva che la nonna, pur ovviamente apprezzando la migliorata situazione materiale, aveva un forte dispiacere per la perdita di gran parte delle relazioni sociali del passato, pressoché inevitabile vivendo in un appartamento moderno.
      Quello che io mi chiedo (che forse anche i nostri uomini politici dovrebbero chiedersi): perché non è possibile coniugare sviluppo economico e socialità? Non è pensabile una società che salvaguarda entrambe i valori? Io sono ottimista e penso che sia possibile (anche se difficile, soprattutto quando molti pensano che tutto quello che succede sia inevitabile!).
      Un caro saluto. Fabrizio

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        Giancarlo Castiglioni 12 Settembre 2019 at 21:54

        Posso entrare nell’argomento solo superficialmente, quello dell’infanzia di Pipitone non era il mio mondo ne quello della mia famiglia.
        Però sulla socialità e condivisione credo ci sia molta idealizzazione del passato.
        Come quelli che del servizio militare ricordano le bevute in compagnia all’osteria e non le guardie al freddo o i soprusi del sergente maggiore.
        La socialità comprendeva anche il dover andare a messa la domenica col vestito buono e le maldicenze di paese dove tutti si conoscevano.

        Mi piace 1

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