Di sogni e di chimere…

Scritto da:  | 12 Ottobre 2019 | 14 Commenti | Categoria: C'era una volta, Personaggi

Ricordi. Così, come vengono, senza un filo temporale preciso, anzi piuttosto altalenante, e sfruttando anche diversi pezzi già scritti. Tanto per lasciare una piccola traccia a chi mi conosce e mi ha conosciuto.

Il primo ricordo è la nascita. Vi sembrerà incredibile ma, uscendo dal corpo di mamma Lionna, sentii come un gelo alla testa. In seguito seppi che ero nato con il forcipe. Il che mi deve avere segnato per tutta la vita…
Da bambino piangevo e piangevo, tanto che Corinna, la dirimpettaia della nostra casa, diceva alla mia mamma “O Lionna ma che gli fai a codesto bambino?” mettendola in ambascia. Non ricordo perché piangessi ma belavo come una capra sgozzata. Ed ero anche fissato che non crescessi alto come il mio babbo. Il mio babbo, Giuseppe, che aveva fatto la guerra in Africa, più precisamente in Etiopia (ricordo una sua foto insieme ad un negretto). Da piccolissimo un mito che incuteva timore. Anche alla mia povera mamma che mi lasciò fragile ragazzo. Ma questa la tengo dentro di me. Aggiungo sorella Clotilde (Tilde) gelosetta anzichenò.

Ricordi, ricordi… Alle elementari ero il primo della classe. Bravino davvero (mi sciuperò un po’ in seguito per rifarmi all’Università). Il pupillo della maestra Elvira, che porto nel cuore. Ho fatto anche il chierichetto in chiesa quando c’era don Nebbia (brrr!) spargendo l’incenso a destra e a manca. Dovetti sorbirmi un po’ di latino che, ad esser sincero, mi ruppe leggermente le palle.
Il primo amico fu Luigi Profeti, detto il Pocciere perché si pocciava continuamente il dito. Praticamente sempre insieme, tanto che ci chiamavano Sussi e Biribissi come la coppia di un noto romanzo. Ma era troppo perbene, diciamo così, e in seguito lo lasciai per seguire la teppa del luogo. In primis quelli più grandi. I miei miti: Abelardo Tanzini detto il Bela (per contrazione) una parola e tre moccoli, e Edoardo Migliorini detto Nisio (non ricordo la ragione) il più forte e muscoloso di tutti. Ma anche Buzza o Balilla (questa volta mi sfugge il nome e cognome, vedete un po’ voi…) che mi aveva ammaliato con l’Ave Maria di Schubert cantata splendidamente in chiesa. Ricco di humor e di battute. Con lui in coppia al biliardino e a biliardo con la stecca che non ero male. Quasi tutti quelli che conoscevo avevano il loro bel soprannome che si riferiva, in genere, a qualche particolarità del corpo. Per esempio il citato Buzza aveva una pancia bella piena, Cicciaio era un altro ragazzo ottimamente in carne, il soprannome Palloni non si riferiva alla sua passione per il gioco del calcio ma a qualcosa di enorme che gli pendeva fra le gambe, quando si faceva il bagno nudi nel torrente Staggia. Ecco tutti quelli che mi ritornano in mente: Dado, Bela, Polvere (era sempre per terra!), Pocciere, i’ Caciao, Pasta e Pane (non mangiava altro), Rombolino, Capitan Miki, Nisio, Capino, Capone (una testa così), Palloni, Gattaccio, Buzza, Balilla, Buzzino, Giona (portava sfortuna), Paperino, Mea, Zipi, Budode, Ciccina, Cicciaio, Ciacce, Mastrilli, Jack, Biondo, Banana, Zenzerino (famoso il suo conciso “pensierino” a scuola “I maratore fa i gabinetto e poi ci caca”), Publio, Pinguino, Doddolo, Sussi e Biribissi, Barabba, Maialaio, Mandorlino, Molle… Un saluto e un abbraccio a chi se ne è andato e a chi è rimasto. Ciao, ragazzi!
Sui miti che spariscono scrissi un pezzo proprio qui, in questo blog. Riporto solo la fine “Miti che se ne sono andati o che se ne vanno lasciandoci con un palmo di naso, con un fondo di struggente malinconia. E se non se ne vanno rimangono senza il loro fascino usurati e rimbecilliti dal tempo, ridotti spesso a figure stanche e sbilenche senza il pur minimo carisma. Porca vacca. Miti. I nostri miti. Ridateci i nostri miti, maledetti stronzi!”

La pettegola
In paese era nota come “la pettegola”. Bassa, secca, veloce, sgusciante con un musetto vispo da faina. Se volevi sapere qualcosa su qualcuno bastava andare da lei e ti spifferava vita, morte e miracoli. Ma anche se non lo volevi sapere te lo spifferava lo stesso, aggiungendovi particolari pittoreschi. Una specie di enciclopedia vivente sui fatti degli altri. Amata da pochi, vituperata da molti. Anzi, da molte, che soprattutto il gentil sesso ce l’aveva con lei per aver portato alla luce qualche innominabile tresca… Noi ragazzacci di strada gliene combinavamo di tutti i colori, infilando perfino degli spilli sul campanello della sua casa, per farlo trillare in continuazione ed ascoltare le urlanti maledizioni. Alla sua dipartita in paese qualche finto dispiacere e molti sospiri di sollievo. Ora me la immagino fra i santi in paradiso o fra i diavoli all’inferno (in Purgatorio non ce la vedo) a svelare tutto su tutti, scatenando un incredibile casino. La nostra cara, adorabile pettegola.

Il postino…
Non ricordo il suo nome. Tutti, al paese, lo chiamavamo il postino perché portava la posta. Un ometto basso e secco dalla bocca storta che viaggiava su una Guzzi rossa come il fuoco con una cartellona a tracolla. Carattere fumino soprattutto quando giocava a biliardo al bar Italia. Saputa la cosa una folla di frequentatori si assiepava lungo i bordi, per assistere alle sue scenate che, prima o poi, sarebbero venute fuori. Ad aspettare quando si sarebbe incazzato per un tiro andato a male o un commento non gradito (occhio che ti poteva tirare addosso la boccia), con il rossore che si spargeva a ondate sul viso, le vene gonfie, la vocetta stridula che ne diceva di tutti i colori e il ghigno grottesco della bocca storta. Appassionato di pesca se ne andava spesso con le sue canne lungo il torrente del paese. E noi ragazzacci a tirare i sassi nell’acqua per farlo arrabbiare. “Una mela, due mele, ma tutto il melo no!” gridava esasperato. E via a gambe levate per non farci prendere. Filava veloce sulla Guzzi come un pilota di formula uno facendo sobbalzare i poveri passanti, ma non si vedeva tanto era piccolo e sembrava che la moto se ne andasse da sola guidata da un fantasma. Non ricordo il suo nome. Tutti, al paese, lo chiamavamo il postino perché portava la posta.

Il professore di filosofia…
Il nostro professore di filosofia era alto, magro, distinto. Con le sue camicie sempre bianche, bianchissime che sembravano uscite proprio allora dalla lavatrice. Pulite e profumate, dicevano le ragazze con gli occhioni persi. Una rabbia, io che vestivo sbrindellato alla paesana e puzzicchiavo anche di sudore, per farmi un bel pezzo di strada a piedi dalla stazione di Siena alla scuola (il tram mi dava la nausea). Silenzio e devozione assoluta, sempre dalla parte delle osannanti, anche quando concionava di cose astruse e impossibili come quella del piè veloce Achille che non riesce a raggiungere una imbranatissima tartaruga. Ma via, povere illuse! Lo rividi tempo fa barcollante e sgangherato dalla vita, sorretto da una signora. Stavo per chiamarlo ma qualcosa mi trattenne, una specie di groppo improvviso. Voglio solo che rimanga nella mia mente così com’era: bello, alto, signorile, dai modi gentili, sempre sorridente, circondato dalla schiera delle allucinate. Che rabbia!

Sono nato a Staggia, in provincia di Siena, il 1° maggio 1946. Un bel culo dato che non mi sono dovuto sciroppare la terribile guerra e ho visto la luce in un bel giorno di festa. Dentro una casa in affitto dove manco c’era il gabinetto con la tazza ma solo un buco nel pavimento in cui andavano a finire tutti i nostri rimasugli. Comunque meglio che farla all’aperto. Il paese era diviso quasi a metà tra comunisti e democristiani. Luoghi di ritrovo il bar Italia per i primi e il bar del prete per i secondi, due antagonismi come nei film di Camillo e Peppone. All’inizio bazzicavo entrambi, poi mi buttai definitivamente dentro il primo tra il fumo e i moccoli che si incrociavano nell’aria come le rondini a primavera. Passatempi: giochi di carte, il biliardo e la dama. Bravino con la stecca e la dama che mi fu insegnato da un paio di vecchiarelli. Protagonisti assoluti il Toselli e il Martini che se la vedevano ogni giorno e attiravano la curiosità di certe facce grifagne che facevano tifo ora per l’uno, ora per l’altro. Il primo era un vecchietto rinseccolito simpatico che biascicava in continuazione una caramella di menta; il secondo, un po’ più giovane e rubicondo, sorseggiava, sempre in continuazione, un allegro boccale di birra. Tra le facce grifagne c’era pure il sottoscritto che cercava di carpire i segreti del giuoco (avrò avuto quindici anni) e sorrideva ai frizzi e lazzi che si scambiavano i contendenti. Il Toselli quando doveva “mangiare” qualcosa all’avversario, dama o pedina che fosse, la portava in alto e poi faceva finta di infilarla in bocca “gnam gnam” strabuzzando gli occhi di piacere; il Martini, invece, più compito (fratello del sindaco di Poggibonsi) era solito commentare le sue performance con un “Guarda, guarda questa damina tutta sola piccinina, vieni via con me…”, la prendeva in mano, la tirava in aria, la riprendeva al volo mettendola da una parte sul tavolo. Gli astanti dalle facce grifagne (scherzo un po’ sui miei paesani) a questo punto ridevano e commentavano. Dopo qualche tempo che mi parve di averci capito qualcosa, incominciai a sfidare i vecchietti con l’animo in tumulto, il cuoricino che batteva a mille e la faccia rossa come un papavero. Molte sconfitte, qualche vittoria, diverse sconfitte, qualche vittoria in più. Me la cavavo. Il ragazzetto veniva rispettato “Bravo, Fabio!” e mi sentivo orgoglioso di appartenere quasi ad un gruppo privilegiato. Toselli e Martini. A venti anni venni via dal mio paese per stabilirmi a Siena. Quando seppi della loro dipartita mi si strinse il cuore. Ancora oggi, in certi momenti di senile malinconia, li rivedo a giocare con la menta in bocca e con il bicchiere di birra tra le labbra. Ed io sono lì che li ammiro affascinato mentre spostano dame e pedine.

Solo più tardi vennero gli scacchi. A Siena. Più precisamente al dopolavoro ferroviario. In questa magnifica città ricca di tanti tesori artistici ero arrivato per trasferimento di lavoro del mio cognato (morta la mamma quando avevo undici anni vivevo con mio padre e la famiglia di mia sorella). Lo stato gli aveva assegnato una casa proprio vicino alla stazione, per cui spesso e volentieri trascorrevo le serate al dopolavoro giocando con la stecca a biliardo, dove me la cavavo piuttosto bene (riuscii anche a vincere un torneo). L’avversario più difficile, onestamente pure più bravo, era un omettino piccolo e aggressivo che in certe posizioni di tiro, quando la palla restava a metà del campo di gioco, faceva fatica ad arrivarci alzandosi sulle punte dei piedi con uno sforzo sovrumano che lo rendeva pittorescamente paonazzo. Eppure aveva una delicatezza ed un tocco così dolce che faceva scomparire del tutto il problema dell’altezza. Questo ometto di cui mi sfugge il nome (chiedo venia e gli mando un saluto in cielo) lo trovai una volta in un angolo del bar a giocare su una scacchiera contro un suo coetaneo dal labbro storto che mi fece impressione. Solo che sulla scacchiera non c’erano dame e pedine ma una serie di “aggeggi” che mi incuriosirono insieme ai loro movimenti diversi. Tentai di capirci qualcosa osservando le loro partite, come avevo fatto con la dama attraverso uno sforzo tremendo ma con pochissimo sugo. Quando decisi di provare la nuova sfida il vecchietto era sempre contento di vedermi e bacchettarmi. In aiuto venne la scuola, o meglio un mio scolaro del liceo scientifico “Galilei Galilei” di Siena dove portavo avanti una supplenza: Alessandro Patelli che mi introdusse al circolo degli scacchi della città e che sarebbe poi diventato un forte Maestro. Preso dalla passione mi buttai sullo studio di questo gioco meraviglioso e incominciai a progredire a sommo dispetto del terribile vecchietto che improvvisamente non si capacitava di perdere con un pivello come il sottoscritto. Così, quando ne buscavo a stecca, mi rifacevo immediatamente sulla scacchiera.
Ho conosciuto gli scacchi con maggiore consapevolezza tardi, troppo tardi, durante l’epico incontro Fisher-Spassky nella gelida Islanda del 1972 e non li ho più lasciati. Mi sono buttato subito a capofitto nel giuoco per corrispondenza, quando ancora non c’era di mezzo il terribile computer a rompere le palle, mi sono fatto onore e dedicato anima e corpo ad uno studio matto e disperatissimo, come scrive il Poeta, della teoria collaborando a belle riviste e sfornando alcuni libri di impensabile, per me, successo.

Ecco qualche partita che ricordo con soddisfazione:
Giorgio Baiocchi – Lotti Fabio [B21]
Corr. Italia 1983
1.e4 c5 2.f4 e6 3.Cf3 Cc6 4.Ab5 Cge7 5.0–0 a6 6.Ae2 g6 7.d3 Ag7 8.c3 0–0 9.Ae3 d6 10.Ca3 b5 11.De1 Tb8 12.Dh4 f5 13.Cc2 b4 14.cxb4 Cxb4 15.Cxb4 Txb4 16.Tab1 fxe4 17.dxe4 Af6 18.Df2 Txe4 19.Ad3 Tb4 20.Dc2 Db6 21.Ac4 Cf5 22.Af2 d5 23.Ad3 Cd4 24.Cxd4 Axd4 25.Axd4 Txd4 26.Axg6 Da7 27.Ah5 Tdxf4 28.Txf4 Txf4 29.g3 c4+ 30.Rg2 Dg7 31.Tf1 Txf1 32.Rxf1 Df6+ 33.Re1 e5 34.b3 Db6 35.Af7+ Rg7 36.Axd5 Dg1+ 37.Rd2 Dd4+ 38.Rc1 c3 39.Ae4 De3+ 40.Rb1 De1+ 41.Dc1 Axe4+ 42.Ra1 Af5 0–1
Lotti Fabio – Tirabassi Maurizio [A45]
Corr. Italia 1984
1.d4 Cf6 2.Ag5 c5 3.Axf6 gxf6 4.d5 Db6 5.Cd2 Dxb2 6.e3 f5 7.Tb1 Df6 8.Ad3 b6 9.Ae2 Ah6 10.Cgf3 d6 11.e4 Axd2+ 12.Rxd2 Ab7 13.The1 fxe4 14.Dxe4 Rd8 15.g4 h6 16.h4 e6 17.g5 hxg5 18.hxg5 exd5 19.Dg4 Ag7 20.Df4 Rc7 21.Te7+ Cd7 22.Ab5 Thd8 23.Da4 1–0
Giampiero David – Lotti Fabio [A29]
Corr. Italia 1985
1.c4 e5 2.Cc3 Cf6 3.Cf3 Cc6 4.g3 Ab4 5.Cd5 Ac5 6.Ag2 0–0 7.0–0 Cxd5 8.cxd5 Cd4 9.Ce1 d6 10.e3 Cf5 11.Cc2 Ad7 12.a4 a5 13.b3 f6 14.Ab2 c6 15.d4 Ab6 16.dxe5 fxe5 17.Dd2 Dg5 18.Tad1 Dh5 19.dxc6 Axc6 20.h3 Axg2 21.Rxg2 Rh8 22.Rh2 Dh6 23.f4 Tac8 24.fxe5 dxe5 25.Tde1 Tfd8 26.De2 Cg4+ 27.Rg2 Dg6 28.e4 Cf6 29.Axe5 Cxe4 30.Dxe4 Txc2+ 31.Rh1 Dxe4+ 32.Txe4 h5 33.Th4 Tdd2 34.Txh5+ Rg8 35.g4 Ad4 36.Ad6 g6 37.Th6 Rg7 38.Txg6 Rh7 39.Txg7+ Rxg7 40.Ae5+ Rg6 41.h4 Td3 42.Rg1 Txb3 43.Af4 Tb4 44.h5+ Rh7 45.g5 Txa4 46.g6+ Rg7 47.Ae5+ Rh6 48.Tf5 Tb4 0–1
Bresadola Guido – Lotti Fabio [B52]
Corr. Italia 1986
1.e4 c5 2.Cf3 d6 3.Ab5+ Ad7 4.Axd7+ Dxd7 5.0–0 Cc6 6.c3 Cf6 7.d4 cxd4 8.cxd4 d5 9.e5 Ce4 10.Ce1 h6 11.f3 Cg5 12.Ae3 e6 13.Cc3 Ae7 14.Cd3 0–0 15.Cf4 Tac8 16.Dd2 b6 17.Ch5 Ca5 18.Af4 Tc4 19.h4 Ch7 20.Axh6 Txd4 21.Dxd4 Ac5 22.Dxc5 bxc5 23.Axg7 Tb8 24.f4 f5 25.exf6 Df7 26.f5 Dxh5 27.fxe6 Dxh4 28.Tad1 Cc4 29.Cxd5 Cg5 30.Tf4 Dg3 31.Ah6 Ce3 32.Cxe3 Dxf4 33.f7+ Rh7 34.Axg5 Dxg5 35.Cc4 Dg4 0–1
Bascetta Biagio – Lotti Fabio [B21]
Corr. Italia 1993
1.e4 c5 2.f4 d5 3.exd5 Cf6 4.Ab5+ Ad7 5.Axd7+ Dxd7 6.c4 e6 7.De2 Ad6 8.f5 0–0 9.fxe6 fxe6 10.dxe6 De8 11.Cf3 Dh5 12.Cc3 Cc6 13.d3 Tae8 14.Ad2 Ag3+ 15.Rd1 Cg4 16.Ce4 Ac7 17.h3 Txe6 18.Te1 Txe4 19.dxe4 Cge5 20.Cxe5 Dxe5 21.Ac3 Cd4 22.De3 Dh5+ 23.g4 Dh4 24.Axd4 cxd4 25.Dd3 Df2 26.Tc1 Tf3 27.Dc2 Dg3 28.Da4 d3 29.Tc3 Ae5 0–1
Lotti Fabio – Morais Gustavo Joao [B09]
V°Coppa Latina 1995
1.d4 d6 2.e4 Cf6 3.Cc3 g6 4.f4 Ag7 5.Cf3 c5 6.Ab5+ Ad7 7.e5 Cg4 8.Axd7+ Dxd7 9.d5 dxe5 10.h3 e4 11.Cxe4 Cf6 12.Cxf6+ Axf6 13.0–0 0–0 14.Ae3 Td8 15.c4 e6 16.Ce5 De7 17.Df3 exd5 18.cxd5 Dd6 19.Tad1 Cd7 20.Cg4 Axb2 21.Ch6+ Rg7 22.f5 Af6 23.fxg6 fxg6 24.Cg4 h5 25.Cxf6 Dxf6 26.Dg3 De5 27.Af4 De4 28.Tde1 Dd4+ 29.Rh2 Te8 30.Te6 Txe6 31.dxe6 Te8 32.exd7 Dxd7 33.Ae5+ Rh7 34.Tf6 Dg7 35.Df4 Rg8 36.Te6 Txe6 37.Axg7 Rxg7 38.Dc7+ Rf6 39.Dxb7 1–0
De Lagontrie Jean – Lotti Fabio [A89]
V° Coppa Latina 1995
1.d4 f5 2.g3 Cf6 3.Ag2 g6 4.Cf3 Ag7 5.0–0 0–0 6.c4 d6 7.Cc3 Cc6 8.d5 Ce5 9.Cxe5 dxe5 10.Db3 h6 11.Td1 Rh8 12.c5 g5 13.Ad2 a6 14.Ca4 De8 15.Aa5 Ad7 16.Cc3 b6 17.cxb6 cxb6 18.Axb6 Tb8 19.Db4 e4 20.Da5 h5 21.Dxa6 h4 22.Ad4 hxg3 23.hxg3 Dh5 24.Da7 Ta8 25.Dc5 Cg4 26.Axg7+ Rxg7 27.e3 Tac8 28.Dd4+ Rg8 29.Td2 f4 30.exf4 gxf4 31.Dxe4 fxg3 32.f3 Ce5 33.Ah1 Tc4 34.De1 Th4 35.Dxg3+ Rh8 36.Ag2 Tg8 37.Dxg8+ Rxg8 38.Tf1 Dg6 39.Tff2 Cd3 40.Tfe2 Cf4 41.Te4 Dg3 0–1

La nostra nazionale, di cui facevo parte, riuscì a vincere questa V° Coppa Latina.

Ricordo ancora con un pizzico di nostalgia gli scherzi che combinavamo come quando d’inverno, caduta la neve, aspettavamo sopra un ponte il passaggio delle persone che venivano bombardate da un lancio bene accurato di palle tra urla, schiamazzi, improperi e minacciosi inseguimenti. Ricordo le battaglie di mattaione, quella specie di poltiglia azzurrognola tipica del torrente vicino al paese e che diventava l’arma principale con la quale si affrontavano le varie bande di noi ragazzi. Tutti nudi, anche a marzo, quando l’acqua tagliava le gambe e la pelle diventava bluastra. E poi le partite di calcio dalla mattina alla sera sudati fradici, pieni di lividi e con le scarpe rotte, quelle di tutti i giorni perché non si potevano permettere di avere scarpe da giocatore. E a casa erano sgridate e ceffoni perché le scarpe costavano ed un paio dovevano durare tanti anni solate e risuolate dal calzolaio. E le spedizioni a caccia di susine, pesche, ciliegie, cocomeri con i contadini che saltavano dietro inviperiti e se tanto tanto riuscivano a prenderci ci “risuolavano” ben bene come le scarpe. E le scazzottate che nascevano per un nonnulla, per il semplice pretesto di far vedere chi era il più forte. E le risate di quando si raccontavano le barzellette fino a tarda notte, specialmente d’estate lungo la “spianata” che portava fuori dal paese. E che risate! Ridevamo di un niente, di una battuta, di un gesto, di uno spernacchio. Altro che droga…E la pesca. Quella coi bachini bianchi che si contorcevano di brutto quando li infilavo nell’amo e un po’ di impressione me la facevano. O la pesca con il granturco e l’uva. Prima andavo ad “impastare” i pesci al torrente con il motorino “Beta” nei posti più nascosti per qualche giorno e poi ci ritornava con la mia bella canna. Tiravo fuori certi pesci che allora mi sembravano enormi. E poi c’era la pesca a galla con le mosche o i grilli che venivano fatti strisciare lungo il pelo dell’acqua e i pesci vi saltavano sopra che era una goduria tirarli fuori tutti scodinzolanti. Mi piaceva quel contatto solitario, a tu per tu con la natura, e ritornavo a casa felice anche se tutto impantanato con le gambe ferite dai pruni e dai rovi. A volte aspettavo addirittura la fine del tramonto, quando il sole rosseggiava dietro le colline e calavano le prime ombre. Allora, camminando lungo i viottoli della campagna, mi prendeva una specie di voluttuosa inquietudine e aumentavo i passi fino a correre a gambe levate…
Ricordo i giornalini, voglio dire i fumetti “Tex Willer”, “Blek Macigno”, “Zagor”, “Capitan Miki” e questo mi è rimasto impresso molto bene perché anche io portavo i capelli con la divisione centrale come lui e il nomignolo mi fu subito appioppato (da Ciccina, altro soprannome di uno che un po’ di ciccia ce l’aveva addosso), e poi “Nembo Kid” e gli immancabili “Topolino” e “Paperino” insieme a “Cucciolo” e “Tiramolla” che mi piaceva perché poteva prendere qualsiasi forma. E allora all’improvviso in soffitta mi si aprivano cieli immensi, pianure sterminate, prendevano corpo indiani indiavolati, cowboy dalla pistola facile, rapine alle banche, inseguimenti, sparatorie, Mefisto che appariva e spariva a suo piacimento e un brivido me lo faceva correre lungo la schiena.
Il giallo. La passione per il giallo l’ho avuta sin da piccolo quando, frugando per caso in una cantina di un suo cugino, si era ritrovato fra le mani una avventura di Perry Mason pubblicata dalla Mondatori sulla cui copertina campeggiava il volto del noto attore Raymond Burr (molti lo ricorderanno come uno dei protagonisti de “La finestra sul cortile” di Hitchcock, quello che ha fatto la felicità di tanti depressi mariti tagliando a pezzi la moglie) che è stato uno degli interpreti principali, se non l’unico, di questo popolare avvocato. Da allora ho cominciato a fare incetta di gialli appassionandosi soprattutto a quelli di scuola inglese della Christie basati più sul lavorio delle cellule grigie, come direbbe Poirot, che non sull’azione come il giallo americano di Chandler, Hammet o Spillane, tanto per intenderci. Abbarbicato soprattutto al mitico G.M., ovverosia Il Giallo Mondadori. Quello che negli anni…negli anni…(e chi se li ricorda?) mi faceva compagnia sul treno per Siena (scuole superiori) e poi sulla littorina per Firenze (Università) tra il lusco e il brusco, con l’occhio assonnato (alzata alle sei!) e il sorriso ebete sulle labbra. E allora mi aggiravo imbambolato tra piccoletti con la testa d’uovo, ciccioni orchideati, nobili monocolati, lungagnoni elementari, tracagnotti fumantini, omaccioni arcontoni e via e via. Giallo e scacchi, o viceversa. Un binomio indissolubile che mi ha portato lungo questa ricerca per molti anni, scovando rapporti impensabili espressi, poi, in diversi articoli e in un bel libro di conosciuti e stimati autori. Scacchi e giallo. Gli scontri, le battaglie, la morte. Scacco matto, il Re è morto.
La Storia, altra grande passione. Mi sono laureato addirittura con il mitico Giorgio Spini (lo cito dappertutto con una certa ingenua e infantile pomposità) sui cui libri di storia avevo studiato. Soprattutto quella antica e crudele narrata da nomi, strani, fascinosi e roboanti: Procopio (copio a favore di chi?) di Cesarea, Senofonte (una fonte uscita dal seno?), Plutarco e via su, su fino a Livio, Cesare, Polibio, Sallustio…E qui un brivido che mi rivedo davanti la terribile figura della professoressa La Macchia tesa a spellarmi su “Catilina, nobili genere natus…” e sulla guerra contro Giugurta con il sudore che scendeva a rivoli e il cuore incazzato nero. La Storia, anche quella delle Rivoluzioni dovunque fossero (francese, russa, americana) tra scontri, intrighi, tradimenti. E ancora morte e morte. Una fissazione. Chissà…
Ricordo il profumo d’incenso della chiesa e le lunghe litanie in latino delle donnine del paese (quell’”ora pro nobis” che non finiva più), la faccia simpatica (e non poteva essere altrimenti) del barista che per venire incontro alle mie esauste finanze (non avevo mai una lira in tasca) mi faceva pagare le pastine a rate. Sarà senz’altro volato in cielo con le mie preghiere.
Ricordo le prime sigarette fumate di nascosto e, sempre di nascosto, le copertine di “Playboy” sfogliate con la lingua impastata alla Fantozzi e gli occhi di fuori, le prime cotte con la faccia tutta rossa e la lingua balbettante di fronte a ragazzine vispe che non vi dico. Oggi saranno pure più sveglie ma anche allora non dormivano. I primi abboccamenti al cinema, le prime strusciate, i primi baci. Spesso solo sognati. Una fatica bestiale. Vita amorosa dura. Da manovale del sesso, mica da latin lover.

Ricordo il sessantotto. E come posso dimenticarlo! L’università a Firenze, le lotte degli studenti, le contestazioni, le cariche della polizia dopo i tre squilli di tromba. Le occupazioni, i casini, i discorsi di Capanna, l’eskimo e tutto l’armamentario politico del tempo. La parola d’ordine “Tutto e subito” che a me sarebbe bastato anche un po’ per volta. Gli esami che non finivano mai come il percorso in treno Staggia-Firenze peggio di una lumaca. E il ritorno, la sera tardi, al mio paese.
I ragazzi. Mi mancano, mi sono sempre mancati i miei ragazzi, i miei studenti che ho lasciato con l’età della pensione. Soprattutto i momenti in cui li osservavo tesi sui compiti in classe, le teste chine, o alzate in aria a cercare qualche ispirazione, le smorfie, lo stringere spasmodico delle labbra, l’improvviso sorriso per avere catturato una buona idea, gli occhi quando venivano a chiedere conforto in un momento di crisi. I loro occhi, i loro occhi che chiedevano aiuto…Mi mancano.
Lo lasciai a vent’anni. O quasi. Era piccolo il mio paese. Alcune centinaia di anime tra Siena e Firenze. Lo lasciai per la città con il groppo in gola e con la sensazione che si strappasse qualcosa dentro. Salutai la mia infanzia, la mia adolescenza e parte della giovinezza. Lì c’erano i miei amici, lì c’erano le mie speranze, le mie paure, i primi battiti del cuore, i primi tremori lungo la schiena. Lì c’erano i luoghi dove avevo scorrazzato intrepido con l’animo rivolto al futuro. Conoscevo ogni angolo, ogni anfratto. Ad ogni ritorno, quando da lontano incominciavo a scorgere l’antico castello, mi sembrava di riabbracciare un vecchio amico. Ci ritornavo con l’orgoglio di chi aveva studiato e ce l’aveva fatta. Con quel pizzico di vanità che colpisce le ingenue anime dei giovani. Saluti, abbracci, complimenti. Bevute al bar con racconti mitici delle passate avventure. Forti strette di mano e il senso di ritrovare me stesso. Alla partenza, mentre vedevo svanire dal treno il vecchio castello, una specie di vuoto, un velo di malinconia. Poi il mio paese è cresciuto, è diventato grande. Diverso. Quasi non lo riconosco. Uno sguardo sorpreso (chi sei?), un saluto affrettato, volti cari che non ci sono più. Panta rei. Tutto scorre. Restano i ricordi a farmi compagnia.
P.S. Non ci sono solo ricordi. C’è la famiglia con la moglie Milena, i figli Riccardo e Claudia. E ci sono gli ultimi arrivi: i nipotini Jonathan e Jessica. Altro che ricordi!…

avatar Scritto da: Fabio Lotti (Qui gli altri suoi articoli)


14 Commenti a Di sogni e di chimere…

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    Martin 12 Ottobre 2019 at 09:17

    Semplicemente bellissimo…

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    patrizia debicke 12 Ottobre 2019 at 10:38

    Dici bene altro che ricordi. Una lunga vita piena di piccole e grandi cose, birichinate, studi, ribellione, crescita morale e intellettuale, gli scacchi il lavoro, l’insegnamento il continuo contatto con gli altri, UNA VITA bella con le sue soddisfazioni. Viva Fabio, avanti tutta e sempre così.

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    fabrizio 12 Ottobre 2019 at 10:49

    Bello davvero! ricordi…. e nostalgia!

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    Giancarlo Castiglioni 12 Ottobre 2019 at 18:45

    La partita con Tirabassi non è ricostruibile, deve esserci un errore.

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    Fabio Lotti 12 Ottobre 2019 at 21:16

    Ringrazio Giancarlo per la puntualizzazione. Si tratta di un mio errore di trascrizione. La mossa giocata è 9. De2 e non 9.Ae2. Mi scuso per eventuali altri errori.

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    Patelli 14 Ottobre 2019 at 08:25

    Bellissimo. Un vero viaggio fra i ricordi. Bravo Fabio, ma quanta nostalgia….

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    Mongo 15 Ottobre 2019 at 12:49

    Grande Fabio, un po’ sconfusionato, sarà l’età?, ma bellissimi ricordi tramandatici con una scrittura che ti chiama a volerne sapere di più di tutti i personaggi che hai incontrato.

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    Fabio Lotti 15 Ottobre 2019 at 22:38

    “Sconfusionato” mi piace un sacco. Rende bene l’idea del sottoscritto smarrito tra i ricordi, la realtà e l’irrealtà. Grazie per il commento.

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    Fabio Lotti 15 Ottobre 2019 at 23:24
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    Doroteo Arango 16 Ottobre 2019 at 18:51

    Bravo Elio bravi tutti! Ma, ragazzi, non perdiamo tempo ed energie su cose poco rilevanti… vorrei invece sapere “tutto” su questa Vittoria Schisano :p

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    Marco Pic 17 Ottobre 2019 at 19:54

    Questo stile cosiddetto “sconfusionato” mi piace molto!
    Complimenti veramente!!
    Marco Pic

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    Fabio Lotti 1 Novembre 2019 at 09:10

    Per i soliti amici scacchisti-giallisti sono uscite le letture di novembre http://theblogaroundthecorner.it/category/ospiti/letture-al-gabinetto/

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    Antonio Pipitone 13 Novembre 2019 at 19:06

    Bravo Fabio: complimenti.
    Lo stile , la classe, non sono acqua fresca ma privilegio di pochi….
    Antonio

  14. avatar
    Fabio Lotti 16 Novembre 2019 at 15:08

    Grazie a tutti. In particolare ad Antonio che ho sempre ammirato.

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