Nella mia vita ho visto e studiato migliaia di quadri. Con alcuni ho provato una esperienza estetica profonda, con altri mi sono tuffato in mondi e realtà fantastiche, molti mi sono piaciuti profondamente ed emotivamente, ma in uno, in solo uno, quando mi ci sono trovato davanti, mi sono sgorgate inaspettate e copiose un fiume di lacrime. Ho pianto di una commozione inaspettata ed incredula, da un lato, poiché mai mi aspettavo potesse succedermi. Il quadro è questo pubblicato.
Non è il solito quadro di Caravaggio, ricco di colori e dettagli (come ad esempio il primo, quello alla National Gallery), perfetto, o di luce tagliente che diventa il soggetto centrale e stordente del quadro. Si, certo, c’è anche questa naturalmente perché Caravaggio è la luce. Ma qui è al servizio di un uomo, il protagonista: Cristo.
Io non sono religioso, sono piuttosto antidottrinario. Ma la mia cultura, quella su cui sono cresciuto, come tutti del resto, è questa qui. Quindi quell’Uomo che benedice il pane, non può essere indifferente. Ebbene quella figura dipinta magistralmente sembra veramente caricarsi di tutti i dolori del mondo. È chino sul pane, lo sta benedicendo sapendo che la sua missione compiuta non può essere compresa. È di fronte ad un fallimento perché gli uomini non capiscono. Nascono crescono e muoiono ma non capiscono. Guardano ma non vedono, ascoltano ma non sentono, esistono ma non vivono. Caravaggio ce lo narra con la raffigurazione simbolica di un’attonita umanità, che lo circonda interrogativa, incapace di comprendere, che esprime la propria inadeguata sorpresa e la lontananza siderale da quel messaggio che quell’Uomo benedicente, sulla tavola, aveva tentato vanamente di lasciare loro (noi) in eredità.
Caravaggio era appena scappato dopo un assassinio, peraltro per futili motivi. Con questo quadro ci parla anche di sé, del suo dolore, della sua natura violenta che subisce incapace di vincere e dalla quale è totalmente sopraffatto. Su questa, egli si giocherà dolorosamente la sua esistenza e il suo genio.
Cena in Emmaus, 1606
Olio su tela (141×175 cm)
Pinacoteca Nazionale di Brera, Milano
Sembra che il quadro in oggetto sia il primo, ma io credo sia invece il secondo.
Potete chiarirmi?
Si, Giancarlo. Il quadro a cui mi riferivo è quello di Brera. L’immagine della Cena in Emmaus alla National Gallery è stata inserita, presumo, per avere un miglior termine di paragone con l’omologa.
il Merisi ne ha dipinte due versioni. La prima, esposta alla National Gallery, è quella della prima immagine, la seconda, questa di cui così bene ci racconta l’autore di questo ottimo articolo, più sommessa nei toni e posteriore, è esposta a Brera. Complimenti per questo bellissimo post.
Davvero molto bello, grazie.
Non sono un esperto di pittura ma di fronte a certi capolavori non occorre grande cultura artistica: ne resti semplicemente ammaliato.
La costante ricerca della bellezza nell’arte, l’unica nutritrice l’anima.
Grazie all’autore di questo magnifico pezzo.
Luci, ombre, mistero…
Impressionante la differenza tra i due quadri.
Tecnicamente sono entrambi molto belli, ma il primo sembra eseguito con un lavoro commissionato al pittore.
Nel secondo il pittore ci ha messo del suo.
Esatto Giancarlo. Fra il primo, quello della National Gallery e il secondo ci sono cinque anni circa, ma soprattutto, in mezzo all’esecuzione delle due opere ci fu un omicidio, quello che commise Caravaggio ai danni di Ranuccio Tommasoni. Nell’opera traspare tutta l’influenza di questa vicenda. La prima così perfettamente eseguita e rispondente ai dettami dottrinari. La seconda intensamente umana e coinvolgente.
Ricco di colori mi pare esagerato dirlo per Caravaggio.
Ottimo articolo: io ritornando a Brera poco prima del lockdown sono rimasto colpito dalla miriade di emuli che ha lasciato dietro di sè, davvero non me ne ricordavo così tanti. Comunque più si visita Brera e più si scopre qualcosa.
Un caloroso abbraccio all’autore del pezzo ed a tutti gli amici di Soloscacchi.
Nel libro Credere per vedere (Riflessioni sulla razionalità della Rivelazione e l’irrazionalità di alcuni credenti) (2010, io utilizzo la prima edizione Lindau 2012), il filosofo francese Jean-Luc Marion ha scritto: «[Durante la Passione del Cristo] il massimo della santità viene risucchiato dal massimo di invisibilità, dalla morte. La gloria pasquale stessa rimane in un certo senso invisibile, perché la sua santità trionfante non può sempre riflettersi nel mondo che essa tuttavia annulla. Così essa può manifestarsi agli stessi credenti solo a misura di ciò di cui essi possono “essere capaci”: poiché “i loro occhi non potevano riconoscerlo” (Luca 24,16) [questa citazione si riferisce all’apparizione di Gesù risorto a due discepoli in cammino verso il villaggio di Emmaus] e “i discepoli non sapevano che fosse Gesù” (Giovanni 21,4) [quest’altra citazione si riferisce all’apparizione di Gesù risorto ad alcuni discepoli sulla riva del lago di Tiberiade], occorre che a Emmaus la santità ricorra al chiaro-scuro del sacramento – segno visibile della cosa tuttavia invisibile –, cioè alla divisione del pane» (p. 269-270).
Caravaggio, nella seconda versione della Cena in Emmaus, è riuscito a rappresentare magistralmente il «chiaro-scuro del sacramento» di cui parla Marion (chissà che il filosofo non pensasse proprio a tale dipinto)…