La famiglia Bellelli è uno dei primissimi capolavori di Hilaire Germaine Edgar Degas.
Questo dipinto si potrebbe chiamare anche: “quanto mi sta sul c…avolo il marito di mia zia!”. A parte gli scherzi, quest’opera introduce al mondo il genio artistico di Degas. Un ritratto di famiglia che brilla per esecuzione ed originalità compositiva, un taglio “cinematografico” sofisticata ricercatezza, come la scena di un film di Visconti.
Degas qui già manifesta il suo programma artistico futuro fatto di armonie cromatiche, indagine psicologica ed inquadrature non convenzionali. Caratteristiche che contribuiranno al successo dell’Impressionismo e porteranno il suo nome agli altari della fama mondiale.
Egli inizia l’opera poco più che ventenne, nel 1858, durante il primo dei suoi viaggi in Italia, Paese nel quale troverà numerose fonti di ispirazione e di riflessione per la propria arte. Riprenderà il quadro dopo alcuni anni e lo terminerà dopo una decina, tenendolo sempre nel suo studio senza mai immetterlo sul mercato.
L’impostazione non è ancora impressionista nel senso stretto, poiché nel 1858 i principali protagonisti di quell’epoca erano ancora troppo giovani e il movimento doveva ancora compiere il suo percorso di maturazione. Invece, direi si notano piuttosto le influenze dei macchiaioli con i quali venne a stretto contatto durante quei soggiorni a Firenze.
Degas introduce in questo capolavoro la sua versione del ritratto psicologico spostando in alto l’asticella del Realismo con cui l’arte francese in quel momento, attraverso Courbet, Millet e Daumier, cercava di sradicare quegli influssi retorici e leziosi dell’accademismo imperante durante l’epoca di Napoleone III.
Il grande ritratto contempla la famiglia di Gennaro Bellelli, nobile napoletano, un liberale attivo membro del Risorgimento di stanza a Firenze in quel momento poiché esiliato dal Governo borbonico. Bellelli diventerà poi Senatore e un importante dirigente nella nuova Italia che nascerà tre anni dopo.
Il quadro è strepitoso, giocato tutto su toni freddi e sobri. La composizione dell’opera è studiatissima. Le figure sono disposte in un perfetto equilibrio di volumi. A sinistra la “piramide” formata dalla figura della zia Laure, dietro una carta da parati azzurra, mentre abbiamo a destra un grande specchio con accessori d’arredo e la poltrona scura sulla quale è seduto lo zio Gennaro che bilancia perfettamente l’abito scuro di Laurie. Il nero con cui sono vestite le tre figure femminili, la zia e le due cuginette Giulia (a sinistra) e Giovanna isolano graficamente il gruppo dal padre che invece indossa una vestaglia da camera. Gli splendidi grembiuli bianchi, un vero e proprio virtuosismo pittorico, alleggeriscono le vesti nere delle bambine con candore, come un’allusione alla infantile innocenza dal coinvolgimento in quelle dinamiche coniugali.
Straordinario poi è il gioco degli sguardi. Le linee immaginarie di comunicazioni visiva sembrano disegnare un vero e proprio tracciato che
rimbalza da una figura all’altra. La zia in piedi, in una posa giunonica, guarda con sguardo orgoglioso e triste, direi quasi succube, direttamente verso la finestra che dà sull’esterno. Lo deduciamo dal volto illuminato direttamente, senza ombre dominanti. Come non pensare ad un sentimento di evasione da quel rapporto coniugale? Perfino il cagnolino in basso a destra, mezzo tagliato dall’artista, ci dice che sia meglio andarsene da lì. Anche la piccola Giovanna guarda fuori ma di lei si percepisce un contatto comunicativo col padre, come se avvertisse il suo sguardo. Gennaro Bellelli, in una posa quasi prossima ad alzarsi, sembra invece scomodo in quella posizione o forse in quella situazione. Non osserva la scena in generale ma solo la figlia Giovanna. Giulia invece è appoggiata alla madre, ne riceve la mano sulla spalla. Questa posa ci comunica un legame fortissimo. Con quella mano la madre sembrerebbe proteggere la figlia con un sentimento di complicità, mentre la sorella minore ha una posizione che suggerisce un legame affettivo più forte col padre. Giulia inoltre è l’unica che lega la scena all’osservatore: ci guarda direttamente; l’unica che sembri pienamente consapevole di posare per un ritratto. Anche la sua è un’espressione dimessa, con le mani tradiscono un certo imbarazzo, mentre invece quelle della sorella, ripiegate sui fianchi, lanciano un segno opposto di consapevolezza e controllo.
Totale è l’incomunicabilità fra i due genitori, mi suggeriscono alcuni personaggi femminili dei film di Verdone. Laurie scrive al nipote l’anno successivo al soggiorno di Degas a Firenze: “ho ragione di vedere tutto in nero?”, “Vivere qui con Gennaro, di cui conosci il carattere detestabile e senza che abbia una seria occupazione è qualcosa che mi trascinerà nella tomba”. Ma nella società borghese del XIX secolo, una separazione non era un’opzione contemplata.
È chiaro che Degas esprime in questa giovanile opera il genio in nuce che l’accompagnerà in tutta la sua lunga vita portando la comunicazione artistica verso nuovi orizzonti espressivi. Malgrado non si sia mai sentito pienamente un Impressionista, egli ha rappresentato una delle anime più profonde ed intense del movimento. L’attenzione alle forme nello spazio, alle espressioni dinamiche e psicologiche dei soggetti ritratti è qualcosa che va oltre la realtà, ne formula la sintesi poetica della sensibilità umana davanti agli eventi quotidiani della nostra vita: Degas riesce ad estrarre la linfa vitale in ogni suo soggetto, dalla tensione dei fantini alla concentrazione delle ballerine dell’Opera, dai momenti più privati delle prostitute di Montparnasse ai perdigiorno delle brasserie di Montmartre, tutti ritratti nella loro umanità più cruda, vitale ed anche poetica.
Edgar Degas (1834-1917)
La famiglia Bellelli – 1858-1867,
Olio su tela 200×250 cm. Museo d’Orsay, Parigi
Arte, musica, cultura, scacchi, ricordi, sorriso e ironia…Ci si può trovare di tutto in questo blog.
Un grazie soprattutto a Martin.
Visto il variegato contenuto il blog potrebbe davvero chiamarsi “Isole di lettura” come era stato proposto, anche se io allora ne ero contrario.
Caro Fabio, apri un tema delicato.
Non è importante il nome secondo me.
Chi conosce il sito sa che non si parla di solo scacchi ma forse il nome attuale può rappresentare un pregiudizio per chi si approccia per la prima volta al sito.
E’ un argomento questo dove ci sono diverse questioni da valutare coi vari pro e contro.
Penso che un cambio radicale sarebbe sbagliato ma si potrebbero avanzare delle proposte su come meglio motivare gli argomenti a tema non scacchistico in un ipotetico altro indirizzo che però non rinneghi le radici originali del blog.
Per esempio “Non solo scacchi” (brutto, banale e non originale) o comunque un titolo (migliore) che dia l’idea che non si parli di solo scacchi.
Ovvio che la decisione spetta a Martin senza il quale questo sito oggi non esisterebbe.
Personalmente non sono ne’ contrario ne’ favorevole ad un cambio ma mi piacerebbe che se ne discutesse ampiamente.
Per esperienza ricordo che le decisioni prese affrettatamente hanno portato sempre a delle polemiche e mi piace pensare che in un blog democratico questo non accada mai.
Detto ciò vorrei fare i complimenti all’autore di questo splendido articolo; grazie!
Sono sempre per le discussioni. La mia era solo una semplice constatazione.
Poiché “SoloScacchi” è tutto questo, a mio modo di vedere non c’è titolo migliore per questo blog!
Attenderò il prossimo articolo dell’autore!
Gli ultimi due articoli, in effetti, esprimo più d’ogni altra descrizione l’anima di questo blog!
Infatti! il blog è perfetto così, non cambiate nulla per favore!
Beh, allora “sfondiamo una porta aperta”….
Avanti cosi!
Anch’io aspetterò con piacere il prossimo articolo di Cafarotti
Ho sempre apprezzato questo dipinto di Degas per la critica alla società e alla famiglia borghese. Dietro l’apparente semplicità del quadro si nasconde molto di più, perché questa non era una famiglia felice, e i coniugi erano sul punto di separarsi. Questa critica delle istituzioni borghesi, secondo me, è la vera cifra dell’arte di Degas, e compare in tutti i suoi quadri, nei ritratti delle ballerine di teatro, nell’Assenzio e pure in un quadro come “Lo stupro”.