il gusto del delitto

Scritto da:  | 29 Settembre 2020 | 21 Commenti | Categoria: Cultura e dintorni, Scacchi e letteratura

Lo scrittore Attilio Lolini mi ha lasciato, fra gli altri scritti, anche questo a cui ho aggiunto diverse cosette delle mie ricerche. Per la gioia, spero, di qualche amico scacchista-giallista e di qualche buongustaio…

In un giallo di Nino Filastò, La tana dell’oste, è protagonista, una volta tanto, un investigatore italiano; si tratta di un non meglio identificato “vecchiaccio con il sigaro” che ha come sfondo per le sue indagini le città e le province di Pisa, Lucca e Massa Carrara, dove l’olio e il pane erano, almeno fino a qualche anno or sono, di prima qualità. E la carne? E’, questa, la storia molto realistica di un oste malefico dedito al traffico e al commercio di capi bovini malati che, macellati, vengono messi sul mercato come carne di prima scelta. L’infame oste viene, giustamente, assassinato ma il fatto sorprendente è che Filastò (c’è anche un certo Ugaccione, probabilmente conte o marchese) ritiene che il commercio dei vitelli ammalati sia del tutto normale, sicché il vero problema poliziesco che propone questo giallo scintillante e ironico è il seguente: Cosa abbiamo mangiato e cosa mangiamo anche nelle regioni e nelle città indicate come campioni della genuinità? Come dobbiamo regolarci davanti ad una bistecca alla fiorentina o ad uno stuzzicante piatto di spezzatino con le patate? L’enigma è, tuttora, insoluto.

Una leggera aria di venefici effluvi circonda le torte, le focacce e le composte di Miss Marple, che è cuoca sopraffina specie quando non sta dietro alle indagini, ossia quasi mai. Ma, tra un delitto e l’altro, nel villaggio di St. Mary Mead c’è poco da fare e i pettegolezzi con le amiche spesso cedono il posto ad un altro talento della signorina, la distillazione di liquori: rosoli, anisette, sospetti millefiori che la Marple offre alle amiche nelle interminabili riunioni pomeridiane, dopo il thè con le crostate e i biscotti fragranti appena tirati fuori dal forno. La tavola è apparecchiata con meravigliose tovaglie ricamate dove sono allineati i vassoi di pasticcini d’ogni dimensione e colore. I dolci sono fiabeschi: torte ai mirtilli, ai lamponi, alle fragoline di bosco anche se la Marple è, al contrario delle sue maldicenti amiche, tutt’altro che golosa. I suoi piatti sono lunghi ed elaborati come le sue indagini. Ogni tanto viene a trovarla il nipote, scrittore di polizieschi, Raymond West che subito s’abbuffa alla tavola della zia che trova, ovviamente, sopraffina. Tuttavia, si lamenta la Marple con toni elegiaci, la detestata modernità incombe su St. Mary Mead; la vecchia bottega di cestini fatti a mano del caro signor Tom è stata trasformata in un supermercato pieno di cibi inscatolati e si sospetta l’apertura d’un negozio strano, inconcepibile per la Marple e le sue amiche, una pizzeria a taglio. Ma l’essenziale è rimasto: la locanda, il vicariato e tante villette georgiane con i giardini curati e fioriti.

Dai liquorini di Miss Marple al whisky di Slim Callaghan il passo è breve. Nel romanzo: Mai un momento di quiete, l’investigatore inventato da Peter Cheney entra al Gatto verde e si siede su uno sgabello. Subito si rivolge, rudemente, al barista Patrick con un ordine perentorio: “Ehi, un doppio whisky e soda!”. Il barman, che la sa lunga riguardo a Callaghan e ai clienti del suo locale, mette davanti all’investigatore una bottiglia di liquore piena fino all’orlo. In ogni pagina Slim beve sei o sette bicchieri per un totale di settecento e passa per romanzo. Ovviamente mangia poco, qualche hamburger, qualche patatina fritta, un hot-dog che butta via senza rimpianti. Al Gatto verde entra una donna eccessivamente profumata che, intravisto il bello e duro Slim, s’arrampica in uno sgabello accanto a lui. Callaghan è disgustato da tanto profumo e dall’aperto approccio della donna, inguainata in un vestito che mette in risalto le sue procaci forme. Slim, sgarbatamente, si sposta e dice a Patrick: “Un altro whisky, doppio s’intende”. Il barista non ne poteva più; quando Callaghan stazionava al Gatto Verde ce n’era di lavoro. Poi era distratto dalla donna che con la lingua faceva strani risucchi sia a Callaghan che al barista. Allora sbadatamente servì a Slim una Coca-cola e Callaghan l’uccise sparandogli due colpi di pistola. Un personaggio duro, crudele, violento.

Il cibo e le orchidee sono le passioni esclusive di Nero Wolfe, l’investigatore più goloso di tutta la storia del giallo. Esiste uno strepitoso volume: Le ricette di Nero Wolfe, senza dubbio più interessante de Il cucchiaio d’oro e del capolavoro di Pellegrino Artusi. Di mattina, nella vecchia casa d’arenaria della 35° strada, si comincia con le frittelle inimitabili del cuoco Fritz, in una cucina, che oltre ad una testa di cinghiale appesa sopra la cappa del camino e un impianto stereo alta-fedeltà, “ospita” due casse di pentole antiche una delle quali, secondo il cuoco contraddetto prontamente da Wolfe, fu usata personalmente da Giulio Cesare in persona. L’Imperatore vi cuoceva – secondo uno Svetonio molto apocrifo – uno stufato sensazionale. Il cuoco più famoso della letteratura poliziesca possiede ben 289 libri di cucina, per lo più rarissimi, tra i quali una cinquecentina e un Libro d’Ore che riferisce una ricetta per cucinare l’arrosto di cerbiatto e la frittura delle cervella dell’usignolo. Wolfe stesso partecipa non di rado all’elaborazione dei banchetti, litigando astiosamente con il suo cuoco per via della quantità minima dei condimenti: un pizzico di pepe in più, un’ombra di sale, un milligrammo di zafferano; se è opportuno mettere una foglia di salvia nella salsa o un pizzico di trito di rosmarino. Battibeccano, s’azzuffano poi Wolfe dà la colpa al cuoco Fritz della non perfetta riuscita di certi piatti.

Da una parte, seduto su uno sgabello, sta Archie Goodwin che, di solito, mangia in casa ma con qualche eccezione. Egli è affezionato alle tavole calde, alle patatine fritte e alle bistecche che escono dai distributori cotte e già incartate; inoltre beve sempre latte, bevanda detestata da Wolfe che non la somministra neppure alle orchidee. Nero è pigro oltre ogni dire ma per un piatto riuscito farebbe qualsiasi cosa, anche uscire di casa, percorrere le strade infide e infernali di New York e, orrore, salire in macchina. In Alta cucina, un capolavoro (non soltanto della letteratura gialla) accetta di risolvere un caso intrigato in cambio d’una ricetta: la salsiccia di mezzanotte, sublime invenzione di un cuoco balcanico. Un’altra ricetta, è questa di Fritz Brenner: stufato d’anatra ripiena di granchi, che prevede anche tartufi bianchi freschissimi, ossia appena dissotterrati, scalogno e una droga tibetana. Wolfe, come tutti i geni, è incontentabile. Anche sul suo strepitoso cuoco, conteso e invidiato da tutti i più esclusivi ristoranti di New York, ha opinioni riduttive. In Nero Wolfe e il caso dei mirtilli, dice: “Vi sono pochi grandi cuochi, un certo numero di buoni e un’orda di cattivi”. Nella mia casa ho uno dei buoni, Fritz Brenner. Non è un cuoco capace d’ispirazione, ma è competente e attento. E’ anche discreto”.

Di buon appetito è anche un altro celebre investigatore: Hercule Poirot che preferisce piatti dolci e va matto per la cioccolata in tazza, molto densa ma spumosa, i pasticci con la besciamella, gli zabaioni con uno spruzzo di autentico marsala e vini ovviamente dolci come lo Xeres, il Porto, il Moscato. Divora la zuppa inglese ma detesta il rosbif e le minestre di verdura. La frutta la fa mangiare ad Ariande Oliver (controfigura di Agatha Christie) grande divoratrice di mele.

Rispondeva Raymond Chandler ad una sua lettrice che le abitudini bevitorie di Philip Marlowe: “sono pressappoco quelle che dite voi. Non credo che preferisca al bourbon il rye. In realtà Marlowe beve qualsiasi liquore che non sia dolce. Aggiunge: “Certi drink come il Pink Ladies, Honolulu, Cocktail e Crème de menthe gli fanno orrore”. Spesso si fa un buon caffè, prende panna e zucchero per poi respingerli decisamente. Il caffè lo beve nero e amaro. Infatti Philip Marlowe beve amarezza ad ettolitri; anche l’aria che respira, nella sua storia più bella, Il grande sonno, è acre, fumosa. Guarda il mondo e scuote la testa. Si prepara da sé i pasti che sono semplici, ma più che mangiare Marlowe fuma e tutte le sigarette vanno bene basta che non abbiano il filtro. Si alza tardi per inclinazione ma, se è necessario, ogni tanto esce dal letto all’alba. Non facciamo, più o meno, tutti così?

Al commissario Maigret non piace per nulla la cucina sofisticata. Lo scrive chiaro e netto il suo creatore, George Simenon, quando lo fa invitare da un suo amico d’infanzia diventato ricco e decisamente snob: “I cibi erano senza dubbio speciali ma Maigret non provava alcun piacere in quei piattini complicati, con salse invariabilmente costellate di tartufi e di code di gamberi”. La moglie del commissario, Louise Maigret, prepara piatti semplici, tipici della piccola borghesia francese di campagna. Il commissario Maigret mangia spesso fuori casa e a volte gli capita di assaggiare un piatto delizioso, magari in qualche piccolo ristorante della banlieu. Tornando a casa ne parla alla moglie che subito cerca una ricetta per replicarlo. Louise, racconta Robert J. Courtine nel suo delizioso libriccino, Le ricette della signora Maigret, scambia spesso minestre e secondi con la sua amica, la moglie del dottor Pardon. I Pardon ospitano i Maigret una volta al mese, due settimane dopo i Pardon si recano dai Maigret per cene semplici ma sostanziose. Le ricette alsaziane sono meticolosamente trascritte da Louise in un quaderno che il marito commissario le aveva regalato un giorno quando, per una complicata indagine, era entrato, per investigare, in una libreria di Montmartre. Scrive Simenon a Courtine che per ciascuna ricetta Louise si è preoccupata di risalire alle origini, spesso campagnole, dei piatti; di cercare il perché di quel tale ingrediente, di quel tipo di cottura e di contorno. E, spesso, ha trovato il modo di semplificare le ricette come richiede il nostro povero stomaco oggigiorno.

Piatti complicati, invece, per l’agente nero della CIA, il principe Malko Linge, costretto a girare i continenti agli ordini del suo prolifico creatore, lo scrittore e giornalista francese Gerard De Villiers. Cosa mangia il bel Malko dagli occhi d’oro? Le portate dei grandi alberghi e ristoranti alla moda ossia insalate d’alghe rosate, stufati di porcospino con mirtilli, arrosto d’iguana con patate lessate in brodo di armadillo, paté di fegato di ghiro e, prima della scoperta della magica pillola Viagra, una quantità di pepe bianco, peperoncino di Cajenna e altri ingredienti letali per le emorroidi. Beve solo un whisky, J&B (quello sotto contratto) che tiene, in fiaschette d’oro, nelle sue Jaguar con impianto Akai (altro contratto), macchine rivestite di pelle di coccodrillo, di volpe argentata e di topo muschiato.

Ed ecco i miei spunti. Montalbano segue un po’ le orme del noto transalpino in Sicilia per quanto riguarda il mangiare semplice e genuino (si sa che Camilleri è un grande fan di Simenon). Lo troviamo spesso da Calogero per la frittura di pesce e gli antipasti di mare oppure, qualche volta, invitato dalla moglie del questore o del preside e anche in trattorie gestite pure da ex delinquenti come Tonino. A casa c’è Adelina che gli prepara “pasta fredda con pomodoro, vasilicò e paassuluna, olive nere”, alici con cipolle e aceto, gamberetti bolliti, peperoni arrosto, polipi affogati, spaghetti al nero di seppia, pasta con broccoli, involtini di tonno, triglie al forno. Insomma, come si vede, il mare viene sfruttato a dovere.

Per restare in tema Sicilia vediamo come se la cava il maresciallo dell’Arma Saverio Bonanno di Roberto Mistretta. Siamo alla sua prima apparizione ne Il canto dell’upupa, Cairo 2008. E scrutiamolo un po’ più da vicino questo Saverio Bonanno che non ha la stessa fama di Montalbano. Lasciato dalla moglie vive con la madre donna Alfonsina, la figlia Vanessa e il cane Ringhio. Si sposta con  macchina Punto (un po’ di pubblicità alla Fiat fa sempre bene). Abitudinario. Caffè in casa e poi il secondo del mattino lo consuma al bar Excelsior fatto dalle manine “sante” della signora Maruzza, capace di preparare “una cioccolata densa che serviva a farcire i cornetti lasciati a lievitare l’intera nottata. Era marrone, cremosa, profumata” (miezzeca!). Nuova macchina da caffè sul posto di lavoro e giù a “inebriarsi dell’aroma inconfondibile dello scuro di Sicilia, miscela catanese tostata a dovere. Sapeva di lava profumata”. Fuma in continuazione, ottima forchetta (come anticipato), risultato la pancia. Che cosa mangia? “Grosse e tenerissime fettine di vitello, farcite con uova sode, pisellini di campagna, bocconi di pecorino, un filo d’olio, cipolletta tagliata fine e rosmarino”, oppure pasta al forno, coniglio con olive nere, patate con la crosta e doppia razione di cardi impanati con uova di casa, il tutto innaffiato con rosso siculo di Liscialba, o ancora ditali con le lenticchie insaporite con due palmi di cotica, ancora olive, pecorino, funghi di ferula arrostiti e insaporiti con aglio e prezzemolo tritati e amalgamati con olio e aceto e poi un inno alle sarde e via dicendo. A casa preparati da donna Alfonsina o al ristorantino di Za Lisa dove può trovare i “cavateddi”, la pasta antica impastando farina di grano saraceno e acqua fredda. A volte nella sua mente sesso e appetito si fondono in maniera umoristica. Osservando una signora “Con un leggero movimento del bacino, distese il fondoschiena rotondo, Bonanno lo immaginava soffice come un bignè di ricotta e farcì il sedile”. E qui mi fermo…

Dal sud al nord con il commissario Soneri di Valerio Varesi. Il suo preferito è un piatto tipico parmigiano, vale a dire i tortelli. Essi possono essere cucinati nelle tre versioni classiche della tradizione, vale a dire con ripieno di patate, di erbette e ricotta o di zucca. C’è una quarta versione molto rara che si prepara in montagna col ripieno di castagne. Gli altri piatti gustati da Soneri sono gli gnocchi al pomodoro e gli anolini in brodo che rappresentano “una delle poche continuità della sua vita”. Il tutto innaffiato con il buon vino della sua terra (alla salute!).

Si mangia e si beve bene anche seguendo il Tour de France con Gianni, cronista sportivo, in Giallo su giallo, Feltrinelli 2007,  di Gianni Mura, davvero famoso cronista sportivo nella realtà e incallito buongustaio.  Praticamente parla di sé e delle sue preferenze culinarie: panini con rilettes (morbido paté di maiale. Preferisce quelle di Tours e di Le Mans perché più magre), Côtes du Rhône di Jaboulet,  e poi sfilza di formaggi: Brie, Camembert, Bleu de Bresse, Roquefort, la Forme d’Ambert, Bleu d’Auvergne, e poi ravanelli, olive nere, burro salato sul pane.  Non manca una dissertazione sul cassoulet (il piatto ricco dei poveri) fatto di fagioli bianchi e pezzi di carne. “Solo maiale a Castelnaudary, aggiunta di agnello e pernice rossa a Carcassone, un po’ meno d’agnello e anitra al posto della beccaccia a Tolosa” tanto per riportare le sue stesse parole.

Un peana a William Ledeuil che sui piatti tradizionali (foie gras, lumache, animelle, guancia di vitello) “innesta una vena orientale”, con tamarindo, valanga, curcuma, zenzero fresco e basilico thai. Sul bere ho trovato: caffè, birra, Vittel, Muscadet, Vieux Calvados di Heurteven, Saint Nicolas, Merlot Costières de Nîmes, Riesling, Quetsch, Roquwfort (praticamente una cantina). Per finire una tirata di MS o Galuase, tanto per rendere allegro e spensierato il polmone. Anche nei momenti più dolorosi uno sguardo fugace alla buona tavola, al rognoncino intatto di Dédé e alla salsa di senape che ha formato una specie di velo solido. Se entra in un albergo nota subito “Salsicce affumicate, crauti, stufato di coda di bue”. E ironia “Non ho dormito per il dolore, l’angoscia e anche la fame. Va a finire che torno dimagrito dal Tour, sconcerto generale” (voi ci credete?).

Passiamo ora in Spagna con Pepe Carvalho, creatura di Manuel Vasquez Montalbàn. Riprendo un po’ in qua e là che mi sento pigro. “Ex studente contestatore, ex militante comunista, ex agente della CIA, Carvalho si dedica alle sue indagini in perenne contrasto con le forze dell’ordine “ufficiali” e non si fa certo scrupoli pur di scoprire i colpevoli: non è raro trovarlo ubriaco in qualche bettola o a letto con un’indagata. Di caratteristiche particolari Carvalho ne ha parecchie (è l’amante di una prostituta, vive con un avanzo di galera che gli fa da cuoco e segretario, brucia ogni sera un libro nel camino), ma soprattutto vanta un amore sconfinato per il cibo, che per lui è una vera e propria religione. Benché non sia certo ricco, Carvalho ama i grandi piatti e i grandi vini, e sa apprezzare ogni tipo di cucina, dalla più artigianale a quella dei ristoranti di lusso”.

Preferisce, soprattutto, la nuova cucina: lumache con besciamella alla menta e chicchi di melagrana e come secondo una spallina di capretto con acquavite alle erbe. Cibo come seduzione in Le ricette di Pepe Carvalho pubblicate dalla Feltrinelli nel 1994, che raccolgono piatti preparati dal Nostro nei precedenti quattordici volumi. Ricordiamolo anche autore di Ricette immorali che molto hanno a che vedere con il sesso (altrimenti la seduzione va a farsi friggere). Carvalho “ha cucinato piatti assurdi ad ore assurde, bevendo quantità spaventose di vini e liquori, e chiudendo il tutto con dei sigari, a volte buoni (Lusitania Pertegaz, Montecristo), e altre volte pessimi (Rey del Mundo, Macanudo). Come tutto nella gastronomia di Carvalho: egli ama accostare alla nouvelle cuisine il peggior vino da tavola, e al piatto piú semplice il bordeaux piú pregiato”. Non male eh…

Più lontano ancora in paesi esotici (si sarebbe detto una volta) Chen Cao di Qiu Xiaolong, poeta e ispettore di polizia a Shanghai. E’ un personaggio che vive nella contraddizione tra la fedeltà ai vecchi schemi di partito e il desiderio di dare sfogo alla propria individualità. Uomo onesto in conflitto con il nuovo, non sempre onesto appunto, che sta emergendo e dunque costretto a compromessi.

Cibo bello tosto: ravioli con ripieno di germogli di bambù, carne e gamberetti, zuppa di nidi di rondini con orecchie d’albero, ostriche fritte in pastella di uovo strapazzato, anatra ripiena di riso, pesce vivo al vapore con zenzero fresco, cipolle verdi e pepe secco, tartaruga dal guscio molle e chiocciole di fiume. Oppure torta di riso, fritto con maiale, spaghetti ai funghi, sauna di gamberi…Ci sono anche delle cosettine particolari come la “Testa di Budda”, praticamente una zucca bianca a forma di testa con dentro un passero fritto dentro ad una quaglia alla griglia dentro a un piccione brasato. Una specie di scatola cinese mangereccia. Poesia per l’animo e cibo per lo stomaco.

In India troviamo Vish Puri di Tarquin Hall, cinquantun anni, fisico pienotto, soprannominato “Cicciotto” per la sua propensione verso i cibi grassi che non dovrebbe nemmeno guardare, secondo una raccomandazione del suo medico, data la pressione alta ed il rischio di diabete. Ma lui se ne frega assai e ogni tanto manda qualcuno a comprare qualcosa di proibito come Zerbino, il ragazzo tuttofare, che gli procura “due in voltolini di mortone con extra chutney” (oppure lo vediamo saziato con “papri chat con chutney al tamarindo” ad un chiosco). Li divora stando attento a “non lasciare macchie rivelatrici di grasso”. Che altrimenti si becca una lavata di capo dalla moglie Rumpi (il cui nome è tutto un programma). Tra le cose che beve e mette sotto i denti trovo in qua e là tè e biscotti, scotch, pomodori a fettine, cetrioli e cipolle, niente sale che gli fa male al cuore, (il solito dottor Mohan glielo ha proibito insieme al burro). Ma un po’ di sale con il peperoncino (che coltiva sul tetto) lo mangia lo stesso “Per molta gente, sarebbe stato come toccare piombo fuso con la punta della lingua” (non ho capito il perché della virgola).

In cucina sorveglia con particolare cura la preparazione del “barfi” al pistacchio e del latte dolce allo zafferano, e poi in fondo al libro (Vish Puri e il caso della domestica scomparsa, Mondadori 2009) troviamo  tutta una serie di stuzzicanti (per gli indiani) prelibatezze: come il “bhang”, bevanda popolare ottenuta mischiando cannabis con mandorle, spezie, latte e zucchero; l’”halva”, dolce fatto con farina, semolino, lenticchie o carote grattugiate, con zucchero e burro chiarificato, ricoperto di mandorle; il “ladu”, palline di farina cotte nello sciroppo di zucchero (una manna per i diabetici); il “lassi”, bevanda di siero di latte dolce o salato, oppure ottenuto dalla frutta come la banana o il mango; il “matthi”, biscotti salati fritti, serviti spesso con il tè; il “panir”, formaggio fresco ottenuto cagliando il latte riscaldato con succo di limone e via discorrendo, fino a farvi venire voglia di una sana spaghettata di qualsiasi tipo.

Cucina profumata (anche troppo!) di spezie varie quella di Yashim Togalu, di Jason Goodwin. Vediamo un po’ più da vicino questo personaggio che opera in Turchia. Yashim Togalu “Era un uomo alto e robusto sulla quarantina, con una gran massa di boccoli neri e qualche filo bianco; niente barba, ma baffi neri ricciuti. Aveva gli zigomi alti da turco e grigi occhi a mandorla di un popolo che viveva millenni sulla grande steppa eurasiatica”. Ha parecchie doti “fascino innato, disposizione per le lingue, e la capacità di sgranare quei suoi occhi grigi all’improvviso. Gli uomini e le donne rimanevano stranamente ipnotizzati dalla sua voce, prima ancora di capire chi stesse parlando. Però non aveva le palle” (e non in senso metaforico). Eunuco, dunque. Parla quando c’è da parlare, cioè quando occorre, altrimenti risponde a gesti, sbatte le palpebre o si stringe nelle spalle. Sensibile, delicato, arrossisce spesso. Sa rendersi invisibile nel senso che la sua presenza è diafana. Sempre pulito ed ordinato, agile e silenzioso. Ottimo cuoco e buongustaio, gli piace il caffè nero, dolce e denso senza spezie. Fuma preparandosi la sigaretta da solo, come gli aveva insegnato un mercante di cavalli albanese “arricciandone una estremità e infilando un pezzetto di carbone dall’altra”. Conduce una vita tranquilla, spesso in gellaba e pantofole. Il suo sogno è di avere un appartamento più grande con una bella biblioteca. I libri sono bene allineati sugli scaffali, i tappeti anatomici sul pavimento. Quando c’è bisogno è veloce nel prendere le decisioni, vedi per esempio quando deve domare un incendio scoppiato vicino alla sua casa. Ha digerito la sua menomazione che lo aveva fatto soffrire. “Era vivo. Bastava questo”. E vince il dolore con il distacco e l’ironia.

Nelle sue storie troviamo il già citato caffè nero privo di spezie con una punta di zucchero, zuppa di trippa senza l’innovazione del coriandolo tritato che l’innovazione porta all’inferno, dolce tè alla menta, in genere pesce e verdura, cipolle, noci, aglio, pane bianco, ciotolina d’olio, qualche seme di sesamo e olive.

E ora basta…che…burp…mi sento pieno!

avatar Scritto da: Fabio Lotti (Qui gli altri suoi articoli)


21 Commenti a il gusto del delitto

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    Martin 29 Settembre 2020 at 08:19

    Un altro piccolo capolavoro del nostro mitico Lotti! ;)

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    Uomo delle valli 29 Settembre 2020 at 09:35

    sì, davvero bello

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    Fabio Lotti 29 Settembre 2020 at 09:44

    Un ringraziamento a Martin che fa tutto da solo e un invito ai lettori a sostenerlo in qualsiasi modo altrimenti il blog va a farsi fottere…

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    Giancarlo Castiglioni 29 Settembre 2020 at 09:50

    In argomento gialli segnalo a Lotti quelli di Ben Pastor.
    Una serie di 12 libri con protagonista Martin Bora ambientati durante la seconda guerra mondiale e una serie di 4 libri con protagonista Elio Sparziano ambientati nell’Impero Romano all’inizio del IV secolo.
    Ne ho letti 5 della prima serie, mi sono piaciuti e ho trovato l’ambientazione storica molto accurata.
    Ogni tanto si incontra qualche personaggio che gioca a scacchi.
    Lotti conosci questi libri?

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    Fabio Lotti 29 Settembre 2020 at 09:56

    Sì, ne conosco qualcuno. Per esempio su “La morte, il diavolo e Martin Bora” alla fine della recensione scrissi “Dunque la realtà più cruda, il sogno, la fantasia, l’aspetto psicologico che incalza, “streghe, fantasmi, eroi mitologici dell’antica Grecia” che irrompono sulla scena. Prosa agile, sicura. Ora realistica con ampi squarci di paesaggio a suscitare stati emozionali, ora nuda e schietta, ora evocativa e suggestiva a lasciare uno strazio o un dubbio o una scia di amarezza nel cuore. O un mistero.
    Finalmente una scrittrice vera.” Grazie per la segnalazione.

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    Patrizia Debicke 29 Settembre 2020 at 10:01

    E dai Fabio una abile we stuzzicante carrellata che fa venire l’acquolina in bocca e la voglia di correre in libreria

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    luca monti 29 Settembre 2020 at 11:04

    Saluto con simpatia e stupore l’infaticabile Lotti

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      Fabio Lotti 29 Settembre 2020 at 11:16

      Ricambio il saluto con simpatia e stupore per come mi segui.

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    Hugo 29 Settembre 2020 at 12:06

    Fabio, ma quanti gialli hai letto? c’è qualcosa nella letteratura poliziesca che ancora ti manca?

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      Fabio Lotti 29 Settembre 2020 at 15:19

      Penso che mi manchi la quasi totalità delle opere pubblicate…

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    Mongo 29 Settembre 2020 at 14:31

    Fabio tu mi prendi per la gola…
    incuriosito da questa tua descrizione: “vecchiaccio con il sigaro” che ha come sfondo per le sue indagini le città e le province di Pisa, Lucca e Massa Carrara”, mi sono sentito chiamato in causa ed ho subito ordinato ‘La tana dell’oste’…
    Poi Maigret e Soneri :p
    Il mio portafoglio comincia ad odiarti. ;)

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    the dark side of the moon 30 Settembre 2020 at 21:57

    Chi conosce Carlos Ruiz Zafón?
    Avete letto qualcosa di quest’autore?
    Purtroppo è morto nel Giugno scorso a soli 55 anni.
    Avevo iniziato a leggere “L’ombra del vento” in una specie di caffè letterario qualche anno fa senza avere la possibilità di finirlo.
    Il libro fa parte della tetralogia della serie “Il cimitero dei libri dimenticati” e quindi mi ero promesso di acquistarne una copia per poi procedere con gli altri ma per qualche oscuro motivo (forse gli impegni di quel periodo) ho sempre rimandato.
    Ora è il momento di provvedere…
    “Ogni libro, ogni volume possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e l’anima di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza“.
    Queste righe scritte da Zafon racchiudono tutta la visione e lo spirito di un grande scrittore.

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      Fabio Lotti 1 Ottobre 2020 at 09:17

      Grazie per la segnalazione. Conosco poco questo autore se non un libro che ha come protagonista lo scrittore David Martin e le sue inenarrabili traversie. Davvero uno scrittore da recuperare.

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      Sergio Pandolfo 14 Ottobre 2020 at 11:39

      Posso dirti che ho letto sia i racconti per l’infanzia che quelli per adulti, di Carlos Ruiz Zafon. È uno scrittore abile a montare la trama, non a caso faceva lo sceneggiatore. Il pregio letterario, però, io credo sia un’altra cosa. Se prendi Borges, al fondo della Biblioteca di Babele c’è la sensazione di sentirsi sperduti in un universo labirintico e insondabile. Se prendi Umberto Eco e la biblioteca de Il nome della rosa, trovi l’idea che conosciamo poco del nostro passato, e che esso sia come la biblioteca dell’abbazia oramai incendiata e distrutta. Nel caso di Zafon, invece, l’unica cosa che resta in mente sono gli effetti speciali. La biblioteca de L’ombra del vento,secondo me, non ha più nulla dei significati profondi che era dato riscontrare in Borges o in Umberto Eco. Resta il quanto è bello/suggestivo aggirarsi per i corridoi di un labirinto. L’idea stessa che ogni libro contenga un’anima mi pare ridotta a un cliché, ed è poca cosa. Insomma, io trovo che Zafon sia un abile sceneggiatore, capace di montare trame ed effetti speciali, però non abbia lo spessore culturale dei suo antecedenti. La sua è letteratura di consumo, da leggersi con le patatine in mano, come se stessi guardando un film in televisione. Dal punto di vista commerciale è chiaro che ha avuto un grande successo, ma perché è stato lanciato da potenti campagne pubblicitarie.

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    Fabio Lotti 1 Ottobre 2020 at 09:30
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    MaurizioD 1 Ottobre 2020 at 16:38

    Sulla scia di queste segnalazioni rammento un romanzone (per mole) “Danza macabra” di Dan Simmons, un horror/thriller dove gli scacchi sono parte importante della struttura del racconto, anzi hanno una connotazione davvero orrorifica con l’utilizzo di esseri umani come pedine/pedoni. Ho un ricordo un poco confuso, lo lessi infatti nei primi anni novanta quando uscì per la collana Interno Giallo. Per me comunque non fra le cose migliori di Simmons, anche se interessante vista la presenza del nobil gioco.
    Non ricordo se era già stato segnalato in Soloscacchi, nel caso chiedo venia.

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    Fabio Lotti 1 Ottobre 2020 at 17:50

    Grazie per la segnalazione.

  14. avatar
    the dark side of the moon 1 Ottobre 2020 at 18:15

    La lista di libri da leggere sta diventando impegnativa.
    Ho dato una occhiata al blog segnalato da Lotti ed ho scoperto che la Marklund è uscita con un altro romanzo…
    Attualmente sto leggendo “Fondazione Paradiso” proprio dell’autrice svedese, fa parte della serie di “Annika Bengtzon” (11 romanzi in tutto).
    La Marklund ha in attivo un’altra serie, quella di “Maria Eriksson” (solo 2 romanzi); il romanzo “Perla nera” da quanto letto sulla recensione invece è una novità assoluta che non fa parte di nessuna delle due serie citate.
    E’ una buona sorpresa, soprattutto per me che ho una certa predilezione per i romanzi scandinavi.
    Grazie per l’informazione!

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    Sergio Pandolfo 14 Ottobre 2020 at 11:43

    Mi è venuto un certo appetito…?
    Grazie a Fabio Lotti per questa splendida carrellata di “gialli culinari”.

    Mi piace 1
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    Fabio Lotti 14 Ottobre 2020 at 18:03

    Contento di stuzzicare istinti mangerecci.

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    luca monti 3 Aprile 2021 at 21:00

    Buona Pasqua a tutti.

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