L’anima di Cristina

Scritto da:  | 24 Ottobre 2020 | 17 Commenti | Categoria: Racconti, Zibaldone

Dopo il Piccolo giallo erudito sul gioco degli scacchi, sono lieto di presentare su questo blog anche L’anima di Cristina, un romanzo breve composto durante la quarantena. Si trattava di un periodo in cui, più o meno forzatamente, si avvertiva il bisogno di riflettere, spinti a ciò anche dal silenzio che improvvisamente si era impadronito di molte città d’Italia: chiusura delle attività, limitazioni negli spostamenti, strade un tempo intasate diventate vuote. Uno scenario metafisico degno dei migliori quadri di De Chirico.

Nulla di strano che in quei mesi sia fiorita tutta una letteratura sul Coronavirus, e che gli intellettuali abbiano trattato il tema nella maniera che ritenevano più opportuna. E nulla di strano che continuino ancora a farlo, visto che non ne siamo affatto fuori, e mentre scrivo questo articolo sento annunciare, come tutti voi lettori, i nuovi aumenti dei contagi e il rischio di nuovi lockdown.

Proprio su questo punto, però, vorrei spendere qualche parola, prima di passare a illustrare i caratteri del libro. Mi sono chiesto, mentre leggevo lavori di altri, e mentre componevo ancora il mio: è giusto sdrammatizzare? Ovverosia, è giusto, in una situazione come questa, cercare di strappare un sorriso ai lettori? O non è preferibile, invece, sforzarsi di suscitare una riflessione seria su ciò che ci sta accadendo, nonché, più in generale, su fenomeni e tendenze della società di oggi, connessi alla questione della pandemia?

Ognuno potrà pensarla come ritiene opportuno, ma ho la sensazione che, purtroppo, larga parte dell’industria culturale abbia scelto la prima strada: più comoda e “leggera”, dopotutto, rispetto alla seconda, la quale implicherebbe il rischio di annoiare i lettori – congenitamente disabituati dal sistema dei mass-media alla benché minima parvenza di autentica riflessione critica – con la conseguenza di veder calare il volume delle vendite rispetto ai libri di puro divertissement.

Questioni di gusti e di fatturato aziendale, si dirà, ma non solo; perché dietro il tentativo di sdrammatizzare mi pare di cogliere, più o meno velatamente, quello di continuare a utilizzare i libri e l’editoria come strumento di controllo delle masse. I libri, in altre parole, dovrebbero costituire un palliativo, un anestetico analogo alla musica di consumo, allo sport ridotto a industria o alle commedie televisive che suscitano le nostre più stupide risate. E ancora, dovrebbero essere privi di ogni mordente, di ogni spigolatura e di ogni giudizio critico-sociale. Meglio tenere buone le masse, in fin dei conti, perché il tempo in cui i libri servivano a fare le rivoluzioni è ormai trascorso, con buona pace dei nostalgici del pensiero e dell’azione. Ragion per cui, gli scaffali delle nostre biblioteche sono piene non di libri, bensì di merci: maneggi cartacei dalla forma e dai contenuti omogenei, cui hanno applicato un prezzo e un codice a barre. “Libri” soltanto per omonimia, appunto.

La questione è grave e richiama il ruolo stesso degli intellettuali, degli artisti e degli scrittori nella società odierna. Personalmente, credo che scrivere sulla pandemia, per un intellettuale che non sia un “prostituto” prestato all’industria culturale, non costituisca soltanto una scelta fra altre; ma addirittura un dovere, al modo in cui, socraticamente, possiamo intendere il compito degli intellettuali: tenere desta l’attenzione, risvegliare le coscienze delle persone, suscitare sentimenti di reazione di fronte all’opinione comune. E ancora, con specifico riferimento al Coronavirus, non trattarlo isolatamente, ma inserire il fenomeno in un quadro coerente e più ampio, leggendolo in relazione dialettica ad altri fenomeni della contemporaneità:  l’irrigidimento dei rapporti internazionali; la ripresa delle forze politiche di estrema destra; il rischio della catastrofe ecologica; la deriva tecnologica-digitale degli ultimi anni; l’allentamento dei legami umani e della nozione di responsabilità.

È con queste intenzioni che ho scritto L’anima di Cristina, un testo nel quale ho cercato di far dialogare tra loro letteratura, filosofia, musica e società, in maniera non certo meno sperimentale rispetto al Piccolo giallo erudito sul gioco degli scacchi. Credo infatti che alla depravazione estetica dell’omogeneità delle merci vadano contrapposte, a livello artistico, forme di letteratura sperimentale e d’avanguardia, le uniche in grado di fendere, come lame affilate, l’uniformità dello stile.

La trama del libro – composto tra marzo e giugno del 2020 – mi fu suggerita da un insieme di esperienze e ricordi. Infatti, il lockdown e il silenzio delle città italiane mi riportarono alla mente altre forme di silenzio: quelli della musica di Luigi Nono, non a caso il “maestro dei silenzi”, e del suo La lontananza nostalgica utopica futura, splendido componimento per violino e nastri magnetici; nonché il silenzio di certi film di Ingmar Bergman, Persona su tutti, che mi ispirò l’idea di una storia basata sul tema del doppio e dello scambio di personalità. A ciò si aggiunse, per così dire, anche l’aspettativa di quello che mancava durante la quarantena: il rapporto autentico con l’altro, faccia a faccia, che non fosse mediato dall’uso dei social e della rete. In fin dei conti, e credo lo sarà stato per molti, anche l’aspettativa del rapporto sessuale. Così mi tornò alla mente un certo “erotismo liberante” d’altri tempi, in stile L’amante di Lady Chatterley di D. H. Lawrence, e le pagine de L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, il libro chiave del ’68 in cui il pensatore della Scuola di Francoforte denunciava la scomparsa della letteratura autenticamente erotica, sostituita ormai dalla pornografia più o meno velata. Se la prima sapeva promettere una società libera dalla costrizione, la seconda persegue invece la subdola funzione di conformare le relazioni sociali e i rapporti di potere per ciò che sono, inibendo la possibilità di metterli in discussione.

Tutti questi tasselli si composero insieme in un mosaico coerente. Mi figurai, così, una violinista intenta a suonare a teatro il componimento di Luigi Nono, ma d’un tratto colta da una nuova patologia che ne limitasse gravemente i movimenti e la parola. Nacque il personaggio di Alma Davenport, e appresso al suo quello di Cristina Patresi, l’infermiera che si sarebbe presa cura della musicista fino alla guarigione. Le due donne avrebbero trascorso la quarantena in una baita di montagna, innamorandosi l’una dell’altra ma constatando amaramente, alla fine, l’impossibilità della loro unione. Poiché di estrazione sociale diversa, inoltre, la loro vicenda avrebbe fatto riflettere sull’impossibilità di una autentica conciliazione tra gli interessi contrapposti delle classi sociali, borghesia e proletariato, anche in tempi di Coronavirus.

A questo punto mi chiesi: quale forma dare al testo? Come ho detto prima, non amo la letteratura di consumo, la quale fa il paio con la tradizionale (e conservatrice) suddivisione in capitoli, e cerco sempre, invece, di strutturare i miei testi in maniera originale anche dal punto di vista formale. Mi sovvenne in aiuto il brano di Luigi Nono, che prevede la presenza sulla scena di sei leggii effettivi, a uso del violinista, e fino a un massimo di altri quattro vuoti. Così decisi di organizzare la materia in sei leggii effettivi, ovverosia sei contenitori in cui l’infermiera Cristina parlasse al lettore raccontando lo svolgersi degli eventi; e quattro leggii vuoti, i quali, analogamente al componimento di Nono, potessero preludere al futuro stesso dell’umanità, in bilico tra la catastrofe nucleare e quella ecologica. Infine, giusto per complicare ulteriormente il tutto, decisi di far parlare Cristina in prima persona e in forma epistolare, di modo che fosse la sua lettera a presentare la scansione dei sei leggii effettivi e dei quattro vuoti.

Sullo sfondo della vicenda raccontata da Cristina si colloca, come detto, l’Italia colpita dal Coronavirus, di cui la malattia di Alma rappresenta una sorta di doppio, allo stesso modo con cui ciascuna delle due donne costituisce il volto speculare dell’altra. La progressiva guarigione di Alma viene a coincidere con la progressiva diminuzione dei casi da Coronavirus frutto del lockdown e delle più miti temperature estive, ma nel testo permane l’idea che essa sia soltanto una guarigione momentanea, come effettivamente, mi pare, sta accadendo nella realtà. La sua riabilitazione, dunque, non può ingannare il lettore attento, e del resto la stessa Alma rivela a Cristina di essere affetta da una malattia assai più grave di quella motoria e perfino del Coronavirus: una malattia dell’anima, ovverosia la “disperazione”, intendendo con questa parola ogni forma di lontananza dalla vita autentica, quasi una versione moderna e laica della disperazione kierkegaardiana, a suo tempo da intendere come lontananza da Dio.

La tematica religiosa è pure affrontata nel libro, poiché la sofferenza legata al Coronavirus non può che riportarla alla mente: non a caso ho deciso di chiamare l’infermiera Cristina, e la paziente Alma. Il titolo stesso, L’anima di Cristina, può essere interpretato in due sensi diversi: come se l’anima appartenesse a Cristina, o come se l’anima (Alma) fosse la paziente di Cristina. Un’ambiguità che il lettore non dovrebbe mancare di cogliere. Ma la tematica religiosa, tengo a precisare, è trattata con gli occhi del laico, di chi ritiene che le Scritture valgano di per sé, per il loro valore umano, e a prescindere da quello stricto sensu divino. La reinterpretazione delle Scritture, e in particolare dell’Apocalisse, è dunque condotta in chiave terrena, nell’amara consapevolezza che di fronte a una guerra nucleare, al disastro ecologico, alla fine della civiltà umana, non resterà altro che il silenzio, intervallato dai suoni delle macchine: gli ultimi ordigni costruiti dall’uomo, i quali, durante l’inverno nucleare, costituiranno l’unica traccia della passata civiltà; quasi al modo dei suoni su nastro del componimento di Luigi Nono, unici a pervadere lo spazio sonoro quando il violinista ha ormai abbandonato il palco.

L’infermiera Cristina non si rassegna a questa raggelante ipotesi, e nelle ultime pagine del libro propone un suo tentativo di soluzione: la reazione della gente all’ignavia della classe borghese, sottoforma di una rivoluzione proletaria che conduca verso una società ecosostenibile, saldando insieme la prospettiva marxista con quella legata alla salvezza del nostro pianeta. Lascio al lettore, però, l’onere di volerne sapere di più, qualora il mio articolo l’abbia incuriosito.

Scarica qui, in formato pdf, un estratto dell’opera.

avatar Scritto da: Sergio Pandolfo (Qui gli altri suoi articoli)

Sergio Pandolfo nasce a Palermo nel 1982. Si forma al liceo classico G. Pantaleo di Castelvetrano. È laureato in Giurisprudenza e Scienze Filosofiche all’Università di Palermo, nonché scacchista di categoria prima nazionale (massimo Elo raggiunto:1807 punti). Risiede a Partanna in provincia di Trapani, dove gioca per l’associazione culturale Arcadia. Ha pubblicato un saggio di filosofia, La dialettica della ragione, con Divergenze Edizioni. In self ha pubblicato L’anima di Cristina, romanzo che affronta da un punto di vista critico-sociale l’inedita situazione della pandemia da Coronavirus, e il Piccolo giallo erudito sul gioco degli scacchi, un raffinato racconto alla Jorge Borges, in cui si fondono insieme filosofia, scacchi e letteratura.


17 Commenti a L’anima di Cristina

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    Uomo delle valli 24 Ottobre 2020 at 09:30

    molto bello: dove posso trovare il libro? libreria? amazon?

  2. avatar
    Sergio Pandolfo 24 Ottobre 2020 at 22:51

    Salve a tutti.
    Il libro è disponibile su qui su Amazon.
    Colgo l’occasione per ringraziare Martin e lo staff di Soloscacchi.
    Tra l’altro, oggi è il mio compleanno. Non credo che lo sapevate, ma mi avete fatto un bel regalo di compleanno, pubblicando la recensione proprio oggi…

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    the dark side of the moon 24 Ottobre 2020 at 23:01

    Auguri Sergio!
    Altro “lavoretto” impegnativo da quello che posso intuire dalla presentazione… :D

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      Sergio Pandolfo 24 Ottobre 2020 at 23:13

      Grazie,
      Credo che basti leggere l’estratto, per capire che il testo è impegnato… Buona lettura a chiunque volesse approfondire la questione :)

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    Fabio Lotti 25 Ottobre 2020 at 10:50

    Auguri anche da parte mia e in bocca al lupo per il suo libro e il suo impegno.

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      Sergio Pandolfo 25 Ottobre 2020 at 12:42

      Grazie, Fabio. Crepi il lupo.
      Puoi darmi del tu, naturalmente… (Mi sento sempre un po’ vecchio, quando mi dicono “lei” o “il suo”. E sì che ho un anno in più sul groppone, ma non ci farò mai l’abitudine) ;)

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    Giorgio Della Rocca 25 Ottobre 2020 at 21:40

    Sorridere non è lo stesso che ridere. Fermi restando il massimo rispetto per tutte le vittime dell’attuale pandemia e un giusto senso di prudenza, il poter sorridere, a volte, anche in questo momento particolare si fonda – almeno da parte mia – sulla certezza che, in mezzo alle difficoltà, Dio non abbandona chi confida in Lui.

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      Sergio Pandolfo 26 Ottobre 2020 at 14:42

      Ti dirò che la questione del rapporto fra Dio e l’uomo è una delle direttrici fondamentali del libro. Già nel “Primo Leggio” compare sotto forma di un inquietante silenzio, quello notturno cui si abbandona l’infermiera Cristina dopo una giornata di duro lavoro ad assistere i malati. Una volta si diceva che Dio ci parla nel silenzio, che la sua luce è coglibile col pensiero (basti pensare alla “Tenebra luminosissima di Alberto Magno), e tuttavia, per la sensibilità moderna il silenzio tale, è inquietante perché in esso, come afferma Cristina, non è dato di cogliere alcuna voce, ma al contrario, quasi una smentita dell’esistenza di uno Spirito altissimo. La tenebra permane tale anch’essa, rivelandosi quasi il presagio dell’inverno nucleare. Difficile dire se dalle macerie di un mondo in frantumi possa risorgere la speranza, e nella fattispecie una speranza da declinare in chiave religiosa. Tengo a precisare, comunque, che qualcosa del genere accade anche nel cristianesimo, la religione più paradossale fra tutte, poiché la vita arriva dopo la morte, sottoforma di un Dio che si è fatto uomo, che muore sulla croce, e di una resurrezione col corpo (scandalo per gli ebrei e stoltezza per i greci, diceva San Paolo). L’idea che dalla disperazione risorga la speranza attraversa il libro è i pensieri di Cristina, anche (o forse, soprattutto) nei momenti più cupi e negativi. Forse è vero che l’uomo, nonostante tutto, è animale che non può smettere di sperare.

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      Paysandu 26 Ottobre 2020 at 18:36

      Giorgio, scusa se mi permetto ma la tua ingenuità mi fa sorridere.
      Siccome non voglio sembrare né offensivo né invadente ti posso solo domandare questa “certezza” di cui parli su cosa si fonda?
      E anche: “Dio non abbandona chi confida in Lui”. Come si manifesta esattamente questa presunta vicinanza?
      Ovvio che non sei obbligato a darmi una risposta, in ogni caso grazie.

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        Giorgio Della Rocca 27 Ottobre 2020 at 16:45

        Grazie anche a te, ma non mi sento di aggiungere altro.
        Preferisco lasciarti libero di credere che Dio non ci sia.

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          Mongo 27 Ottobre 2020 at 22:49

          Infatti Dio non c’è!

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            Sergio Pandolfo 27 Ottobre 2020 at 23:19

            Io credo che non lo sappiamo. Può darsi che il silenzio sia soltanto silenzio, oppure che Dio ci parli, misteriosamente, in un modo che non è semplice da intendere. Nel libro ho cercato di riflettere questa ambiguità, per la quale sono debitore verso i film di Ingmar Bergman, come “Il settimo sigillo”, “Come in uno specchio”, o “Persona”. Credo che sia il modo giusto di trattare l’argomento, perché l’ultraterreno, in fin dei conti, non può che sfuggire alla nostra comprensione, essendo trascendente per definizione. Quando Dio si presenta a Mosè dice: Io sono colui che sono. Il che significa, in controluce: non puoi sapere cosa sono, nella mia essenza, perché per te che sei un uomo io sono la pura esistenza, il puro essere. La ragione umana non può andare oltre certi limiti, e ogni traccia/prova della presenza di Dio è sempre controvertibile e diversamente interpretabile. Forse proprio in questa ambiguità si annida l’enigma della fede, il fatto che alcuni dicano di credere, e siano certi dell’esistenza di Dio, e che altri, invece, sostengano il contrario. È nell’ambiguità stessa che sta tutta la ricchezza del problema e il fascino del fenomeno religioso.

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              Giorgio Della Rocca 28 Ottobre 2020 at 15:30

              In questo blog si potrebbe giocare una partita a Scacchi online, tra coloro i quali credono che un Dio ci sia e coloro i quali credono che un Dio non ci sia, dove Sergio Pandolfo potrebbe essere l’arbitro!

              (Con quale squadra starebbe il Grande Maestro Pier Luigi Basso? Se rispondesse: «Con la prima», io replicherei: «Meglio per me…»; se rispondesse: «Con la seconda», io replicherei: «Peggio per te…».)

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                Sergio Pandolfo 28 Ottobre 2020 at 20:58

                Scusami, ma siccome l’arbitro è sempre quello che finisce per scontentare i giocatori, preferisco non indossare questa veste. A parte la battuta, è logico che la questione della fede è strettamente personale. C’è poco da fare…

  6. avatar
    Fabio Lotti 26 Ottobre 2020 at 15:32

    Anche il sottoscritto in un commento (non ricordo dove, mannaggia) aveva fatto una distinzione fra “sorridere” e “ridere”. Pienamente d’accordo con l’ultima frase. Dai,ogni tanto cerchiamo di tirar fuori un sorriso. Soprattutto in questo momento.

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    Mongo 27 Ottobre 2020 at 16:08

    La soluzione finale: Utopia Rossa!

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    Sergio Pandolfo 27 Ottobre 2020 at 23:25

    Il finale apre una discussione sui destini dell’umanità. Di fronte al pericolo della catastrofe globale, l’infermiera Cristina si augura che la gente possa tornare a muoversi, con una rivoluzione proletaria. Ma non direi che è una “soluzione finale”; è una possibilità. Soltanto la storia ci dirà se è una strada percorribile, o pura utopia.

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