La battaglia psicologica nel gioco degli scacchi

Scritto da:  | 31 Maggio 2023 | 13 Commenti | Categoria: Cultura e dintorni, Scacchi e scienza, Zibaldone

Iniziamo con una premessa: in questo breve scritto non intendiamo affrontare le più varie e complesse questioni della psicologia nel gioco degli scacchi; sul tema sono stati versati fiumi di inchiostro e sono stati scritti libri interessanti tra i quali ricordiamo il discusso “La psicologia del giocatore di scacchi” del famoso campione e psicoanalista Ruben Fine, uno dei più forti maestri della prima metà del ‘900. Inoltre, sul nostro blog si trova un eccellente articolo del Professor Ivano Pollini, pubblicato il 26 maggio 2011 (cfr. qui), in cui si affronta approfonditamente la complessa tematica della psicologia negli scacchi.
Più modestamente, non avendo competenze scientifiche in materia, intendiamo soltanto soffermarci su alcuni aspetti più curiosi e divertenti, prendendo spunto dal comportamento dei grandi campioni e soprattutto vorremmo provare a rispondere ad una domanda che tanti appassionati si pongono: come si svolge la battaglia psicologica tra 2 forti giocatori per ottenere il predominio sull’avversario? Quali armi si adoperano prima di iniziare una partita o durante la partita stessa?
Intendiamoci: chiunque abbia provato a giocare a scacchi, anche soltanto a livello amatoriale, sa benissimo che, non avendo alcun peso in questo gioco l’elemento “fortuna”, alla fine per vincere una partita occorre che l’avversario commetta errori più o meno gravi o almeno più gravi dei nostri.
Ma, si sa, il nostro gioco è ricco di sfumature psicologiche e non mancano interessanti espedienti da adottare durante la partita per tentare di porre l’avversario in una condizione di incertezza o di soggezione.

Ad esempio, tutti avvertono la sensazione di forza e determinazione che suscita un maestro il quale muove i pezzi con gesti precisi e sicuri, e tanti di noi hanno sorriso nel vedere un giocatore esitante che, in un momento critico, afferra un pezzo tra le mani e lo agita alla rinfusa di qua e di là senza decidersi a rilasciarlo. D’altro canto, si intuisce facilmente che offrire la patta prematuramente o ripetere la proposta dopo un rifiuto da parte dell’avversario costituisca un chiaro segnale di timore e soggezione che in genere denota scarsa fiducia nei propri mezzi.
Muovere rapidamente, una volta decisa la mossa più convincente, mostrando determinazione e sicurezza, può (almeno apparentemente) suggerire l’idea che abbiamo “visto tutto”, così come mostrarsi sereni anche in posizione compromessa senza agitarsi continuamente sulla sedia, può contribuire a mantenere la pressione psicologica sull’avversario in mancanza, ahimè, di una netta superiorità tecnica.
Si tratta di semplici ed intuitive regole di comportamento che il più delle volte possono funzionare; tuttavia, le “armi” che adoperano i campioni più esperti ed agguerriti vanno ben oltre.
Va detto, anzitutto, che alcuni maestri impostano ogni partita sull’avversario che hanno di fronte, mentre altri (in genere quelli con uno stile più aggressivo) preferiscono giocare sempre “contro i pezzi”, cioè in base alla posizione che si viene a creare, senza modificare in modo significativo il proprio stile di gioco.
Uno dei primi grandi del passato che fece largo uso di armi psicologiche durante la sua straordinaria carriera è stato il campione del mondo Emanuel Lasker nei primi decenni del ‘900, il quale concepiva gli scacchi come battaglia tra 2 personalità e sceglieva le mosse da eseguire non in base a criteri di assoluto valore tecnico, ma in modo pragmatico, studiando a fondo il carattere del proprio avversario e cercando di creargli difficoltà di ogni genere.
Un altro grande campione che utilizzò a fondo la suggestione psicologica contro gli avversari ad un livello più sofisticato fu Michail Tal, campione del mondo tra il 1960 ed il 1961. Egli era soprannominato il “Mago di Riga” e non soltanto a causa delle sue mirabolanti e imprevedibili combinazioni, ma anche per il suo strano atteggiamento quando si sedeva davanti alla scacchiera. Restano celebri, soprattutto negli anni giovanili, gli sguardi taglienti e magnetici che Tal lanciava sull’avversario, quasi volesse soggiogarlo scrutandone l’animo. Immaginiamo il malcapitato avversario, seduto davanti al grande Michail, mentre il campione, avvolto in una nube di fumo (Misha era un forte fumatore ed a quei tempi non vigevano divieti salutistici) con sguardi fiammeggianti, lanciava occhiatacce e preparava sacrifici e diabolici tranelli.
La leggenda vuole che Misha Tal, negli anni d’oro della sua sfolgorante carriera, fosse in grado di ipnotizzare gli avversari più influenzabili i quali, sentendosi osservati da un tale genio dell’attacco, perdevano fiducia in se stessi, timorosi di finire triturati ad opera di qualche spettacolare sacrificio. Si racconta che Tal a volte, con il bianco, prima iniziare la partita, era solito fissare intensamente l’avversario anche per un minuto o più, quasi a voler capire dal suo volto, dal suo atteggiamento, che tipo di apertura gli convenisse giocare e quasi sempre si sforzava di individuare (se non conosceva bene l’avversario) che tipo di giocatore avesse di fronte.
Può capitare a volte, anche tra grandi maestri, che la suggestione psicologica si rivolga contro noi stessi quando affrontiamo alcuni particolari avversari. Capita a tutti di non riuscire a vincere contro qualcuno, magari alla nostra portata, come se fossimo colpiti da una sorta di diabolica iattura.

Ad alti livelli, ad esempio, si racconta che Victor Korcnoj fosse la bestia nera di Tal, mentre a sua volta quest’ultimo, per alcuni anni fu (assieme ad Efim Geller) la bestia nera del mitico Bobby Fischer. E’ rimasta memorabile una sconfitta di Fischer nel torneo dei candidati del 1959 contro Tal in cui, in un momento decisivo dell’incontro, l’americano (ancora adolescente sebbene già temutissimo) scrisse sul formulario la mossa prescelta, la più forte, coprendola (ma non troppo) con la mano per vedere la reazione di Tal, il quale si alzò dalla sedia rilassato come se niente fosse e Bobby, convinto che l’avversario avesse sorriso nel vedere la mossa “preannunciata”, si suggestionò cambiando idea all’ultimo momento e perdendo malamente la partita.
Dicono che il giovane Fischer fosse soggiogato da Tal e pendesse letteralmente dalle sue labbra al punto che Misha ad ogni sconfitta lo consolava e lo incoraggiava non sopportando di vederlo così distrutto. Insomma, Fischer patì per anni un vero e proprio condizionamento psicologico e se ne liberò a fatica soltanto quando arrivarono le prime sudatissime vittorie contro il mago di Riga.
In realtà, gli scacchi, come tutti gli incontri sportivi che si risolvono in sfide individuali, sono un gioco a volte molto crudele, che tende al dominio dell’avversario attraverso la manifestazione della propria forza ed una lunga guerra di nervi.
Anche nel gioco del tennis (sport per certi versi abbastanza simile in cui l’elemento psicologico è fondamentale) conta moltissimo ad alti livelli rafforzare la propria tenuta nervosa e preparare la partita modellando i colpi sullo stile ed il carattere dell’avversario. Negli scacchi i colpi sono rappresentati dalle mosse che scegliamo di giocare, dal piano di gioco che elaboriamo, dai tranelli che subdolamente prepariamo, dalle minacce che riusciamo a parare. E quando l’incontro è equilibrato, si gioca sempre sul filo del rasoio in un clima di tensione altissima.
La sfida psicologica può iniziare anche prima di giocare le mosse iniziali. Sarà capitato a molti di assistere, se non dal vivo almeno attraverso i vari canali online, ad una sfida a tempo classico o blitz tra due forti scacchisti. Ebbene, è facile constatare che ogni campione ha un proprio rituale preparatorio che ripete ossessivamente quasi a voler trovare la giusta concentrazione prima di affrontare la partita.
Il grande Garry Kasparov, nei suoi anni d’oro, quando si sedeva davanti alla scacchiera irradiava con la sua gestualità un vero e proprio fascino trasmettendo una sensazione di forza e di determinazione. Più volte ho notato che prima di eseguire qualche mossa importante, si sistemava con gesto brusco sulla sedia trascinandola verso il tavolo: era al massimo della concentrazione, brutto segno per i suoi avversari.
L’attuale campione del mondo, il norvegese Magnus Carlsen, è solito portare con sé una bottiglietta d’acqua minerale (di certo anche a beneficio degli sponsor) che ogni tanto sorseggia nei momenti di minor tensione. Inoltre, prima di iniziare la partita, sistema in modo quasi maniacale uno alla volta i propri pezzi sulla scacchiera (non è il solo in verità a svolgere questo rituale) mentre l’avversario assiste cercando di distogliere lo sguardo dalla scacchiera.
Un’altra tattica usata di frequente, poi, è quella di arrivare in ritardo e sedersi dopo l’avversario lasciandolo per qualche tempo in ansiosa attesa.
Bobby Fischer era un maestro in questa strategia che adottò sistematicamente nel corso del match del secolo contro Boris Spassky, entrando in sala sempre dopo che l’arbitro aveva già messo in moto l’orologio, al punto che una volta l’avversario gli restituì il favore attendendo il suo arrivo di nascosto e sedendosi dopo di lui tra lo stupore generale.
Tuttavia, se in una partita a tempo lungo si possono sacrificare alcuni minuti del proprio tempo senza gravi conseguenze (sempre se si è in possesso della rapidità di calcolo di Fischer ovviamente!) farlo nel corso di una partita blitz in cui si hanno 3 o 5 minuti in tutto a disposizione è molto più rischioso.
Ebbene, Magnus Carlsen, nel corso del campionato del mondo blitz del 2022 da lui poi vinto, è riuscito a sconfiggere il proprio avversario, il G.M. Kovalek classificato con ben 2632 punti di ELO FIDE, in un incontro blitz a 3 minuti (più un piccolo incremento in secondi per ogni mossa) giungendo addirittura con 2 minuti e 30 secondi di ritardo.

Questo il filmato dell’incredibile partita:

Il bello è che, come si vede dalle immagini del filmato, Carlsen non aveva affatto intenzione di infastidire l’avversario, ma si era semplicemente attardato in chissà quali altre faccende. Ebbene, il campione del mondo (peraltro ottimo atleta) arriva alla scacchiera a passo di jogging, esegue trafelato la sua prima mossa e pochi minuti dopo l’avversario (che forse pregustava un’inattesa vittoria a tavolino) finito in una posizione senza speranza, si arrende. In pratica, Magnus ha giocato tutta la partita con soli 30 secondi di tempo più l’incremento e l’avversario, sconfortato ed irretito, non è riuscito a sfruttare minimamente questo notevole vantaggio grazie alla classe ed al sangue freddo del campione del mondo.
Una delle fasi di gioco, nelle partite a tempo lungo, in cui la tenuta psicologica dello scacchista viene messa a dura prova è quella del cosiddetto zeitnot in cui uno o entrambi i giocatori sono a corto di tempo (un tempo si diceva con la bandierina alzata) e devono ancora eseguire diverse mosse.

Ebbene, in questa fase molto delicata, quando entrambi sono in zeitnot, si assiste ad una fase concitata in cui i giocatori muovono velocemente, evitano di trascrivere le mosse, spesso l’arbitro si avvicina per controllare la regolarità del gioco e l’esecuzione della mossa che fa superare il controllo del tempo. In questa fase, nervi d’acciaio e sangue freddo sono le armi essenziali dello scacchista. Quando il tempo scarseggia gli errori si susseguono e non è raro vedere i giocatori sudare freddo e tremare mentre eseguono le mosse agitandosi nervosamente sulla sedia.
Quando invece è uno soltanto dei giocatori a trovarsi in zeitnot, il giocatore che ha più tempo può seguire due condotte diametralmente opposte: giocare come se nulla fosse adoperando il maggior tempo a disposizione per cercare la mossa più forte, ovvero muovere velocemente per non dare all’avversario il tempo di riflettere. Quest’ultima è una strategia molto rischiosa (soprattutto se non si è allenati alle partite blitz) perché può sfuggire una vittoria a portata di mano e talvolta l’avversario, nella concitazione dello zeitnot, imbrocca le mosse giuste e ribalta la situazione.
Alcuni giocatori (tra i quali il nostro forte G.M. Michele Godena, più volte campione d’Italia) sono proprio “affezionati” allo zeitnot; sembra quasi che facciano di tutto per entrare in questa fase di gioco caotica e psicologicamente complessa in cui tutto può succedere, ma gli esperti ritengono che la gestione corretta del proprio tempo sia una importante qualità per raggiungere alti traguardi e che spendere tanto tempo nella fase iniziale della partita può costare caro in seguito, quando, in pieno zeitnot, non si riesce a trovare la mossa vincente. Tuttavia, molto dipende dallo stile e dal temperamento di ogni giocatore e ci sono molte eccezioni a questa regola generale.

La battaglia psicologica tra campioni è ai massimi livelli nella fase iniziale della cosiddetta apertura del gioco.
I forti giocatori studiano moltissimo questa fase iniziale della partita e la adattano all’obiettivo da raggiungere ed allo stile dell’avversario di turno. Ed un errore di valutazione può costare molto caro.
Uno dei più famosi e discussi episodi in tema di scelte sbagliate in apertura lo troviamo nell’ultima decisiva partita del secondo match del 1985 tra Kasparov (lo sfidante) e Karpov (l’allora campione del mondo).
Ebbene, in una situazione di vantaggio di un punto per lo sfidante, dopo una lunga serie di straordinarie battaglie nel corso del match, Karpov per conservare il titolo avrebbe dovuto vincere l’ultima partita, la 24ª giocata con il bianco. Egli decise di aprire di re sfidando l’avversario ad entrare nella sua amata difesa siciliana di cui era (con il nero in particolare) il miglior specialista al mondo. Karpov in quel match aveva spesso aperto con successo con il pedone di donna e tale apertura meglio si addiceva al suo stile metodico e posizionale, mentre quando occorreva attaccare a fondo tatticamente la posizione, pur essendo ugualmente temibile, non si trovava sul suo terreno preferito. E così, dopo alcune mosse imprecise, finì per concedere l’iniziativa all’avversario il quale dominò la partita diventando campione del mondo: un esempio di scelta tecnica e psicologica fallimentare in questo caso.
Straordinariamente efficaci si rivelarono invece le scelte di Bobby Fischer nel corso del match del secolo contro l’allora campione del mondo Boris Spassky: egli infatti, pur di bypassare la preparazione del team sovietico che aveva studiato meticolosamente le sue aperture preferite preparando ogni possibile trappola, decise di scegliere aperture e difese mai giocate in precedenza a costo di entrare in posizioni e schemi di gioco quasi sconosciuti, ma la strategia adottata si rivelò clamorosamente vincente in quanto spesso il sovietico, colto di sorpresa, e lontano dalla sua preparazione “casalinga” si smarrì finendo in posizioni inferiori in cui tutta l’iniziativa era pericolosamente nelle mani dell’inesorabile americano.
Fischer condizionava gli avversari anche grazie al suo stile di gioco senza compromessi: l’americano era noto per giocare ogni partita fino a “re nudo” cioè fino a quando vedeva ancora anche la pur minima possibilità di vittoria e senza mai lasciar respirare gli avversari.
Vere e proprie vittime di questo suo gioco inesorabile, psicologicamente distruttivo, furono i primi due avversari che incontrò sulla strada verso la conquista del titolo mondiale: il russo Mark Tajmanov e il danese Bent Larsen, due famosi grandi maestri stritolati, tra lo stupore generale, con il clamoroso punteggio tennistico di 6 a 0.
Entrambi dichiararono prima del match di non temere l’americano e di poter giocare a viso aperto fino in fondo le proprie carte; ma questa scelta si rivelò una pessima strategia. Intendiamoci, all’epoca Fischer era in uno stato di forma ineguagliabile ed avrebbe in ogni caso vinto i 2 match, ma andare allo sbaraglio, come avvenne per i primi 2 sfidanti, si rivelò un autentico disastro. Soprattutto Larsen, con il suo gioco creativo, imprevedibile e tagliente avrebbe avuto, sulla carta, delle ottime possibilità di creare problemi all’asso americano.
Si disse all’epoca che Larsen e Tajmanov erano entrambi accomunati da “inguaribile ottimismo”, tendevano cioè a sopravvalutare i propri mezzi e le posizioni raggiunte in partita, mentre maggior prudenza avrebbe suggerito loro un atteggiamento non certo remissivo, ma almeno più attento ed oculato, magari accontentandosi di qualche pareggio nella speranza, alla lunga, di un calo di forma dell’americano. Invece, entrambi lo sfidarono sul suo terreno e dopo le prime sconfitte di fila (in partite bellissime ed incerte in cui, ad onor del vero, il risultato finale fu a lungo in bilico) persero ogni fiducia nei propri mezzi e crollarono di colpo commettendo errori clamorosi fino al tracollo definitivo.
Garry Kasparov, commentando alcune di queste memorabili sfide, ne “I miei grandi predecessori”, nota acutamente che Fischer giocava a bella posta, in posizioni tese e complesse, delle mosse “provocatorie”, magari non le migliori, ma che ponevano enormi problemi pratici da risolvere e, conoscendo l’abilità dell’americano nel calcolare a fondo le varianti, i suoi avversari, intimoriti e sottoposti ad una enorme pressione, esitavano e finivano dritti in posizioni inferiori, molto difficili da difendere.
Anche il grande Garry Kasparov nel primo interminabile incontro per il titolo mondiale contro Karpov, disputato nel 1984, si trovò ad un certo punto sul risultato di 5 a 0 per il campione, ad un passo dal baratro. Ebbene, forse anche perché memore di quanto accaduto ad altri grandi del passato, decise di attuare una sorta di “catenaccio” in stile calcistico giocando da allora in poi per la patta senza rischiare quasi nulla. La strategia funzionò e così Kasparov dopo lunghe battaglie, approfittando del disorientamento e della stanchezza dell’avversario, si portò sul risultato di 5 a 3 ed a quel punto, con decisione molto contestata, il match (che durava ormai da molti mesi) fu sospeso, la FIDE decise di cambiare le regole (non si giocò più fino alla sesta vittoria) e nel successivo incontro del 1985 con il limite di 24 partite, il mago di Baku divenne il nuovo campione del mondo al termine di un’aspra battaglia.

In tempi più recenti, la guerra psicologica si è sempre più spesso combattuta al di fuori della scacchiera sfiorando a volte le vette dell’assurdo. Tutti conoscono la spietata guerra che ingaggiò Bobby Fischer nella fase iniziale del match del secolo del 1972: le sue continue richieste, le sue manie, i suoi diktat proposti uno dopo l’altro nell’intento di demolire psicologicamente l’avversario e scaricare la grande tensione accumulata.
Ma anche più recentemente gli esempi di simili battaglie dei nervi non mancano.
Nel celebre match per il titolo mondiale del 2006 tra il bulgaro Topalov ed il russo Kramnik scoppiò un vero e proprio caso (denominato “Toilet-gate”) quando Topalov, infastidito dal continuo andirivieni di Kramnik dal suo bagno personale (unico luogo in cui non erano sistemate telecamere) lo accusò apertamente, attraverso il suo team, di barare usando un software per trovare le mosse più forti. L’accusa era davvero infamante, per giunta avanzata senza alcuna prova ed ovviamente scoppiò un putiferio, ma nonostante Kramnik ed il suo team avessero ribadito che il campione russo aveva bisogno di passeggiare e la sala destinata a tale scopo era troppo piccola, il bulgaro non volle sentire ragioni. Kramnik perse la 5ª partita a forfait, non avendo accettato alcune modifiche regolamentari adottate per venire incontro alle richieste di Topalov, ma alla fine il russo si aggiudicò l’incontro tra mille rancori, insinuazioni e ripicche che pesarono sui loro rapporti umani anche negli anni futuri.
Ma l’evento scacchistico più sconcertante dal punto di vista della guerra psicologica avvenne nella sfida tra il campione del mondo Anatoly Karpov e lo sfidante Victor (“il terribile”) Korcnoj a Baguio nelle Filippine nel 1978. In questa sfida si mescolavano una rivalità scacchistica senza eguali, un’avversione personale a lungo alimentata da mille polemiche ed infine un contesto politico molto complesso.

Si viveva infatti in piena guerra fredda, Karpov era un pupillo del regime sovietico e, in qualità di campione del mondo in carica, godeva di privilegi ed aveva una forte influenza sulla Federazione Internazionale, mentre lo sfidante era un dissidente in aperta ribellione contro il regime, esule in Svizzera da alcuni anni e nemico giurato dell’establishment e del Politburo che l’avevano privato della cittadinanza sovietica.
Un mix micidiale che fece rivivere, con toni ancor più surreali, la sfida del secolo tra Fischer e Spassky. Questa volta, però, nei panni dell’antipatico ed arrogante finì non lo sfidante, ma il campione del mondo sovietico Anatoly Karpov, considerato dai più una sorta figlioccio del regime, il quale usufruiva dell’assistenza di un team stellare che analizzava per lui le partite sospese e gli preparava le varianti da giocare, mentre lo sfidante aveva assunto il ruolo del cavaliere solitario che con grande coraggio combatteva contro uno stato oppressivo e burocratico intenzionato a schiacciarlo.
Le simpatie del mondo occidentale erano tutte per il leone di Leningrado, come era soprannominato lo sfidante. Korcnoj aveva eliminato, prima di giungere alla sfida mondiale contro Karpov, campioni dell’Unione Sovietica del calibro di Polugajevsky, Petrosjan e Spassky durante incontri in cui la tensione psicologica ed agonistica (soprattutto il duello con l’acerrimo nemico Tigran Petrosjan) era stata sempre altissima e le polemiche non erano certo mancate.
Occorre ricordare, infatti, che da quando Korcnoj era espatriato, la sua famiglia (la moglie ed il figlio) era rimasta in Unione Sovietica ed era stata, disse Korcnoj, presa in ostaggio dal regime. Infatti, non fu consentito loro di ricongiungersi con lo sfidante se non molti anni dopo ed il figlio di Korcnoj fu addirittura incarcerato dopo essere stato accusato di renitenza alla leva. Va considerato, tuttavia, che Korcnoj, all’epoca del match mondiale di Baguio, era molto più avanti con gli anni rispetto al campione in carica (c’erano vent’anni di differenza tra di loro) ed oggettivamente più incostante e meno coadiuvato teoricamente dal suo team rispetto a Karpov.
Forse, proprio perché consapevole di questi suoi punti deboli, avendo già perso il precedente match di qualificazione del 1974, Korcnoj accettò e a sua volta ingaggiò contro il rivale una vera e propria battaglia psicologica che vide i due avversari ed i loro team scivolare sempre più nel grottesco, fino al punto di coinvolgere sul terreno di gioco una lunga fila di psicologi, parapsicologi (o sedicenti tali) millantatori e santoni di ogni genere. Si parlò di magia nera, di scongiuri e riti magici e naturalmente furono accusati di complotti e misfatti gli immancabili servizi segreti sovietici.
Tra mille sospetti e veleni reciproci, in sala si avvicendarono vari guru (il famoso Zukhar ingaggiato dai sovietici e un certo Berginer scelto da Korcnoj) che fissavano immobili “il nemico” e cercavano di neutralizzare eventuali ipnotizzatori ingaggiati dal team rivale.

La tensione aumentò con il trascorrere dei giorni: si cominciò con il caso dello yogurt di Karpov che, dopo le proteste di Korcnoj, gli fu servito non più su richiesta del campione, ma sempre ad una determinata ora e sempre allo stesso gusto (Korcknoj sospettava che il colore della bevanda potesse essere un espediente per suggerire al rivale la mossa da scegliere!). Successivamente, Karpov, irritato dal comportamento dello sfidante, decise di non stringergli più la mano. Gli psicologi e parapsicologi furono spostati verso la settima fila del palco. Poi subentrarono 2 esperti di yoga, ingaggiati dallo sfidante, che in realtà, secondo i sovietici, erano membri della strana setta “Ananda Marga”, per giunta sospettati di aver attentato alla vita di un diplomatico indiano, i quali furono poi allontanati dalla sala su pressione del team sovietico.
Nel frattempo, dal punteggio di 5 a 2 per il campione del mondo, Korcnoj, l’irriducibile, aveva recuperato terreno e si era portato sul 5 a 5 (all’epoca si giocava fino alla sesta vittoria). Karpov sembrava in preda ad un profondo smarrimento, ma seppe risorgere nella 32ª partita (intanto, guarda caso, Zukar, il santone dei sovietici, era ritornato e sedeva nella quarta fila!) sconfiggendo dopo un lungo finale lo sfidante e conquistando alla fine il punto decisivo.
Nel bel mezzo di questo tripudio del paranormale, tutti ammiravano Korcnoj che, concentratissimo, giocava indossando eleganti occhiali …a specchio per impedire a Karpov di disturbarlo con i suoi sguardi penetranti.
E’ evidente che nessuno dei contendenti credeva fino in fondo agli influssi malefici provenienti dalla tribuna, anche se in verità Korcnoj era notoriamente più suggestionabile da questo punto di vista, ma la guerra psicologica fece sì che il campione di Leningrado riuscisse a caricarsi guadagnando le simpatie del pubblico e della stampa accusando apertamente l’avversario di fare uso del proprio enorme apparato per sconfiggerlo con mezzi sleali.
Di certo, la tattica di Viktor (che volle accettare lo scontro anche sul terreno del “paranormale”) funzionò piuttosto bene perché Karpov, nonostante fosse famoso per i suoi nervi d’acciaio, in diverse partite vacillò commettendo sviste ed errori mai visti prima e l’incontro fu deciso nell’ultima drammatica partita in cui prevalse il più giovane e determinato campione. Karpov, a riprova che le mosse psicologiche di Korcnoj avevano sortito effetto, dichiarò poi che, più di ogni altra cosa, l’aveva innervosito vedere il proprio avversario nascondergli il viso indossando gli occhiali a specchio.
Korcnoj, dal canto suo, si convinse in seguito che se fosse diventato campione del mondo i sovietici lo avrebbero assassinato. Raccontava alla sua stretta cerchia di amici che era stato coinvolto in due misteriosi incidenti stradali e che qualche assassino del KGB era di sicuro in giro con il compito di eliminarlo. Questa storia, per alcuni anni, rappresentò per lui una magra consolazione: non era riuscito a diventare campione del mondo, ma almeno aveva salvato la vita!
Vorrei concludere questa disamina scacchistica con una considerazione dal punto di vista umano. C’è una foto che ho scovato “googlando” su internet e che raffigura un maturo Karpov (con parecchi chiletti in più rispetto al match di Baguio) mentre stringe la mano prima di un incontro scacchistico ad un Viktor Korcnoj decisamente invecchiato e con pochi capelli bianchi sul capo. Difficile dire in quale occasione sia stata scattata la foto, forse in uno dei campionati senior ai quali ha partecipato il vecchio leone di Leningrado.
E’ una bella immagine perché dimostra che, alla fine, anche dopo la più aspra battaglia combattuta con ogni mezzo per prevalere sull’avversario, c’è sempre un tempo nello sport, così come nella vita, per riconciliarsi e stringersi la mano. Il nostro splendido gioco è ricco di sfide e di battaglie di ogni genere e vive di una sana rivalità sportiva, ma, a differenza della guerra tra eserciti, fortunatamente non prevede odio, rancore e cieca brutalità e prima e dopo una partita ci si saluta e si stringe la mano in segno di reciproco rispetto.

avatar Scritto da: Paolo Landi (Qui gli altri suoi articoli)


13 Commenti a La battaglia psicologica nel gioco degli scacchi

  1. avatar
    Uomo delle valli 31 Maggio 2023 at 11:27

    il meglio del meglio !

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    Nagni Marco 31 Maggio 2023 at 21:23

    Non so se è una opinione condivisibile, ma a parte la psicologia credo che Bobby abbia battuto Boris per gli errori di quest’ultimo. Anche contro Petrosian nel 1969 commise degli errori ma Tigran è stato meno spietato. Poi certamente ci vuole un cervello “Fine” per vincere……

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      Paolo Landi 31 Maggio 2023 at 22:02

      Non c’è dubbio,ma la scelta di rivoluzionare il proprio repertorio di aperture portò Spassky su di un terreno dove la preparazione casalinga ed il lavoro del suo team si azzerarono quasi del tutto. Egli poi sapeva che il russo era un po’ pigro e confidava nella sua maggiore esperienza, insomma alla fine l’effetto sorpresa funzionò, ma indubbiamente Fischer giocò meglio mentre Spassky commise molti più errori del solito.

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    Nagni Marco 31 Maggio 2023 at 23:07

    👍👍👍👍👍👍

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    Fabio Lotti 1 Giugno 2023 at 09:31

    Ottimo pezzo con un finale da far girare dappertutto…

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    Paolo Landi 1 Giugno 2023 at 14:38

    È vero, credimi mi sono quasi commosso nel vedere quella foto dei 2 campioni invecchiati che ancora avevano voglia di sfidarsi in un clima di lealtà e di reciproco rispetto

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      Fabio Lotti 2 Giugno 2023 at 09:27

      E’ davvero commovente

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    The dark side of the moon 2 Giugno 2023 at 19:55

    Articolo titanico dell’ottimo Paolo Landi, letto tutto d’un fiato.
    Complimenti, davvero notevole!

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      Gino Colombo 2 Giugno 2023 at 20:20

      Titanico: hai detto bene!! ;)

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    Paolo Landi 3 Giugno 2023 at 08:36

    Grazie di cuore a tutti! Tutti i libri scacchistici che ho a casa e che ho letto con piacere sono una fonte inesauribile di spunti e curiosità di ogni genere 🙂

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    Sergio Pandolfo 6 Giugno 2023 at 23:19

    Come si suol dire, il vantaggio psicologico e’quello più importante, negli scacchi.

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    Giorgio Gozzi 7 Giugno 2023 at 00:06

    Bellissimo articolo.
    Come sempre le foto misteriose mi attirano come una calamita e sono risalito alla fonte
    La foto di Kortchnoi e Karpov anziani risale al 1 giugno 2008 e proviene dal 4° torneo Pivdenny Bank Chess Cup un torneo semilampo disputato ad Odessa in Ucraina. Qui il report con altre foto di Peter Doggers
    https://www.chess.com/news/view/4th-pivdenny-cup-for-tregubov

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      Paolo Landi 7 Giugno 2023 at 08:56

      Grazie davvero, Kortchnoi di sicuro ha partecipato a vari tornei “senior”, ma non mi risultava che anche Karpov vi avesse preso parte. Quindi ottima precisazione e grazie anche per le altre belle foto che hai scovato sul sito. Certo è una goduria vedere un Kortchnoi così ancora arzillo e combattivo a 77 anni… forse gli scacchi allungano la vita o aiutano ad invecchiare meglio? 🙂

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