Belgrado

La scacchiera li attrae più della noia.

Per fortuna (o sfortuna, non lo sapremo mai) il giorno s’è fermato.

Il tempo fa una pausa lunga…

… lunga quanto e più del desiderio di ristare di questi silenti vecchi, fermi da tempo immemorabile intorno ai due giocatori di scacchi, confusi nelle loro idee tese ad escogitare la mossa vincente.

In un crocchio formatosi per caso (o forse no, anche ieri c’erano persone aggrovigliate come edera intorno a un tronco, gli occhi fissi alla noia di un domani che tarderà a venire, per essere uguale a oggi, per assomigliare di più ai tanti ieri passati e mai dimenticati…).

I due giocatori – amichevolmente ( o forse no, non lo sapremo mai) agguerriti l’uno di fronte all’altro – scrutano attentamente la disposizione dello schieramento dei soldati sul campo di battaglia, sui quadratini bianchi, sulle porzioncine di compensato nere; con la mente alla ricerca del movimento da eseguire, forse non ancora deciso, senz’altro in fieri.

E pensano entrambi:

“questa è la volta buona”, l’uno…

“presto lo scacco matto”, l’altro…

… e non le decidono, le azioni d’assalto.

Lasciano l’alea sospesa nell’aria ferma di una prima sera che ancora tarda a calare.

E l’attenzione dei due, che si contendono bonariamente il tempo – che pare non voler passare mai – sta fissa dietro le fronti rugose increspate ancor più da uno sforzo calmo, inquietante e leggero al contempo; attenzione che è rafforzata da quella delle persone che – sedute vicino o in piedi alle spalle e a fianco degli stessi – rappresenta silenziosamente una forza ulteriore, quasi una unione di tutti i pensieri che telepaticamente ognuno tenta di inviare all’uno o all’altro dei contendenti, compagni di consuete ripetute noiose bevute pomeridiane; bicchieri di vino per un’ami-cizia che li porterà, quando sarà tempo, alla stessa modesta fine proletaria; per adesso, ignari del destino comune cui non pensano, sono là, l’un contro l’altro armati.

Di modesta dilettantesca competizione scacchistica.

Belgrado si è fermata.

Insieme a loro.

Belgrado ha abbandonato temporaneamente, per il tempo di una partita che il tempo sta respirando, quegli sparuti cumuli di macerie che ostruiscono ancora qua e là una strada periferica, un vicolo senza uscita, una piazzetta senza sole; residui di una guerra lontana ma ancora vicina, macerie lasciate per poco; giusto per tentare di dimenticare un dolore recente. Sempre vivo.

Qui adesso, in questo breve largo polveroso aleggiano parvenze di calma; che si legge nei visi smunti degli spettatori di una battaglia antica su un campo segnato da quadrati di proprietà, e fra poco oggetto di conquista, delle parti contrapposte.

Negli occhi seri dietro lenti approssimative di qualche anziano si leggono storie antiche di saghe famigliari e di poveri contadini; che sembrano non vogliono essere scordate.

Laggiù, sul muretto che guarda una valle che s’immagina silenziosa e placida nell’aria stantia, due persone appoggiano la loro disoccupazione, le mani in tasca che stringono i pugni, l’uno, una pietra portafortuna (forse) l’altro, che spera che questo passarsela e ripassarsela tra le dita le impregni di una sorte favorevole per un roseo futuro; futuro che non riesce a immaginare: la moglie e le due figlie, a casa, poco lontano da qui, aspettano da sempre una vita nuova.

Quello vestito di scuro, ha scuro anche il volto, perché sa di non averlo, un futuro; i pugni stretti sono stretti per rabbia e per una disperazione silente.