Caissa: amore e morte

Scritto da:  | 20 Dicembre 2012 | 5 Commenti | Categoria: Racconti

Alekos aveva passato ancora un notte davanti alle sue 64 caselle di tek e faggio. La figura possente ormai da ore stava adagiata sulla poltrona, quella con la pelle consunta che fu di suo padre, quindi la sua preferita. Gli occhi fissi alla scacchiera vuota, appoggiata sulle ginocchia. Una lampada a stelo rischiarava appena lo studio. Quarantacinque dei suoi cinquantuno anni li aveva dedicati agli scacchi, da quando suo padre Costantino, ufficiale dell’esercito greco, seduto su quella stessa poltrona, tenendolo sulle gambe, gli aveva insegnato a muovere i pezzi. Adesso lui, Alekos Miokolos, era uno dei migliori professionisti del mondo e viveva di questa sua unica passione.
I suoi pensieri si interruppero quando sentì bussare delicatamente alla porta come d’abitudine – “Avanti Penelope…” – la domestica cubana, entrò nella stanza e lo salutò con la sua splendida cadenza ispanica – “Buongiorno señor Alekos. Le lascio il caffè sul tavolo…”. Lui la ringraziò e la donna uscì velocemente, così come era entrata. Erano passati ormai diciassette anni da quando rimasto vedovo di Katy, deceduta in un incidente d’aereo, e in piena prostrazione psicofisica, si era deciso a pubblicare un annuncio sul quotidiano locale alla ricerca di una domestica. Penelope, oggi una sessantenne efficientissima, con capelli neri raccolti in uno chignon d’altri tempi, era stata la prima a presentarsi. L’aveva assunta senza alcuna esitazione. Forse per quei modi garbati, forse per l’accento esotico e il variopinto vestire, che gli sembrò così dissonante con la naturale timidezza, o soltanto perché aveva intuito che era la persona che cercava. Oggi, senza alcun calore, era diventata un elemento insostituibile della sua vita, occupandosi di tutto, dalla cura della casa all’agenda degli appuntamenti. Mai una lagnanza, mai una parola fuori posto, sempre misurata. Nel corso degli anni le aveva di fatto affidato l’amministrazione dei propri beni e di recente l’aveva indicata nel testamento come unica beneficiaria dei suoi averi, compresa la sterminata biblioteca scacchistica. Ma lei lo ignorava.


Alekos la seguì con lo sguardo uscire dalla stanza e, dopo aver dato una occhiata distratta al caffè sul tavolo, tornò a fissare la scacchiera vuota, immaginandosi la posizione chiave della partita che aveva giocato, qualche giorno prima, nel corso dell’ultimo turno del leggendario torneo di Hastings. Con l’aumentare della sua concentrazione le sensazioni di quel giorno e di quella partita divennero sempre più nitide e palpabili: si era allenato bene, si sentiva in forma. Sapeva che vincendo quell’ultimo incontro si sarebbe aggiudicato il primo posto entrando così nella storia degli scacchi, come era successo per tutti i vincitori di Hastings.
Perse.
Quel giorno non riuscì a penetrare l’essenza della posizione chiave della partita, quella stessa posizione che nel corso di tutta la notte appena trascorsa ed anche in quel momento, stava analizzando mentalmente avendo deciso di non sistemare i pezzi sulla scacchiera. L’astrazione e l’immaginazione, gli avrebbero senz’altro permesso, grazie alle sue riconosciute capacità nel gioco alla cieca di scendere in profondità nell’analisi e, finalmente, scavando nella posizione, scoprire i segreti di quel momento cruciale della partita. Forse però c’era dell’altro: non voleva ammetterlo ma la presenza così ingombrante del suo illustre avversario in quell’ultimo turno, l’anziano Hector, il cubano, il mito vivente degli “Nobil Giuoco”, gli aveva creato disagio. Era la sua bestia nera ed affrontarlo gli creava sempre delle difficoltà di approccio alla partita, forse perché istintivamente lo collegava all’autoritaria figura paterna.
Cercò di non pensarci e fissò la scacchiera con ancor maggiore convinzione. Le ore passavano e Alekos era ancora lì, davanti al suo campo di battaglia artificiale, consapevole che non era più il gioco il centro della sua attenzione. I sui pensieri erano ormai orientati altrove: alla sua psiche delicata, alla sua mente monomaniacale proprio per la sua passione sfrenata per gli scacchi, soprattutto alla moglie morta troppo presto. Dopo quel suo fallimento di Hastings voleva e doveva, rivalutare tutto, malgrado la sua età e quella vita dedicata a muovere quei piccoli pezzi di legno. Più di una volta, dopo la prematura vedovanza, aveva pensato di farla finita, solo il gioco gli aveva dato una motivazione. Ogni sconfitta però apriva in lui una ferita profonda che riproponeva il perché della sua esistenza.
Anche Penelope lo aveva intuito ormai, e ne soffriva, ma naturalmente non ne avevano mai parlato. Erano stati d’animo troppo personali.
Alekos ritornò al gioco, alla sua posizione. Ancora una volta voleva allontanare lo spettro del suo male di vivere. Dopo questi pensieri, capì subito che qualcosa si era sbloccato. Ancora una volta aveva esorcizzato le sue paure. Uno squarcio tra le nubi della sua cupa esistenza e i pezzi immaginari ora si muovevano furiosamente sulla scacchiera vuota e nella sua mente. La posizione dopo la quarantesima mossa del bianco, la sua mossa, quella che lo aveva visto cedere davanti ad Hector era chiara, tutto era chiaro. Aveva trovato finalmente una variante forzata e vincente, che se giocata in partita lo avrebbe fatto diventare protagonista dei testi sacri dello scacchismo, insieme al suo mito: Capablanca, il cubano.
Ma ora che aveva trovato la soluzione doveva e poteva ancora riscattarsi. La vita aveva cominciato nuovamente ad avere significato grazie ad una mossa di alfiere, il suo “portabandiera”, appunto, il pezzo che lui più amava e che forse gli somigliava. Le Fou, il pazzo, un pezzo anomalo, con quel suo muoversi solo in diagonale sulla metà della scacchiera. Era davvero felice della sua intuizione. Non pensò più ad altro e volle controllare che il meccanismo di gioco funzionasse realmente. Poggiò la scacchiera sul tavolo, a fianco della tazza di caffè, ormai freddo, che gli aveva preparato con affetto Penelope. Aprì la scatola di legno pregiato e trasse fuori i meravigliosi pezzi Stauton in acero e tek che la sua domestica, ancora lei, con grande e, per lui, inaspettato slancio, gli aveva regalato qualche mese prima per il suo compleanno. Li sistemò sulla scacchiera e verificò che i suoi calcoli astratti fossero corretti. Ora avrebbe scritto alle riviste specializzate per commentare, per primo, la sua partita e per primo avrebbe spiegato alla comunità scacchistica quale sarebbe stata la mossa giusta per vincere. Avrebbe detto che il cubano Hector non era poi imbattibile e che la loro prossima partita sarebbe stata diversa. Questa era la sua piccola vendetta. Il carburante giusto per farlo andare avanti.
Avrebbe voluto comunicare questa sua scoperta a qualcuno, immediatamente, e pensò che era davvero un peccato che Penelope non sapesse giocare a scacchi perché sarebbe stata davvero una donna perfetta. Era ugualmente felice, come di rado gli capitava, e decise di sorseggiare, finalmente, il suo caffè. Sollevò la tazzina e la portò dolcemente alle labbra pregustando il sapore e l’insolita temperatura della sua bevanda preferita. Il caffè freddo e amaro gli inumidì le papille, rinfrescandole, dopo sentì solo un forte bruciore alla gola, cercò inutilmente di urlare. Poi più niente.
Penelope, fuori dalla porta dello studio, sentì il tonfo sordo del corpo di Alekos sul parquet ed entrò. Questa volta senza bussare. Lo vide a terra. Si inginocchiò lentamente – “Questo gioco non ti farà più soffrire amore mio“ – e solo dopo avergli accarezzato dolcemente il viso chiamò l’ambulanza.
Il giorno dopo sullo stesso quotidiano locale dove diciassette anni prima aveva risposto all’annuncio, Penelope lesse:
“Alekos Miokolos, il grande maestro di scacchi di origini greche, è stato trovato morto dalla governante nel suo studio. Un infarto sarebbe la presumibile causa del decesso. Da indiscrezioni non confermate proprio la governante pare essere l’unica erede delle sue fortune. Voci investigative riferiscono che la morte avrebbe sorpreso Miokolos mentre si trovava davanti alla scacchiera, intento a studiare una posizione della sua ultima partita al Torneo di Hastings, giocata contro il grande maestro cubano Carlos Hector. Secondo gli esperti di scacchi interpellati dalla polizia, a cui è stato concesso di visionare la scacchiera, Miokolos aveva trovato la mossa vincente che gli avrebbe permesso di aggiudicarsi il torneo ed entrare nella storia. L’emozione per questa scoperta è forse la vera causa della morte.”
Penelope, che non conosceva niente di scacchi, sapeva che non era così.

avatar Scritto da: Zenone (Qui gli altri suoi articoli)


5 Commenti a Caissa: amore e morte

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    Fabio Lotti 20 Dicembre 2012 at 11:45

    Non solo poeta… 🙂

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    Luca Monti 20 Dicembre 2012 at 11:53

    Un racconto al medesimo tempo delicato ed intenso. Rifletto sul passaggio:
    “…aveva pensato di farla finita, solo il gioco gli aveva dato una motivazione. Ogni sconfitta però, apriva in lui una ferita profonda che riproponeva il perché della sua esistenza…”

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    Marramaquis 20 Dicembre 2012 at 20:32

    Non vedevo l’ora di ritrovare un nuovo lavoro di Zenone. E avevo pienamente ragione!

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    Ramon 20 Dicembre 2012 at 21:31

    In effetti si tratta di un racconto che Zenone ci aveva già mandato tempo addietro ma a Martin dev’essere piaciuto così tanto che si è sentito in obbligo di riproporlo… come dargli torto?!?

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    Mongo 21 Dicembre 2012 at 01:58

    Mi pareva… Comunque sempre splendido. 😎

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