Mosca ’80, la grande rapina allo stadio

Scritto da:  | 17 Febbraio 2013 | 2 Commenti | Categoria: Zibaldone

Le notizie riportate dalla stampa sugli errori dei giudici di gara sono solo una strana miscela di fantasia e analfabetismo sportivo.
(Vladimir Popov, vice presidente del comitato organizzatore delle Olimpiadi di Mosca)

Mosca, 25 Luglio 1980. Il salto vincente di Jaak Uudmae

Mosca, 25 Luglio 1980. Il salto vincente di Jaak Uudmae

L’Olimpiade di Mosca 1980 non era iniziata nel modo più incoraggiante. Per ritorsione contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan, una buona metà del mondo sportivo se ne era rimasta a casa. E tante delle nazioni che avevano partecipato, scelsero di rinunciare alle bandiere e agli inni nazionali, abbandonando i propri atleti sul podio all’ascolto dell’anonima marcetta del Comitato Olimpico Internazionale. Il nostro paese poi, volendo eccellere nell’arte di complicare quanto era già sufficientemente complicato, decise non solo di aderire in questa forma ai giochi olimpici, ma ne vietò, unico al mondo, anche la partecipazione ai propri numerosi atleti militari.

E in questa olimpiade, che passò alla storia come l’olimpiade dimezzata, anche nella gara del salto triplo risultarono assenti alcuni tra i saltatori più quotati del momento, come gli statunitensi Willie Banks e Ron Livers, e il cinese Zhou Zhenxian, tutti detentori di record personali abbondantemente superiori ai diciassette metri.

Fatta eccezione per queste assenze forzate, i dodici atleti che si presentarono alla finale del pomeriggio del 25 luglio 1980 erano ugualmente di caratura mondiale. Tra tutti questi emergeva in veste di grande favorito dai pronostici, un ventiseienne sergente di fanteria, ex muratore ed ex giocatore di calcio, il brasiliano João Carlos de Oliveira, soprannominato João do Pulo dai suoi connazionali (dal portoghese si potrebbe tradurre come Joao il Saltatore), che ai Giochi Panamericani di Città del Messico del 1975 aveva realizzato il record mondiale con la misura di 17,89 metri.

Chi di record mondiali se ne intendeva, avendoli detenuti per ben tre volte tra gli anni sessanta e settanta, era il suo principale rivale di sempre, il trentacinquenne agronomo sovietico Viktor Saneyev, detto anche Canguro. Anche se la sua carriera volgeva al tramonto, e si trovava con un ginocchio in cattive condizioni, era ugualmente ancora capace di superare i diciassette metri. Puntava a un risultato storico: la quarta medaglia d’oro olimpica consecutiva. Il pubblico moscovita, praticamente senza eccezioni, era tutto per lui.

Come compagno di avventura nello squadrone sovietico aveva un estone di dieci anni più giovane, anche lui agronomo: Jaak Uudmäe. Pur non essendosi ancora affermato in nessuna competizione di livello internazionale, Uudmäe pochi mesi prima aveva realizzato un record personale di 17,20 metri, aggiungendosi così di diritto ai favoriti di questa finale.

Nei panni dell’outsider, infine, la gara vedeva uno studente d’arte australiano di ventitre anni che viveva negli Stati Uniti: Ian Campbell. Non era accreditato di grandi prestazioni, fatta eccezione per una medaglia d’argento ai Giochi del Commonwealth di Edmonton nel 1978 e per un record personale di 17,09 metri ottenuto a Melbourne nel gennaio 1980, ma nelle qualificazioni del giorno prima aveva ottenuto il migliore risultato in assoluto. E si era rivelato come l’unico atleta in grado di superare i diciassette metri, ovvero la soglia dell’eccellenza.

Al termine della seconda delle sei tornate di salti di finale sembrava che i pronostici della vigilia potessero essere rispettati, e il brasiliano João de Oliveira si trovò in testa alla classifica provvisoria, proprio davanti ai due sovietici ed al giovane australiano. Ma al turno successivo, Uudmäe riuscì a portarsi al comando con la misura di 17,35 metri. I settantamila spettatori presenti allo Stadio Lenin (oggi Stadio Luzhniki), però, non sfoderarono troppo entusiasmo. All’attaccamento alla bandiera sovietica avevano anteposto il tifo per il loro campione più suggestivo, il georgiano (ma originario della russofona Abkhazia) Viktor Saneyev.

Mosca, 25 Luglio 1980. Il salto di Viktor Saneyev

Mosca, 25 Luglio 1980. Il salto di Viktor Saneyev

Di regola nelle finali olimpiche del triplo, alla fine del terzo turno di salti gli ultimi quattro concorrenti vengono eliminati. A questo punto la garà entrò nel vivo, e gli otto atleti rimasti concentrarono tutte le energie per andare oltre le misure appena raggiunte. Ma, con una marcia in più rispetto agli altri, ognuno di questi quattro campioni si convinceva di avere in mano la possibilità di vincere la medaglia d’oro.

Nella fase finale Uudmäe riuscì a esprimersi ancora in grosse prestazioni, ma senza migliorare la propria misura, mentre João de Oliveira, alla quinta prova saltò leggero come un cerbiatto. E quando atterrò sulla sabbia, sembrò avere superato la linea ideale dei diciotto metri. Nessun uomo si era mai inoltrato così lontano.

Il pubblico rumoreggiò dallo stupore. I suoi stessi avversari sembravano allibiti. Ma il vero colpo di scena lo diede un omino con indosso una giacchetta gialla che alzò in aria una bandierina rossa. Era uno dei giudici di gara sovietici (l’URSS era riuscita ad imporre alla IAAF delle giurie di atletica leggera composte unicamente da propri elementi), e con quel gesto aveva appena annullato un salto da probabile record del mondo. João do Pulo, incredulo, si infilò le mani tra i nerissimi e folti capelli ricci. Neppure i telecronisti televisivi riuscivano a trovare un motivo plausibile per l’invalidazione. La plastilina sulla linea dello stacco era perfettamente immacolata. Finché la mimica di un giudice di gara intervenne a svelarne il mistero. Secondo la motivazione che diede, il brasiliano era incappato in una singolare infrazione chiamata sleeping leg, quasi mai contestata in precedenza nella storia del salto triplo. In poche parole, la sua “gamba inattiva” avrebbe sfiorato il terreno nel secondo dei tre balzi. Era una motivazione davvero debole, molto, troppo simile ad un cavillo, del quale peraltro ai nostri giorni non resta più alcuna traccia nel regolamento internazionale di atletica leggera.

Ma pochi minuti dopo, sempre al quinto tentativo toccò all’australiano Campbell sfiorare il compimento di un’impresa storica, arrivando a oltrepassare i 17 metri e mezzo, una misura che lo avrebbe portato virtualmente al primo posto. E anche questa volta i giudici di gara ripeterono la stessa commedia. Uno di loro alzò l’ormai consueta bandierina rossa, e annullò il salto con lo stesso pretesto della famigerata sleeping leg. Intervistato dalla rivista statunitense Time, Campbell raccontò che alla sua richiesta di spiegazioni, quel giudice si limitò a scrollare le spalle, e fece frettolosamente rastrellare la sabbia per dare il via libera al concorrente successivo.

Anche gli altri restanti salti del brasiliano e dell’australiano vennero sistematicamente annullati (gliene invalidarono in tutto nove su dodici). Così ne poté approfittare Viktor Saneyev, che, trascinato dai suoi settantamila fedelissimi fans, all’ultimo giro riuscì a strappare a João de Oliveira la seconda posizione per due soli centimetri. Il suo pubblico rimase però con un pizzico di delusione, e per il proprio pupillo avrebbe desiderato un trionfo a tutto tondo. Evidentemente la vittoria del sovietico (ma di etnìa estone, e quindi un ”non russo”) Uudmäe non bastava ad appagare tanta fame di successi.

Quando salirono sul podio per la premiazione, João Carlos de Oliveira fece buon viso a cattivo gioco. Sorridendo, si congratulò cavallerescamente con i due vincitori. Ma dietro le quinte non la prese benissimo, e diversi anni dopo confessò che: “Per la prima volta in vita mia, mi misi a piangere.”

In futuro il destino gli riservò altri validissimi motivi per mettersi a piangere. Solo poco più di un anno dopo, il 22 dicembre 1981, mentre viaggiava sull’autostrada per San Paolo del Brasile, si scontrò frontalmente a 160 chilometri all’ora contro un’auto condotta contromano da un ladruncolo inseguito dalla polizia. L’impatto fu tremendo, e João do Pulo rimase in coma una settimana. I medici lottarono per quasi nove mesi per tentare di salvargli la gamba destra devastata dalle fratture multiple e dalle ferite, ma dopo sedici vani interventi chirurgici, all’inizio di settembre del 1982 furono costretti ad amputargliela dieci centimetri sotto il ginocchio.

Nonostante questo, il campione brasiliano non abbandonò l’atletica leggera, e in occasione dei Giochi Paralimpici di Barcellona 1992, dove partecipava, con una protesi, nelle gare di salto, ricevette una visita inaspettata. L’ex preparatore atletico della squadra sovietica, l’estone Harry Seinberg, si scusò personalmente con lui per quanto accaduto durante la finale di salto triplo dell’Olimpiade di Mosca, ammettendo che i giudici di gara avevano manipolato la competizione. Dopo questa dichiarazione la federazione brasiliana chiese la revisione della classifica e dell’assegnazione delle medaglie, ma lo stesso Seinberg, chiamato a dare una conferma ufficiale, si rimangiò tutto.

Su João Carlos de Oliveira, morto alcolizzato, in povertà e solitudine nel maggio 1999, la rivista brasiliana Epoca scrisse, utilizzando una metafora decisamente pungente, che: “dovette subire oltre all’amputazione della gamba, anche quella della propria medaglia d’oro olimpica”.

Un'immagine di João Carlos de Oliveira

Un’immagine di João Carlos de Oliveira

All’altro atleta tartassato dalla giuria sovietica, Ian Campbell, invece non venne concesso l’onore di salire sul podio di Mosca. La decimazione delle sue prove lo fece terminare solo al quinto posto. Nonostante le proteste ufficiali della federazione australiana contro il comportamento dei giudici, il presidente della IAAF, l’olandese Adriaan Paulen, difese la sostanziale correttezza della manifestazione chiudendo le porte all’apertura di un’inchiesta internazionale.

Poco tempo dopo quell’olimpiade Campbell si ritirò dall’attività agonistica e, diversamente dal suo collega brasiliano, trovò ottime ragioni per sorridere alla vita a trentadue denti. Vivendo sempre tra l’Australia e gli Stati Uniti, si dedicò a tempo pieno agli affari nel settore sportivo. E la sua scelta si rivelò piuttosto azzeccata, tanto che, dopo avere condotto l’espansione della Nike e della National Basketball Association in Asia ed Oceania negli anni novanta, organizzò con successo i tour delle superstar del basket Michael Jordan e del golf Tiger Woods in Giappone. Tra il 2003 e il 2004 occupò anche la carica di amministratore delegato del Richmond Tigers, una delle squadre più blasonate di Football Australiano.

Durante le olimpiadi di Sydney 2000 incontrò il suo più celebre (ma meno ricco) ex-avversario Viktor Saneyev, emigrato in Australia dalla dissoluzione dell’URSS nel 1991. Quest’ultimo, alla richiesta di un giornalista della rivista brasiliana Epoca di commentare la finale di Mosca, rispose, forse strizzando l’occhio, con queste parole: “Fu un pomeriggio molto strano”.

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avatar Scritto da: Giuseppe Ottomano (Qui gli altri suoi articoli)


2 Commenti a Mosca ’80, la grande rapina allo stadio

  1. avatar
    Luca Monti 17 Febbraio 2013 at 20:44

    Una vicenda “sportiva” triste e deplorevole;un vero furto.Ma dato che la mancanza di
    onestà e la frode sportiva non hanno cortine di ferro che le possano contenere, come omettere l’altrettando squallida vicenda accaduta all’ignaro Giovanni Evangelisti( che suo malgrado se ne giovò ), durante la gara di lungo ai Mondiali di Roma 1987?
    Come per la altre volte,complimenti all’autore per le precise ricostruzioni ed un
    pensiero affettuoso a Joao Carlos de Oliveira ed a tutte le persone che nella vita
    non ce l’hanno fatta.

  2. avatar
    Mongo 17 Febbraio 2013 at 23:37

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