Nico Rode, tra vela e scacchi

Scritto da:  | 25 Agosto 2015 | 18 Commenti | Categoria: C'era una volta, Italiani, Personaggi

Il tempo tende a spingere tutto nell’oblio perché, specialmente oggi, gli avvenimenti sportivi e mondani sono tanti e tali che i più freschi scacciano inesorabilmente anche quelli di ieri. Figuriamoci le cose di oltre mezzo secolo fa. Ma qualcosa ogni tanto riaffiora dal pozzo della memoria ed è bello quando ciò è racchiuso in un piccolo ma prezioso libro scritto con amorevole ricordo e nostalgia dalla figlia di un grande campione (Nico Rode e le Olimpiadi, Ed. Phasar 2015).

Nico Rode 05E così Vezia Rode ci riporta nella variegata e avventurosa vita del padre Nico affinché tutto non venga disperso come le onde del mare sulle spiagge. Personaggio legato indissolubilmente a Tino Straulino, arrivato al grado di Contrammiraglio e comandante della Vespucci, unico al mondo ad entrare nei porti di Rotterdam e Brindisi a vele spiegate – e per questo ebbe anche qualche problema con i vertici della Marina Militare. Con Straulino, Rode come prodiere, nella classe Star, barche di 5/6 metri, vince tutto ciò che si può vincere. Tutti e due di Lussinpiccolo (Pola), Rode nasce il 1º gennaio 1912, una data come una vocazione per arrivare sempre primo, è maggiore di due anni di Straulino. Entrambi escono Capitani di lungo corso dal Nautico di Lussinpiccolo e incominciano a regatare a Napoli nel 1935 per la Marina Militare dove prestano servizio e vincono titoli italiani a ripetizione, a fine attività saranno più di 20. Il primo successo internazionale è la coppa del Re di Norvegia del 1937. Strano che la Marina non li abbia portati alle Olimpiadi di Berlino del 1936. Con la guerra saltano due Olimpiadi (1940 e 44 non disputate) ma in compenso Rode viene decorato più volte al valore militare. Si riparte con Londra 1948 dove Rode e Straulino sono in testa, ma vicino al traguardo rompono l’albero e arrivano quinti. Vincono a Helsinki 1952 su Merope e a Melbourne 1956 arrivano secondi. Nel contempo vincono quattro Mondiali (1939, 52, 53, 56) e i Campionati Europei dei quali uno col duo Nordio-Rode.

Nico Rode 04Finiscono di regatare insieme nel 1956, ma Straulino con altro prodiere arriverà sino alle Olimpiadi di Roma 1960 dove si classifica quarto. Anni più tardi, qualcuno chiese a Straulino se gli fosse piaciuto condurre Azzurra nella Coppa America, rispose: “Sì, ma con Rode come tattico.”

Nico Rode 09Nico Rode 10Nico Rode 07Bell’uomo e personaggio affascinante, Nico Rode, controfigura naturale di Rodolfo Valentino, accerchiato dalle donne, ricco di talento nei campi più disparati: sport (non solo vela), violino, pianoforte, canto e chitarra, ma soprattutto gli scacchi dove, se avesse avuto meno interessi concorrenti, forse avrebbe potuto diventare un grande campione. Imbarcato sull’incrociatore Bolzano, (15 mila tonnellate e 33 nodi di velocità massima, allora il più veloce del mondo con 10 caldaie che si diceva in origine destinate al Rex, ma per prestigio dirottate sul Bolzano per ordine di Mussolini, Rode era Comandante in seconda e pilota ricognitore dell’idrovolante in dotazione.

Nico Rode 02Il nostro organizzò subito sulla nave una scuola di scacchi e qui la storia si incrocia con quella di mio padre Angelo, semplice marinaio di Monterosso al Mare, dove dopo la guerra ho vissuto con la mia famiglia nella casa di Eugenio Montale. Mio padre fu imbarcato sul Bolzano dal maggio 1937 a fine 1939, dove Rode restò invece ancora un anno. Rode era un fortissimo giocatore e insegnò i rudimenti a mio padre che era l’unico sulla nave che riuscisse a impegnarlo relativamente. All’inizio Rode giocava senza le torri, poi dovette metterne una e in seguito tutte e due. E quando mio padre, insofferente a certa ottusa disciplina del tempo, finiva in cella di rigore, Rode lo tirava regolarmente fuori per poter giocare a scacchi con qualcuno in grado di impegnarlo. Mio padre vinse il torneo del Bolzano disputato da 50 giocatori che poi Rode batté tutti facilmente in una storica simultanea – mio padre incluso che fu l’ultimo a prendere matto – chiedendo a tutti su quale casella volevano prendere il matto. Questo si ripeté nel dopoguerra sulle navi da crociera, durante gli spostamenti per le regate veliche nei vari continenti. A La Spezia nel dopoguerra mio padre giocava alla pari con Hermann Oberth, il padre della missilistica e maestro di Wernher Von Braun, ma Rode era di un altro livello.

Nico Rode 06Nico Rode ha preso il “matto” che lo ha portato via per sempre il 10 maggio 1998 e la figlia Vezia ha realizzato una vetrata sulla tomba nel cimitero di Sant’Anna a Trieste, dove si può leggere: “Ha domato il vento per arrivare primo sulle stelle”.

Nico Rode 08

avatar Scritto da: Pietro De Franchi (Qui gli altri suoi articoli)


18 Commenti a Nico Rode, tra vela e scacchi

  1. avatar
    Mongo 25 Agosto 2015 at 19:45

    Brano ricco di aneddoti interessantissimi.
    Non comprerò il libro perché la vela non rientra nei miei più immediati ‘interessi’, però avevo seguito, con trepidazione, le ‘imprese’ di Azzurra e di Cino Ricci del 1983.

  2. avatar
    Luca Monti 26 Agosto 2015 at 11:13

    Una esistenza colma d’iniziative,vissuta intensamente ; con la ciliegina della passione per gli scacchi.

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    paolo bagnoli 27 Agosto 2015 at 21:23

    Nostalgia delle manovre sul Flying junior di mio zio Arrigo, quando da non molto lontano ammiravamo le manovre del “Moro” di Raul che si stava allenando per la Coppa America. Per quanto riguarda il “Bolzano”, si tratta di una delle tante tragedie della Seconda Guerra Mondiale originate dalla sciagurata decisione di affidare a “SuperMarina” (a Roma) le decisioni riguardanti le operazioni in mare, al contrario di quanto accadeva nella Marina inglese, nella quale le operazioni erano decise dal “comandante in mare”, cioè da colui che aveva l’immediata percezione della situazione. E’ la storia di Gaudo e Matapan, di tante uscite a vuoto delle corazzate italiane il cui risultato era soltanto quello di bruciare enormi quantitativi di nafta e di sparare qualche salva nelle onde del Mediterraneo. Suggerisco la lettura di “Tramonto di una grande marina” di Iachino.

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    Giancarlo Castiglioni 28 Agosto 2015 at 10:08

    “Tramonto di una grande marina” di Iachino è stato il primo libro di argomento navale che ho letto, mi era piaciuto allora e lo apprezzo anche adesso.
    Attualmente l’opinione più diffusa degli storici è che Iachino sia stato abile sopratutto nella dialettica, difendendo il suo operato prima nei varbali di missione e poi nei libri; per farlo ritengono che abbia spesso distorto i fatti e anche inventato qualcosa.
    In problema del comando in mare era solo uno dei tanti.
    Per me le colpe maggiori sono state nel periodo della “nonbelligeranza”.
    Sarebbe stato possibile mettere a punto aereosiluranti, mezzi d’assalto e le due corazzate nuove.
    Invece aviazione e marina litigavano su chi dovesse pagare i siluri per gli aereosiluranti!
    Gli ammiragli non avevano voglia di fare la guerra, speravano di non farla e hanno continuato a comportarsi come se la guerra non ci fosse.
    Sono entrati in guerra senza piani.

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      paolo bagnoli 28 Agosto 2015 at 21:14

      Caro Giancarlo, mi riferivo unicamente ai “fatti”. Che SuperMarina fosse ossessionata dalla scarsità di riserve di nafta ed evitasse il più possibile l’uscita di forze navali imponenti è un dato di fatto. Altro dato di fatto è che il duce considerasse l’Italia una “portaerei naturale”, contraddicendo la moderna disciplina navale (datata alla fine degli Anni Trenta) che introduceva il principio della “task force” (ancora oggi vigente) con al centro una o due portaerei; quando ci fu Pearl Harbour i giapponesi non ottennero i risultati sperati proprio perchè non riuscirono ad affondare le portaerei americane. .
      Ridicola addirittura la scelta del trimotore come aereo ideale, quando ogni moderna aviazione aveva abbandonato l’idea passando al mono, al bi od al quadri.
      Le critiche a Iachino potrei anche condividerle se il discorso di fondo dell’ammiraglio non avesse solide fondamenta; l’Italia aveva la flotta sottomarina più temibile del mondo, ma anch’essa fu dispersa in missioni a volte superflue.
      Non è un discorso, il mio, da guerrafondaio ma da persona di buon senso. Se devi fare la guerra, cerca di farla bene (oddìo, quante me ne diranno…;). Le due moderne corazzate (Roma e Impero) volute dal duce non servivano, e la prima sprofondò nel Tirreno (gran botta di culo dei bombardieri tedeschi) con l’ammiraglio Bergamini, che stava andando a consegnarla agli Alleati. Fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale la filosofia navale delle maggiori potenze oceaniche è stata la seguente: task force con al centro una forza aeronavale (si legga: portaerei) circondata da incrociatori di media o alta stazza e dal naviglio sottile necessario. Le grandi corazzate sono inutili, alla luce del moderno armamento: è bastato un sommergibile con un paio di siluri per affondare la gigantesca Yamato (70.000 di stazza a pieno carico). E’ bastato un gruppo di aerosiluranti per colare a picco la Bismarck (con un grosso colpo di fortuna) che aveva da poco affondato la Hood britannica (lutto nazionale!). Ed è bastato il progresso teconologico a causare i disastri navali italiani, navi cieche davanti alle forze navali britanniche dotate del radar. Ciliegina sulla torta: perchè lo Stato Maggiore italiano sottovalutò l’importanza di Malta, a parte il tragico esito della missione di Tesei? Perchè il disastro di Taranto? Perchè Gaudo e Matapan? Perchè, forse, come tu dici, SuperMarina non “aveva voglia” di fare la guerra, ma quanti poveri cristi sono morti per questo atteggiamento?
      Ergo, “se proprio devi fare la guerra, falla bene” (già mi fischiano le orecchie).

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        Roberto Messa 29 Agosto 2015 at 10:39

        I caduti del Roma, 1352 marinai, furono le prime vittime italiane per mano tedesca dopo la dichiarazione dell’armistizio. Due mesi fa, durante il torneo di Porto Mannu, ho avuto occasione di fare una breve uscita in motoscafo nell’arcipelago della Maddalena e non ho potuto fare a meno di ripensare alla tragedia che si era consumata in quelle acque cristalline il 9 settembre 1943, come pure ai 16 mila soldati italiani caduti a Cefalonia e Corfu’ nelle settimane successive. Ero con Ian e Cathy Rogers e non ho potuto resistere alla tentazione di raccontare la storia delle navi italiane che cercarono (inutilmente e maldestramente) di raggiungere un porto sicuro / alleato dopo l’armistizio, azzardando un parallelo con gli 8.709 giovani australiani caduti – che più stupidamente non si può – nella battaglia di Gallipoli (Turchia) nella prima guerra mondiale, un altro assurdo-tragico-stupido-evento-bellico ancora oggi commemorato ogni anno con grande trasporto da tutti gli australiani, mentre io avrei perseverato nell’ignorarlo se alcuni anni fa non mi fosse capitato di vedere in TV il film “Gli anni spezzati (Gallipoli)” (che raccomando).
        Solo per dire che, pur avendo orrore e schifo di tutte le guerre, certe storie mi commuovono e mi fanno sottoscrivere in pieno la tua riflessione: “se proprio devi fare la guerra, falla bene”.

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    Roberto Messa 29 Agosto 2015 at 11:12

    Miei insignificanti amarcord di cui non può interessarvene di meno: scopriì Lussinpiccolo e fu un amore a prima vista, a cavallo di un Capodanno che poteva essere il 1976/77 o il 77/78. Organizzarono un torneo rapid su 2 o 3 giorni, con cenone di San Silvestro incluso (c’erano anche un paio di GM jugoslavi) in un albergo a tipica gestione da economia socialista, ma immerso in una meravigliosa pineta in riva al mare, in un’insenatura. Eravamo in 5, inclusa la mia fidanzata/compagna dell’epoca, la scacchista Rosaria Iacono di Ravenna, stipati nella Fiat 125 messa a disposizione da quell’indimenticabile anfitrione del circolo scacchistico di Brescia che rispondeva al nome di Giuseppe Romanò, il quale sulla via del ritorno ci offrì un sontuoso pranzo di pesce ad Abbazia, impresa che solo a lui poteva riuscire in quei tempi. Sono tornato in vacanza a Lussinpiccolo nell’estate di 4 o 5 anni fa con moglie e figlio e, del tutto casualmente, mi sono ritrovato nello stesso albergo e nella stessa insenatura.
    Riguardo alla vela, è una delle cose che sempre rimpiangerò di non aver potuto imparare nella mia vita, se non per 2 o 3 brevi crociere in cui ebbi la fortuna di imbucarmi nel 1988, grazie a Maria Teresa, che prima di conoscermi aveva fatto un corso con l’Arci-vela di Brescia nei laghi di Iseo e Garda. La mia prima volta fu per una crociera di 3 giorni da Saint-Tropez all’isola di Port-Cros, organizzata appunto dal gruppetto dell’Arcivela con una barca a noleggio per 7 o 8 persone; era marzo e c’era il mare grosso, al punto che uno dei corsisti chiese di essere riportato a terra per la paura e il mal di mare, mentre a me parve subito bellissimo sentire sotto i piedi la barca che avanzava spedita cavalcando l’onda…

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      ilMusso 30 Agosto 2015 at 09:44

      Molto belli questi amarcord!

      OT
      Andando in off topic, vorrei suggerire a Roberto Messa di scrivere un bell’articolo su Wesley So con il suo piacevole stile in taglio “editoriale” (magari l’ha già fatto e a me è sfuggito :oops: ).
      Wesley sta andando piuttosto male nella Sinquefield Cup attualmente in corso di svolgimento negli Stati Uniti.
      Niente di grave, deve solo farsi un po’ le ossa a questi livelli.
      E, ovviamente è in grado di tirarsi su da solo già in questo torneo oppure nei prossimi a cui prenderà parte.
      Ma considerando che il ragazzo ha moltissimi tifosi in Italia (oltre che in tutte le altre parti del mondo) e che ho la sensazione che Roberto sia conoscitore di parecchie cose interessanti sulla sua vita e sulla sua carriera, penso che sarebbe bello per i lettori italiani poter leggere un articolo su di lui, scritto come si deve ed accattivante!

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        Roberto Messa 3 Settembre 2015 at 09:48

        Sinceramente non ho mai visto Wesley So “in azione” anche perché l’anno scorso in luglio ero molto, molto lontano da Bergamo quando prese parte, vincendolo, al torneo a inviti. So solo che So (bella cacofonia!) a Bergamo ha “sedotto” il pubblico e non solo per il suo gioco. Ricordo che Ian Rogers ne aveva notato per primo il grande talento “autodidatta” circa dieci anni fa, in un suo reportage da un Open in Thailandia, ma più illuminante sulla personalità e sulle vicende famigliari del ragazzo è la lunga intervista pubblicata quest’anno su New in Chess.
        Intanto So, passato l’anno scorso dalla Federaz. Filippina a quella Statunitense, è finito ultimo alla Sinquefield Cup che si è conclusa l’1 settembre a Saint Luis (per la notizia completa rimando a: http://www.messaggeroscacchi.it/archivio/numero788.pdf) mentre Caruana si è classificato penultimo a pari “demerito” con Anand. Ho letto da qualche parte che nei blog scacchistici più frequentati dagli americani adesso hanno preso un certo gusto ad apostrofare FabFab, spregiativamente, come “l’italiano”, dimentichi di come, solo tre mesi fa, si sbracciassero per ribadirne in tutti i modi l’amerikanità scacchistica e non. Povero Fabiano, con questi due passaporti in tasca non troverà mai pace… Oddio, non è che questa divagazione attirerà in Soloscacchi, come api al miele, i peggiori troll scacchistici in circolazione? 😉

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    Giancarlo Castiglioni 29 Agosto 2015 at 19:57

    Paolo, quello che scrivi è in linea di massima corretto, ma le cose non sono mai semplici come sembra.
    Hai toccato diversi argomenti, tutti meriterebbero delle precisazioni, comincio dai primi.
    Le nafta naturalmente non abbondava, ma la scarsità di nafta è stata spesso usata come scusa per evitare di impiegare la flotta; quando i tedeschi occuparono La Spezia dopo l’8 settembre trovarono riserve di nafta molto superiori a quel che si aspettavano da quanto avevano dichiarato gli ammiragli italiani.
    Dopo la guerra gli ammiragli hanno dato a Mussolini la colpa di non aver costruito portaerei, mentre la responsabilità della decisione era solo loro; Mussolini nei suoi discorsi non faceva altro di mettere in forma giornalistica quello che la Marina gli avevano detto era opportuno fare.
    Certo come scriveva Iachino nel ’40 sarebbe stato bello avere un paio di portaerei pronte, ma bisogna considerare che cosa questo avrebbe comportato.
    Gli unici che durante la guerra hanno messo in mare portaerei efficienti sono stati USA e Giappone (Inglesi un po’ meno) e tutti avevano iniziato a impiegarle dall’inizio degli anni ’20.
    La Regia Marina avrebbe dovuto approntare mezzi tecnici nuovi, catapulte, sistemi di atterraggio e diversi tipi di aerei specializzati, tutto da aggiornare continuamente per il rapido aumento delle prestazioni degli aerei.
    Poi avrebbe dovuto addestrare i piloti, definire modalità di impiego, fare esercitazioni e accumulare molta esperienza.
    L’Italia non aveva i mezzi di fare tutto questo, se anche avesse costruito una portaerei alla fine degli anni ’20 si sarebbe probabilmente trovava nella stessa condizione dei francesi, con una sola portaerei troppo piccola, superata e in pratica inutile.
    Quello invece che si poteva fare senza grande sforzo era di addestrare l’aviazione basata a terra ad operare sul mare, a cooperare con la marina e fare esercitazioni con la flotta.
    Ma ammiragli e generali dell’aereonautica preferivano non parlarsi e pensavano di organizzare tutto all’ultimo momento appena fosse sorta la necessità.

    • avatar
      paolo bagnoli 30 Agosto 2015 at 11:22

      Concordo pienamente con quanto scrivi; l’Italia entrò in guerra assolutamente impreparata, con mezzi (soprattutto aerei) per la maggior parte obsoleti, e con una netta separazione sulle “competenze” delle varie Armi. Ma l’entrata in guerra fu voluta da Mussolini per sedersi all’imminente (credeva lui) tavolo della pace, con “qualche migliaio di morti” (testuale) da gettare sul suddetto tavolo.
      La Marina italiana era sicuramente una delle più potenti del mondo, superata soltanto da USA, Giappone e Gran Bretagna, e poteva contare su unità subacquee abbastanza efficienti ed addestrate. Gli ultimi incrociatori varati reggevano il confronto con quelli delle suddette Potenze, e le ultime corazzate (Roma e la gemella Impero, quest’ultima mai entrata in linea) avrebbero potuto causare seri problemi alle due flotte britanniche (Gibilterra e Alessandria) qualora impiegate a tempo e con decisione ma, mentre gli inglesi avevano una precisa strategia che faceva perno su Malta, noi non ne avevamo alcuna.
      P.S. A proposito di Malta: perchè non occuparla con relativa facilità nei primissimi giorni di guerra? Fu la spina nel fianco dei nostri convogli che dovevano rifornire la Libia e ci costò migliaia di vite umane, oltre alla perdita di diverse unità di naviglio sottile. Ma,anche in questo caso, venne concepita l’operazione con i “barchini”, con l’eroica morte di Tesei.
      P.P.S. Un capitolo a parte meritano i “maiali”, con le riuscite operazioni di Alessandria e Gibilterra. Eroismi all’italiana? Forse, ma dovuti certamente al pressapochismo imperante nelle alte sfere.
      P.P.P.S. L’handicap peggiore nella guerra sul mare fu certamente la mancanza del radar; il Gufo italiano ed il Dete tedesco funzionavano poco e male. La tragedia del Zara fu dovuta proprio a questo handicap.
      Grazie della chiacchierata; sono sempre pronto a tornare sull’argomento qualora lo sia anche tu.

  7. avatar
    Giancarlo Castiglioni 3 Settembre 2015 at 21:29

    Anche io continuerei volentieri la chiaccherata, anche se forse è meglio farla direttamente via e-mail, non credo ci siano altri interessati.
    Avevo in mente di risponderti subito sui trimotori, ma sono stato a trovare il figlio a Londra e poi mi sono venuti dei dubbi che ho voluto approfondire.
    Certamente la configurazione trimotore aveva delle controindicazioni e nel ’40 cominciava ad essere superata, ma i trimotori S79 e CANZ 1007 erano dei buoni aerei, migliori del contemporaneo bimotore BR20 e poi anche in Italia si era passati al quadrimotore con il P108.
    Il P108 era al passo con i tempi, ma per i limiti industriali italiani fu costruito in un numero ridicolo di esemplari, solo 35 compreso prototipi e varianti.
    Quindi il problema più importante degli aerei italiani non era la configurazione trimotore, ma piuttosto la potenza dei motori inferiore a quella dei contemporanei aerei stranieri.
    Per essere competitivi sarebbero serviti motori efficenti da 1.100 cv nel 1940 e da 1.500 cv nel 1942, mentre il Italia eravamo più intorno a 700 e 1.000 cv.
    Pensavo che la colpa fosse dei generali che non avevano individuato l’esigenza con il necessario anticipo di 3 o 4 anni, ma non è del tutto vero.
    La necessità di potenze più elevate era stata prevista, i prototipi dei motori sno stati costruiti, ma non fu possibile metterli a punto in tempo utile.
    Quindi si torna al problema già visto, le capacità industriali italiane erano limitate, si poteva fare di più, ma sempre molto meno di quanto sarebbe stato necessario.

  8. avatar
    ilMusso 13 Settembre 2015 at 17:58

    Ciao. Mi potreste cortesemente dare il link diretto del post di Roberto Messa datato “3 settembre 2015 at 09:48” all’interno di questo articolo?

    • avatar
      ilMusso 13 Settembre 2015 at 19:54

      Mi serve solo in quanto mi sembra giusto inserirlo qui (nell’ultima parte) –>
      http://bit.ly/My_interview_with_Wesley_So
      Sennò non importa; faccia come preferisce, ovviamente.

      • avatar
        Roberto Messa 13 Settembre 2015 at 21:17

        Non me ne intendo, ma credo si possa estrapolare solo il link dell’articolo e non quello di un singolo commento in coda. Il link di questo è: soloscacchi.altervista.org/?p=48017

        • avatar
          ilMusso 13 Settembre 2015 at 21:36

          Fatto!

    • avatar
      Ramon 14 Settembre 2015 at 06:58
      • avatar
        ilMusso 14 Settembre 2015 at 07:45

        Esatto.
        Come detto, ci ero già pervenuto. E il link è già stato da me inserito nell’articolo. Comunque, grazie.
        Sono partito dal link dei post di ieri su questo articolo e sono andato all’indietro ad uno alla volta (219524, 219523, 219522, ecc.) fino a trovare quello giusto (ovviamente saltandone un po’ all’inizio visto che quel post è di una decina di giorni fa).
        P.S. Quando non ti aiutano, devi imparare ad attrezzarti! (Non ricordo dove l’ho letta… 🙂 )

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