Luz Long, il volto umano delle olimpiadi di Hitler

Scritto da:  | 20 Ottobre 2015 | 2 Commenti | Categoria: C'era una volta, Personaggi, Stranieri

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Si potrebbero fondere tutte le medaglie che ho vinto, ma non si potrebbe mai riprodurre l’amicizia a 24 carati che nacque tra me e Luz Long sulla pedana di Berlino.    (Jesse Owens)

Alla stregua di un moderno Cesare, Hitler era seduto alla tribuna d’onore dell’Olympiastadion di Berlino, e i documentari d’epoca lo ritraggono appassionato e nervoso mentre assisteva alle gare di atletica, avvolte nella canicola estiva. Queste olimpiadi erano le sue, e gli servivano a testimoniare al mondo la grandezza della Germania, risorta dalle ceneri della defunta Repubbica di Weimar. Anche lo stadio era una sua creazione. Capace di 110mila spettatori e progettato nel 1934, appena un anno dopo l’incendio del Reichstag e la presa del potere da parte del partito nazista, era stato ultimato a tempo di record, e la sua inaugurazione era avvenuta proprio in occasione della cerimonia d’apertura dei giochi olimpici.

Quelle olimpiadi del 1936 si stavano rivelando un enorme successo d’immagine per la Germania nazista. La macchina organizzativa funzionava precisa come l’orologio del NIST. La Gestapo invece aveva innestato il silenziatore, e per questo evento gli era stato ordinato di muoversi a passi felpati e con la più accurata discrezione. Sul campo gli atleti tedeschi mietevano una messe di medaglie in tutti gli sport, tanto che Hitler poteva dirsi orgoglioso di loro, e li osservava gongolante dai posti d’onore a lui riservati in tutti i complessi sportivi berlinesi.

Nell’atletica leggera però le cose non andavano altrettanto bene, e fatta eccezione per le gare di lancio, i tedeschi dovevano subire le superiorità dei finlandesi, eredi del grande Paavo Nurmi, nel mezzofondo, e degli statunitensi nella velocità e nei salti. E proprio quegli statunitensi, i cui migliori elementi erano quasi sempre uomini di colore, definiti da Goebbels “gli ausiliarii negri americani“, stavano creando i maggiori imbarazzi al regime nazista ancora in erba e al suo mito della superiorità della razza ariana. Anche Hitler era visibilmente indispettito dalle loro vittorie, e scrollandosi di dosso l’aplomb che si era imposto durante la kermesse olimpica, aveva sentenziato acidamente:

Gli americani dovrebbero vergognarsi di sé stessi, lasciando che i negri vincano le medaglie d’oro per loro.

Alla squadra tedesca era rimasta solo la gara di salto in lungo per poter vantare qualche ambizione di gloria, soprattutto grazie alla presenza del ventitreenne studente di legge Carl Ludwig Long, detto Luz, il prototipo dell’ariano: alto, slanciato, chiaro e soprattutto biondo. E Hitler, il capo ariano piccolo e bruno (“per distinguersi dagli altri“, come aveva ironizzato Charlie Chaplin nel film “Il grande dittatore“), riponeva grandi speranze sul suo giovane pupillo, che alle qualificazioni della mattina del 4 agosto 1936 aveva effettuato il miglior salto tra tutti i concorrenti.

Il grande favorito della gara invece, l’afro-americano Jesse Owens, stava rischiando di venire escluso dalla finale, dopo avere sprecato il primo salto, equivocandolo per una sgambata di riscaldamento, e saltando in condizioni di totale confusione mentale il secondo. I giudici di gara, rigorosamente tutti tedeschi, non avevano indugiato troppo prima di alzare la bandierina rossa. Jesse Owens, la medaglia d’oro dei 100 e 200 metri e della staffetta 4×100, versava in evidente difficoltà e cominciava a intravedere dietro l’angolo lo spettro dell’eliminazione. Ma proprio nel momento peggiore gli era venuto insperatamente in soccorso l’arianissimo Luz Long, che lo aveva avvicinato, ricordandogli quanto sterminate fossero state le sue potenzialità, e sussurrandogli nel suo inglese dal forte accento tedesco:

Uno come te dovrebbe essere in grado di qualificarsi ad occhi chiusi.

7,15 metri era la misura minima per ottenere la qualificazione alla finale, e Jesse Owens era accreditato di un record personale e mondiale di 8,13 metri, stabilito durante la Big Ten Conference (una sorta di torneo universitario statunitense) di Ann Arbor nel 1935: un primato del mondo che avrebbe resistito per altri ventiquattro anni, superato solo nel 1960 dall’americano Ralph Boston con otto centimetri più in là.

Se Jesse Owens avesse sbagliato anche il terzo ed ultimo salto, sarebbe stato quindi eliminato dalla finale. Qualunque sportivo di ogni bandiera e di ogni tempo avrebbe tirato un sospiro di sollievo nel vedere estromesso il proprio avversario più temuto. Ma Luz Long non era uno sportivo qualunque, e animato dal più sincero fair play e dal più profondo spirito decoubertiniano, si era avvicinato di nuovo al campione dell’Alabama suggerendogli di staccare almeno una ventina di centimetri prima della linea di battuta. E per realizzare questa strategia di estrema prudenza, aveva appoggiato una maglietta (ma altre fonti parlano anche di un fazzoletto) a fianco della pedana ed all’altezza del punto ideale di stacco.

Confortato dalla lealtà di questo avversario, diventato inaspettatamente un nuovo amico, lo statunitense aveva ritrovato il giusto equilibrio psicologico, e seguendo con disciplina quel suggerimento, era riuscito a eseguire correttamente il salto e a qualificarsi per la finale del pomeriggio.

Sommerolympiade, Siegerehrung WeitsprungEssendo un atleta polivalente, Jesse Owens aveva preso parte alla finale del salto in lungo appena pochi minuti dopo avere vinto la propria batteria dei quarti di finale dei 200 metri. Luz Long invece, che del salto in lungo era uno specialista puro, si poteva concentrare unicamente su questa gara, attesa tanto febbrilmente da tutto lo stadio, esaurito per l’occasione in tutti i suoi 110mila posti a sedere.

I concorrenti non avevano deluso il pubblico berlinese, e avevano dato vita a una competizione emozionante e spettacolare. Si gareggiava su misure superiori ai sette metri e mezzo, che sarebbero state considerate prestigiose anche ai nostri giorni. E come da pronostico, Jesse Owens era riuscito a conquistare il suo quarto alloro olimpico, grazie a un ultimo salto di 8,06 metri, con il quale aveva superato proprio Luz Long, arrivato a 7,87 metri. La medaglia di bronzo era andata al giapponese Naoto Tajima con 7,74 metri, e per un solo centimetro di meno il nostro Arturo Maffei, ex aequo con l’altro tedesco Wilhelm Leichum, si era dovuto accontentare di quella di legno.

Il Führer era deluso. La visione celestiale di un arianissimo atleta sul podio più alto a fissare la bandiera della svastica sventolante verso il cielo, lo avrebbe senz’altro mandato in estasi. Ma la realtà si era rivelata meno idilliaca, e in più il protocollo imponeva che si sarebbe dovuto recare alla premiazione per stringere la mano al vincitore. Ma Hitler si era defilato: secondo la storia perché richiamato da un altro impegno improvviso, mentre secondo la leggenda perché si era rifiutato di omaggiare pubblicamente la vittoria di un nero.

Intanto la folla dell’Olympiastadion, che durante tutta la gara aveva scandito ripetutamente il nome del beniamino di casa, Luz Long, si era lasciata incantare dal vittorioso campione afro-americano, e lo osannava alzandosi in piedi e assordando lo stadio di applausi. Luz Long era corso subito da lui, prima per congratularsi, e poi lo aveva abbracciato amichevolmente. I fotografi presenti avevano immortalato quella strana coppia, formata da un biondissimo pupillo dei nazisti e da un nero dell’Alabama, in una foto che sarebbe diventata contemporaneamente l’icona immortale di quelle olimpiadi e della fratellanza tra i popoli.

I due avevano imboccato insieme il tunnel che portava agli spogliatoi dello stadio, dove avevano incrociato proprio Adolf Hitler, venuto apposta a complimentarsi con il suo atleta. Poi, secondo la testimonianza diretta di Arturo Maffei, quarto classificato con lo storico primato italiano di 7,73 metri che avrebbe resistito fino al 1968:

Hitler andò davanti a Owens e gli fece il saluto a braccio teso, proprio nel momento in cui Jesse gli tendeva la mano per stringerla. Allora fu Hitler a tendere la mano, ma intanto Owens, correggendo il primo atteggiamento, aveva portato la sua alla fronte per eseguire il saluto militare. Questione di secondi, poi Hitler passò oltre. Decidete voi chi fu a rifiutare la stretta di mano. Ma andò proprio così: alla Ridolini.

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L’amicizia tra Owens e Long, concepita in quella storica competizione, si era cementata nei giorni successivi, quando avevano preso l’abitudine di incontrarsi al villaggio olimpico per parlare tra loro di atletica, di arte, e di politica. E dopo essersi scambiati i rispettivi indirizzi, non avevano mai perso i contatti, e avevano continuato a scriversi ininterrottamente.

Jesse Owens tornò a casa da trionfatore. Ma l’America degli anni trenta non era granché meno ottusa della Germania nazista, e nemmeno il presidente Franklin Roosvelt si dimostrò molto meno razzista di Hitler stesso, dato che non lo ricevette mai per congratularsi ufficialmente con lui. Inoltre, nonostante Owens fosse stato l’eroe indiscusso delle olimpiadi, quell’anno la federazione statunitense proclamò migliore atleta del paese il decathleta bianco Glenn Morris. Per Owens ebbe inizio una repentina discesa dal vertice del successo, e dopo essere stato squalificato dall’atletica ufficiale per avere partecipato ad alcune gare come professionista, fallì il conseguimento della laurea al College, e per guadagnarsi da vivere si dovette arrangiare a interpretare grotteschi spettacoli itineranti a metà strada tra il circo di periferia e il baraccone del luna park, incassando la misera quota di cinque centesimi di dollaro per ogni spettatore pagante.

Con Luz Long il destino sembrò più tenero, almeno per un certo tempo. Continuò con successo la propria attività di saltatore in lungo, tanto che un anno dopo, nel 1937, migliorò il primato personale e nazionale con la misura di 7,90 metri (primato tedesco durato quarant’anni), e nel 1941 cominciò anche a cimentarsi nella specialità del salto triplo. Nel frattempo riuscì  a terminare gli studi di legge, diventare avvocato nel 1939, sposarsi nel 1941, e fare un figlio poco dopo. E proprio quel figlio, Kai, oggi pensionato, in un’intervista alla giornalista francese Sylvaine Cypel di Le Monde datata settembre 2000, ha raccontato le ultime vicissitudini del padre, che grazie al proprio status di atleta si illuse di evitare il richiamo alle armi. Ma la  guerra si stava mettendo male per il Reich, ed i comandi militari, bisognosi di rimpiazzare i caduti, alla fine del 1942 inviarono alla residenza di Amburgo di Luz Long la cartolina precetto. L’ex campione di salto in lungo veniva mobilitato in fanteria col grado di sergente maggiore.

Hitler at the Olympics, 1936Dopo essere stato assegnato nell’aprile del 1943 alla divisione Hermann Göring, il mese successivo venne inviato in Sicilia. Sempre secondo il racconto del figlio Kai, quattro giorni dopo lo sbarco alleato in Sicilia, il 14 luglio 1943 a sud di Caltagirone risulterà disperso in combattimento dopo un attacco americano sulle sempre più fragili postazioni tedesche. In realtà Long venne gravemente ferito, catturato dagli alleati e quindi trasportato in un ospedale da campo inglese a San Pietro Clarenza, nell’entroterra catanese, dove i medici militari poterono solo constatarne il decesso.

Nella confusione e nel dramma collettivo di quei giorni, nessuno fece caso a chi era quel soldato ferito e ucciso, e solo nel 1950 la Croce Rossa rinvenne i suoi resti nel cimitero di guerra di Ponte Olivo, nei pressi di Gela, per poi traslarli in quello di Motta Sant’Anastasia, dove si trovano tuttora.

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Nel dopoguerra Jesse Owens dichiarò di avere ricevuto dall’amico tedesco questa commovente lettera proveniente dal fronte algerino:

Mio caro amico Jesse, dove mi trovo, sembra che non vi sia null’altro se non sabbia e sangue. Io non ho paura per me, ma per mia moglie e il mio bambino, che non ha mai realmente conosciuto suo padre. Il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere, ti chiedo questo: quando la guerra sarà finita, vai in Germania a trovare mio figlio e raccontagli di suo padre. E raccontagli anche che neppure la guerra è mai riuscita a rompere la nostra amicizia. Tuo fratello, Luz.

Però, come ha sottolineato la giornalista di Le Monde, Luz Long non è mai stato in Algeria durante la seconda guerra mondiale, per cui sussistono dei forti dubbi sull’autenticità di questa lettera. Ma non ci sono comunque dubbi sull’animo sinceramente cosmopolita di Long, e a confermarlo è una sua breve riflessione, contenuta in un’altra lettera, questa volta indiscutibilmente autentica, inviata alla nonna nel 1932:

Tutte le nazioni del mondo hanno i propri eroi, i semiti così come gli ariani. E ognuna di loro dovrebbe abbandonare l’arroganza di sentirsi una razza superiore.

Luz Long non era solo un grande campione. Era soprattutto un giovane dotato di una sensibilità umana che non poteva adattarsi al fanatismo dominante nella Germania dei suoi tempi.  E con la sua nobiltà d’animo divenne, quasi inevitabilmente, una vittima di quelle tensioni e della guerra.


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avatar Scritto da: Giuseppe Ottomano (Qui gli altri suoi articoli)


2 Commenti a Luz Long, il volto umano delle olimpiadi di Hitler

  1. avatar
    fabrizio 20 Ottobre 2015 at 12:36

    Se le cose sono andate come raccontate, è una storia veramente significativa e commovente. Grazie all’autore di questo bell’articolo.

  2. avatar
    The dark side of the moon 20 Ottobre 2015 at 15:01

    Complimenti a Giuseppe, un gran bell’articolo!
    Bravo.

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