Parete Nord

Scritto da:  | 8 Novembre 2010 | 7 Commenti | Categoria: C'era una volta, Personaggi, Stranieri, Zibaldone

13 gennaio… una data come tante, come altre 365 tutte uguali, già… la data di nascita di Enrico Paoli?!? Esatto, potrei scrivere di lui, ma qualche ricordo l’ho già buttato giù in passato... probabilmente dovrei allora scrivere di scacchi… “Giusto!” – direte voi – “altrimenti cosa ci fai qui?” Be’, avete ragione, in effetti quella data, apparentemente una come tante, invece esattamente quel 13 gennaio e non un altro come tanti questa volta mi serve solo come (maldestro) pretesto per il ricordo di uno dei miei eroi,  un eroe nato in quello stesso giorno d’inverno… un qualcuno che di quella stagione fece la propria ragione di vita come forse nessun altro dopo di lui. No, non è vuota retorica ma solo la storia di un uomo che dev’esser ricordata per quanti forse non la conoscono. Potrebbe esser la storia di una montagna e degli uomini che questa montagna hanno amato alla follia, e su di essa sono morti divorati dall’incommensurabile di quelle pareti. Quell’eroe di cui mi abbisogna narrare la storia si chiama Toni Kurz… ed il nome di quella montagna è fatto di due sillabe il cui suono incute timore e rispetto alla pronuncia: Eiger


Per gli alpinisti questo nome è più sacro e venerato di quello di Capo Horn per i marinai e la sua parete Nord talmente inespugnabile da esser ritenuta “impossibile” per qualunque temerario o pazzo che sia… Più facile per il tennista della domenica conquistare il mitico Grande Slam al primo tentativo, che per un alpinista di comprovata esperienza e buon senso, riuscire a piantare due chiodi sul versante nord di questa leggendaria vetta alpina. Il rischio di frane, slavine, il  ghiaccio, i lastroni, le pendenze proibitive, la verticalità impressionante delle rocce lisce come specchi a strapiombo, le condizioni atmosferiche imprevedibili ed allucinanti ne hanno rappresentato una montagna talmente inaccessibile e inavvicinabile da esser considerata impresa piú che impossibile quella di una scalata, perfino parziale, anche nella stagione estiva… Sufficiente solo pensare che un vero mito dell’alpinismo come il leggendario Walter Bonatti, che peraltro aveva sulle spalle imprese eroiche e pionieristiche quali il Grand Capucin o il pilastro sud ovest del Petit Dru, circa tre decenni più tardi della storia che stiamo per raccontare, dovette pronunciare, dopo un tentativo in solitaria sfortunatamente fallito per la rottura di una costola in seguito ad una slavina, un malinconico “Nessuna montagna vale la vita” dal triste sapore di una resa…

Toni Kurz

Non era tuttavia di questa idea Toni Kurz quando, col suo inseparabile amico e compagno di scalate Andreas Hinterstoisser, al finire della notte del 17 luglio 1936, prima ancora dell’alba, muniti solamente della primordiale attrezzatura dell’epoca, ovvero scarpe chiodate, senza ramponi e due maglioni di lana -termini come Goretex e Rurp andavano ben oltre la fantascienza- decise di intraprendere la scalata che valeva il sogno di una vita…
Già in parete si unirono a loro altri due temerari, la coppia di pionieri austriaci Willy Angerer e Edi Rainer, e di fatto la cordata proseguì in quartetto fino al primo imprevisto che sembrava rappresentare una difficoltà insormontabile tale da bloccare sul nascere e una volta per tutte l’ardire di una simile impresa: un traverso scosceso verticale come un muro di roccia. Una placca di roccia liscia e ghiacciata verticale come uno specchio di alabastro. Solo il genio, o più verosimilmente la follia, di Hinterstoisser che prese a pendolare sulla roccia nuda come un trapezista impazzito, fino a quando, atterrato dall’altra arte del costone, riuscì a piantare un chiodo e quindi a tendere una corda fissa oltre il traverso. Superato con fatica il periglio i quattro fatalmente ritirarono la fune e proseguirono fino a quando, all’imbrunire, una seconda fatalità s’abbattè funesta sul piccolo gruppo, nell’attraversamento del “primo nevaio” un componente della coppia austriaca, Willy Angerer, rimase colpito gravemente al capo dalla caduta di un masso franato dall’alto. Tuttavia, sebbene lentamente e con bendaggi di fortuna, lo sparuto gruppuscolo di alpinisti decise di tentare di muoversi ancora verso l’alto piuttosto che azzardarsi nell’altrettanto insicura impresa di una discesa lungo la parete verticale.
Il 19 luglio, dopo una notte in parete, i quattro alpinisti furono scorti dalle pendici della montagna muoversi al rallentatore verso la zona denominata “bivacco della morte” per aver segnato, l’anno precedente, il capolinea mortale di una precedente spedizione alpina. Riuscirono tuttavia nell’improba impresa di superare il “secondo nevaio” e a prepararsi per una seconda interminabile notte di bivacco in parete. Impossibile abbandonarsi al sonno per non lasciare che il gelo congelasse i muscoli, una tavoletta di cioccolato e zollette di zucchero il magro ristoro.
Il risveglio al terzo giorno in parete fu quanto mai desolante e colmo di sconforto. Angerer non era assolutamente in condizione di salire oltre, troppo profonda la ferita alla testa ed il gruppo di scalatori fu costretto a tentare la ridiscesa con l’aggravarsi del tempo che volgeva rapidamente al peggio. Sempre assai lentamente percorsero il faticoso percorso del giorno precedente e, attraversato a ritroso il secondo nevaio, riuscirono ad arrivare, dopo innumerevoli sforzi, poco sopra il primo nevaio dove apprestarono un ulteriore precario bivacco in bilico sulla parete, agganciati alla cruda roccia dai chiodi di sicurezza.


Il 21 luglio con le condizioni meteorologiche ormai al limite della sopportazione fisica e Angerer pressoché impossibilitato a muoversi, i quattro riusciti miracolosamente ad arrivare in qualche modo all’altezza del traverso superato il primo giorno, non riuscendo tuttavia a percorrerlo a ritroso, nonostante i coraggiosi e disperati tentativi di Hinterstoisser. Nulla da fare, la fine sembrava vicina. L’unica e incerta via di salvezza appariva forse quella di provare a calarsi in verticale mediante una serie di discese in corda doppia, per tentare di raggiungere un sistema di cenge che li avrebbe condotti alla minuscola finestra della ferrovia ricavata nel corpo montagna, dove sarebbero stati in salvo. Come dire l’equivalente di un autentico suicidio per via dello strapiombo senza appigli lungo la cui franosa e verticale parete tentare di calarsi. Tutto questo sotto la sopraggiunta tempesta e con la già rigida temperatura abbondantemente sotto lo zero in ripida picchiata. Durante l’allestimento della discesa, i quattro disgraziati alpinisti furono investiti in pieno da una valanga. Hinterstoisser slegato dagli altri fu trascinato via di colpo in mezzo ai blocchi di roccia e di ghiaccio franati dall’alto. Gli altri tre, legati tra loro, con la corda passante in un chiodo agganciato alla parete, non riuscirono tuttavia a trovare una presa fissa. Angerer e Toni Kurz caddero lungo la parete, mentre Rainer fu trascinato verso monte dalla caduta dei due compagni e schiantato violentemente contro la roccia della parete. Angerer, già gravemente ferito sbatté ulteriormente contro il dirupo e morì sul colpo; Rainer morì in capo a pochi drammatici minuti. Toni Kurz, sebbene anch’egli fravemente ferito, sopravvisse rimanendo appeso per miracolo alla corda tesa tra i due compagni morti, riuscendo con la forza della disperazione a invocare aiuto. Le sue grida furono udite dal guardiano della ferrovia, che chiamò i soccorsi a valle. Una squadra di soccorso composta da tre guide alpine, non senza rischi, riuscì dopo molte ore a raggiungere fortunosamente la finestra della galleria da cui provò ad inerpicarsi sulla parete. I tre arrivarono ad una distanza di circa un centinaio di metri al di sotto del povero Kurz rimasto appeso alla corda ma non poterono andare oltre, a causa delle pessime condizioni del tempo e della parete; dovettero quindi desistere dal proseguire l’impresa e tornare a valle promettendo a Kurz, ormai disperato, sfinito ed esausto, che sarebbero ritornati l’indomani.


Il giorno finale di questa triste storia, il 22 luglio, la squadra di soccorso riuscì a tornare sulla parete, ed anche grazie anche alle migliorate condizioni meteorologiche, riuscì in qualche modo a portarsi in un punto a pochissime decine di metri da Toni Kurz il quale, per l’ennesimo inspiegabile miracolo, era sopravvissuto alla notte appeso penzoloni alla corda; nella caduta travolto dalla frana aveva tuttavia perso un guanto ed braccio sinistro era rimasto paralizzato per il congelamento. La squadra di soccorso nonostante i coraggiosi tentativi non poté tuttavia salire più in alto: la parete ghiacciata era estremamente liscia e di fatto impossibile da scalare. L’unica possibilità per Toni era quella di scendere con i propri mezzi fino alla quota dei soccorritori. Kurz riuscì in qualche modo a tagliare la corda che lo teneva ancora legato ai compagni morti, e risalì con sforzi indicibili ad issarsi al terrazzino soprastante, dove liberò il resto della corda. Purtroppo questa era ancora troppo corta per poter scendere fino alla piazzola dei soccorritori, ed extrema ratio cominciò a sgomitolarne i trefoli per tentare di allungarne le estremità. Dopo quasi sei interminabili ore di fatica, Kurz riuscì a legare insieme le tre trecce interne che componevano la corda, a riannodarle insieme ed a calare il tutto sino ai soccorritori; costoro legarono al cordino una corda integra e del materiale da riarmo, un martello, alcuni chiodi da parete e dei moschettoni; poiché tuttavia sprovvisti di una corda di lunghezza sufficiente, legarono insieme due corde. Kurz recuperò in un ultimo immane sforzo la corda, la fissò alla parete, e cominciò a scendere, lentissimamente, dopo aver fatto passare la fune in un moschettone fissato ad un anello di cordino intorno al proprio corpo. Superata una sporgenza aggettante, si calò infine nel vuoto per un tratto, ma quando incontrò la giunzione delle corde dovette bloccarsi: il nodo infatti non passava attraverso il moschettone. Kurz ormai allo stremo delle forze disperatamente tentò di far passare il nodo, di scioglierlo, di passarvi sotto, continuamente spronato dalla squadra di soccorso, ma inutilmente. Dopo gli ultimi e vani tentativi, con un filo di voce riuscì ancora a profferire queste ultime parole: “non ce la faccio più…” e chiuse gli occhi per sempre, sulla sua montagna…
Addio mio eroe…

Fonti:

  • “The White Spider” (1959) di Heinrich Harrer
  • “The beckoning silence” (2002) di Joe Simpson
  • Appunti personali scritti per Wikipedia

avatar Scritto da: Martin (Qui gli altri suoi articoli)


7 Commenti a Parete Nord

  1. avatar
    Mandriano 8 Novembre 2010 at 01:13

    …come ai bei tempi!!!!

  2. avatar
    Mongo 8 Novembre 2010 at 09:24

    Storia narrata, con le dovute distanze, in ‘Assassinio sul Eiger’ di e con Clint Eastwood, tranne che nel film l’eroe riesce a salvarsi!!! Gran bel pezzo.

    • avatar
      Martin Eden 8 Novembre 2010 at 09:45

      Grazie… di mio stavolta c’ho messo ben poco, mi stava solo a cuore riportare la storia…
      Segnalerei anche il bellissimo film “North Face” del 2008 ispirato anch’esso alla vicenda e molto fedele agli avvenimenti anche per quanto riguarda le riprese in parete.

  3. avatar
    Zenone 8 Novembre 2010 at 11:28

    In un Mondo nel quale sono poche le persone disposte a rischiare per le proprie idee, al di là del proprio tornaconto economico, solo la montagna ed il mare ci regalano storie edificanti di uomini (e donne) disposte a morire per le proprie passioni. Un articolo che rispecchia lo spessore del suo autore.
    Grazie!

    • avatar
      Martin Eden 8 Novembre 2010 at 11:54

      Grazie ma davvero io non ho nessun merito: come giustamente dici anche tu è la vicenda che tocca il cuore ad emozionare e a ricordarci, soprattutto in tempi come questi, che gli ideali e gli eroi che ne portano alta la bandiera esistono ancora…

  4. avatar
    Bilguer74 8 Novembre 2010 at 14:21

    Storia incredibile ed agghiacciante, che siamo felici di imparare anche da un sito che si occupa di scacchi. Grazie, come sempre, Martin!

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    carla ramos 9 Novembre 2010 at 09:44

    😀
    che bello!

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