Neuroeconomia scacchistica

Scritto da:  | 14 Novembre 2010 | 14 Commenti | Categoria: Scacchi e scienza

Tema: perché sbagliamo quando giochiamo a scacchi. Cause fisiche e mentali dei nostri errori.


Tutti gli scacchisti seri si saranno soffermati spesso in sede di analisi su una questione di importanza primaria: perché abbiamo sbagliato proprio in quel momento, proprio quella mossa così importante? Quando diciamo di “aver sbagliato”, generalmente intendiamo due cose: o di non aver giocato la mossa vincente o di non aver evitato una mossa perdente. La domanda si snoda in due problemi, talvolta diversi, ma uniti dalla stessa radice.

Molti riducono la questione al puro dato di fatto: abbiamo sbagliato perché invece di giocare una mossa ne abbiamo fatto un’altra per ragioni più o meno sensate (o più o meno insensate). Quello che accade, sempre e comunque, è che di fronte all’errore cerchiamo dei resoconti coerenti che spieghino l’insensatezza, assoluta o relativa, del nostro agire. Per le mosse vincenti non ragioniamo così perché già sappiamo il motivo del nostro comportamento. Tuttavia, ben pochi si sono sforzati di andare oltre questo livello e domandarsi perché in generale compiamo determinati errori piuttosto che altri e perché taluni ricorrono più spesso.

Ritorniamo alla domanda iniziale: “perché ho sbagliato?”, e ritrascriviamola in forma più generale. “Perché si compiono degli errori?” Siamo di fronte ad una di quelle domande la cui formulazione è assai breve e la cui spiegazione, o risposta, è molto lunga e articolata. In questo articolo seguiremo questa strada: elencare i generi degli errori (almeno quelli più comuni) e, solo dopo, vedere i punti conduttori di questi e, in fine, avanzare qualche ipotesi sulle cause di essi. In poche parole, risaliamo la corrente da un livello di descrizione dei dati di fatto fino alla postulazione di una spiegazione plausibile.

Innanzi tutto, un elenco. Diciamo che gli errori più comuni, in generale, sono di due generi: di cecità o di dimenticanza. Intendiamo con “cecità” quelle disattenzioni dovute al lasciare un pezzo in presa: anche il più somaro dei giocatori riconosce, nelle giuste circostanze (magari senza la fretta o la soggezione), se un pezzo è, o non è, in presa e, se non lo prende, significa che non ha visto (più o meno letteralmente) il pezzo. Con “dimenticanza” intendiamo l’errore opposto, vale a dire quello di lasciare un nostro pezzo in presa. Se si facesse una statistica, è possibile, se non certo, che la gran parte delle partite a qualsiasi livello sono dovute a questo genere di errori.

Un secondo genere di errore riguarda la grande categoria di “errori di valutazione” i quali si possono suddividere a loro volta in diversi sottotipi: (1) errore di dimenticanza, (2) incapacità di discernere gli aspetti qualitativi di una posizione (cecità posizionale), (3) miopia della previsione. Nel caso di errori di dimenticanza posizionale, possiamo dire che si tratta di quei casi in cui si riconosce il peso di una casa, ma per ragioni qualunque, si perde di vista questa certezza a cui segue una mossa che agevola la conquista della casella a favore dell’avversario il quale ottiene un vantaggio tangibile. Il secondo caso, cioè di incapacità di discernere gli aspetti qualitativi di una posizione, riguarda una deficienza nella conoscenza di un giocatore: tanto per fare un esempio chiaro a tutti, un principiante che non conosca l’idea dell’importanza dell’attività dei pezzi sarà condotto, per timore istintivo, a giocare “chiuso” e a legare lo sviluppo del proprio esercito fino a farlo collassare. Questo secondo tipo racchiude anche molti altri casi particolari: la distinzione tra un grande maestro e un top-ten è probabilmente di questo tipo, cioè il campione del mondo riconosce (o conosce) meglio gli aspetti più salienti di una posizione. Cioè a parità di lunghezza del calcolo che si suppone tra un grande maestro e il campione del mondo, quest’ultimo ha la meglio perché ha una conoscenza qualitativa maggiore rispetto al primo: una supposizione, questa, suffragata dalle partite vinte dai campioni su “normali” grandi maestri. In fine, abbiamo il terzo caso e, cioè, la “miopia della previsione”. Qui, si, entra in gioco la capacità di calcolo. Infatti, sappiamo tutti che per valutare una situazione contingente nella scacchiera abbiamo comunque bisogno di una certa prospettiva e, a seconda di come, chi riesce a valutare più a lungo le conseguenze di alcune scelte avrà la meglio. In questo caso, siamo di fronte sempre ad un’incapacità valutativa legata alla prospettiva posta dalla capacità di calcolo.

Enunciato l’errore di “dimenticanza” e gli errori legati all’incapacità valutativa possiamo proseguire con gli errori di calcolo. Questi si possono dividere in tre tipi: (1) la miopia di calcolo, (2) l’inefficienza del calcolo, (3) l’incapacità di valutazione. La miopia del calcolo è un fatto tipicamente umano, sconosciuto al computer: l’uomo più procede nella computazione e tanto più perde informazione. In questo senso, spesso, tanto più va in là con la previsione e tanto più perde la capacità di tener conto simultaneamente di tutti i fattori in gioco (siano essi pezzi piuttosto che case). Per tale ragione abbiamo altri due tipi di errori: (2) l’inefficienza del calcolo è proprio dovuta ai limiti della lunghezza materiale della previsione. Mentre (3), l’incapacità di valutazione, è la conseguenza della perdita di informazione o di creazione di dubbi: tutto diventa possibile perché poco chiaro e si perde la bussola che ci consente di discernere la mossa migliore o la posizione migliore tra quelle alternative. La miopia di calcolo genera i due casi specifici determinati o dalla propria inefficienza nel conto piuttosto che dall’insufficienza di informazione disponibile alla mente per prendere una decisione corretta a breve e a lungo termine. Uno dei problemi degli scacchi è proprio quello di riuscire a conciliare le esigenze presenti con quelle future.

L’ultimo genere di errore non si situa né tra gli errori di calcolo né tra quelli di valutazione ed è una categoria ibrida e poco chiara: la prematura “stop-position”. La stop-position è la posizione finale di un calcolo, cioè il momento in cui decidiamo di fermarci nella computazione delle posizioni finali. Talvolta, ci fermiamo prima della mossa in cui sarebbe meglio fermarci. Questo può essere dovuto o ad una incapacità di riconoscere il momento di valutazione corretto oppure di incapacità di calcolo (inefficienza della computazione) o, ancora, nella perdita di informazione.

Dunque, riportiamo tutte le categorie fin’ora presentate, senza i sottotipi: (a) errori di dimenticanza, (b) errori di valutazione, (c) errori di calcolo, (d) errore nella determinazione della stop-positizion. A parer nostro, tali errori sono così ben conosciuti dai lettori (tristemente, direi!) che non c’è bisogno di portare degli esempi concreti, ma se qualcuno avesse qualche dubbio, possiamo sconfessarli nel prossimo numero.

A questo punto, prima di procedere nella spiegazione di tali fenomeni scacchistici, osserviamo che potremmo distinguere gli errori in due categorie generali: quelli di cui ci sentiamo responsabili e quelli di cui “non potevamo far nulla”. E’ un dato di fatto che uno scacchista deve venire a patti col fatto che non può essere infallibile né perfetto, se con “perfetto” vogliamo intendere che giochi sempre la fantomatica “mossa migliore” (suggeriamo un romanzo con tanti riferimenti scacchistici che tratteggia questo tema: Prima che passi la notte[1] dello scrittore e scacchista amatoriale Pili Enrico, da poco scomparso). Alcuni errori riconosciamo che avremmo potuto evitarli, altri no. I primi sono quelli di dimenticanza: avevamo la conoscenza sufficiente per evitarli. I secondi sono quelli di ignoranza: non possiamo conoscere un dato finale se non l’abbiamo affrontato prima (talvolta, alcune conoscenze sono talmente complesse che non si possono elaborare direttamente in partita). E così pure vale lo stesso discorso per la stop-position: tante volte la nostra capacità di calcolo ci avrebbe reso accessibile la posizione successiva ma, siccome ci ritenevamo soddisfatti abbastanza, non credevamo di dover proseguire oltre.

Le cause degli errori sono dovute a quattro motivi fondamentali: la mancanza di cognizioni, la momentanea assenza di risorse fisiche, la “pigrizia” mentale e i gusti personali.

La mancanza di cognizioni può essere dovuta o all’assenza di conoscenza di una data posizione (per esempio l’impossibilità di riconoscere i punti deboli o di forza dello schieramento nostro e dell’avversario) oppure all’inaccessibilità di alcune informazioni rilevanti, dovute, ad esempio, alla lunghezza del calcolo.

La momentanea assenza risorse fisiche determina un aumento della “pigrizia” mentale e la carenza informativa e, di conseguenza, causa gli errori del primo tipo.

La “pigrizia” mentale è la superficialità o del calcolo o della concentrazione.

In fine, i gusti personali spesso determinano delle scelte discutibili se non errate: a volte dobbiamo spostare il re prima dell’arrocco, altre volte dobbiamo aprire il centro quando ancora non “ci sentiamo” pronti e dobbiamo spesse volte giocare in posizioni “poco familiari”. I pregiudizi si attivano soprattutto quando non riusciamo, o non possiamo, fare affidamento sulla capacità di calcolo o sulla possibilità di valutazione, perché non riusciamo a distinguere quale variante meriti di essere calcolata o compresa.

Tutte queste cause sono ancora da spiegare[2]. Alcuni rimarrebbero contenti così: cause generali per casi più o meno generali. Rimarrebbe solo trovarne i rimedi. Ma dobbiamo fare un passo oltre per comprendere fino in fondo il perché compiamo questi errori, la vera risposta a tutti (o praticamente tutti) gli errori possibili e dobbiamo fare riferimento alla “natura umana”.

La prima causa generale si fonda sul principio noto a tutti i neuroscienziati secondo cui esiste un principio di pertinenza nella selezione delle operazioni mentali: l’uomo filtra le informazioni seguendo (inconsciamente) un rapporto tra i costi e i benefici delle informazioni stesse. Se un’operazione richiede un alto costo mentale automaticamente la mente lo scarta a meno che non riconosciamo che quell’operazione è l’unica capace di farci raggiungere i risultati voluti. Questo principio sancisce, come conseguenza diretta, che tra due strade l’uomo seleziona automaticamente quella più breve, il che non significa quella migliore: un pregiudizio, un’abitudine rende il percorso mentale meno costoso in termini mentali (cognitivi) rispetto a quello più corretto. Dunque, la pigrizia mentale e la perdita di informazione progressiva del calcolo in prospettiva sono conseguenze della riluttanza della mente ad andare oltre il principio di economia che essa stessa segue. In qualche modo, per evitare alcuni errori dobbiamo forzare il nostro stesso “motore cognitivo” per riuscire ad evitarli. C’è un motivo per cui la mente umana è siffatta: se dovessimo computare ogni possibile variazione del gioco, dovremmo avere risorse fisiche infinite (giacché la mente lavora da energia di tipo biochimico e non gira “a vuoto”) e tempo infinito. Invece, dobbiamo fare i conti con le nostre limitazioni fisiche e la mente ha imparato, probabilmente per somme di processi evolutivi, a selezionare a priori alcuni percorsi piuttosto che altri. Per questo, l’uomo (non solo negli scacchi) deve costruirsi degli schemi mentali di previsione che facciano a meno della completezza delle informazioni: è utile sapere quando si può giocare il matto di Legal o come si giochi il finale di torre e re contro re e non perché veramente crediamo di finire esattamente nelle posizioni “ideali” quanto perché, in linea di massima, sappiamo come comportarci.

La seconda causa generale si fonda, invece, sull’assenza di conoscenze: se in una posizione non sappiamo che fare, difficilmente riusciremo a deciderci per la mossa migliore. In questo caso, siamo di fronte ad un deficit delle nostre risorse rispetto al problema: gli scacchi presentano una complessità che richiede una completezza informativa che gli esseri umani non hanno o non riescono a controllare del tutto. La differenza, rispetto alla causa precedente, è che non c’è un diretto legame con le questioni “fisiche” piuttosto rimane il fatto che dobbiamo sapere indipendentemente da ciò che siamo fisicamente[3]: se non si conosce il procedimento (in linea di massima) che ci consente di risolvere il finale di cavallo e alfiere e re contro re, ben difficilmente riusciremo a farcela.

Meccanismi mentali, riassumibili nel principio di economia della mente, e l’assenza di conoscenza causano ogni nostro errore negli scacchi ma, soprattutto, nella vita.  Così, risulta evidente che tante volte sbagliamo non perché lo potevamo evitare quanto perché la nostra mente funziona così. La parte emotiva della mente conduce sistematicamente a salvaguardare noi stessi dalle nostre scelte (molto più di quanto non si creda) e cerca di conservare le proprie energie piuttosto che dissiparle. Così, la ragione deve sforzarsi, certo, di andare oltre i propri limiti ma, allo stesso tempo, abbiamo bisogno di fiducia: solo attraverso essa possiamo “costringere” la mente ad andare dove vogliamo. Solo una controspinta emotiva può controbilanciare le spinte contrarie alla ragione. Ragione e emozione: due facce della stessa medaglia!


[1] Pili E., Prima che passi la notte, Carta di imbarco, Cagliari, 2009. Dello stesso autore, per cui gli scacchi avevano una valenza immaginifica, simbolica e metaforica, possiamo consigliare anche La quinta S dell’AIPSA edizioni. Inoltre, di Prima che passi la notte è disponibile nel sito www.scherlockeholmes.it la recensione di Fabio Lotti, autorità scacchistica e giallistica, e anche nel nostro www.scuolafilosofica.com.

[2] In realtà, si potrebbe operare ulteriormente sui singoli casi, magari riducendo alcuni tipi ad altri ancora più semplici. Tuttavia, in questa sede non ci sembra necessario proseguire nell’analisi essendo questa una presentazione non sistematica del problema ma solo una buona schematizzazione del problema.

[3] Il punto è che al di là del principio di economia, v’è anche il problema squisitamente cognitivo di avere dei procedimenti, algoritmi, di soluzione del problema la cui conoscenza non è implicata dalla nostra natura fisica.

[ Per qualsiasi chiarimento, approfondimento o suggerimento, prego i gentili lettori di contattarmi, anche per richiedere articoli arretrati. Possono vedere utilmente il mio sito www.scuolafilosofica.com. Ho scritto un’introduzione alla filosofia per scacchisti: 2001, Filosofia negli scacchi. Chiunque desideri leggerla, può richiederla.]

avatar Scritto da: Giangiuseppe Pili (Qui gli altri suoi articoli)


14 Commenti a Neuroeconomia scacchistica

  1. avatar
    Marramaquìs 15 Novembre 2010 at 21:14

    Una volta un mio antagonista di scacchiera mi disse, a fine partita :
    “Se io non avessi sbagliato, qui e poi qui, non avrei mai perso questa partita”.
    Infastidito, mi trattenni a stento dal replicare e me ne andai senz’altri commenti.
    Oggi, però, davvero penso che, se i miei avversari non avessero mai sbagliato, io non avrei mai vinto nessuna partita.
    Ma chi è che sbaglia di più ? Io, oggi, a pensarla così, o il mio antagonista di allora nel fare quell’ affermazione?
    Scherzi a parte, complimenti a Giangiuseppe per questo suo interessante articolo.

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      Mongo 16 Novembre 2010 at 00:16

      A scacchi vince chi commette il penultimo errore!! ;)

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      Jazztrain 16 Novembre 2010 at 07:06

      Interessante questo articolo, a mio avviso non si tiene conto di un fattore fondamentale che sarebbe la gestione del tempo. Quante volte si commettono errori decisivi quando si è in zeitnot?

      • avatar
        Marramaquìs 16 Novembre 2010 at 07:37

        Già, il tempo. Quindi ad essere sbagliate sono le attuali regole, che ci fanno giocar male.
        Propongo pertanto l’abolizione dell’orologio … e, per un nuovo titolo mondiale, un match tra me e il ritirato Carlsen, senza orologio, sulla distanza di 60 partite (.. da ricordare !).
        Vado a cercare uno sponsor.

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          Jazztrain 16 Novembre 2010 at 12:33

          Non esageriamo, volevo far notare che si commettono errori sulla scacchiera causa zeitnot. Anche lo zeitnot fa parte del gioco.

          • avatar
            Marramaquìs 16 Novembre 2010 at 15:04

            Ah, ma io, Jazz, non scherzavo affatto. E se Pili è dalla parte del gioco lungo, io sono dalla parte del gioco lunghissimo. Del resto lo zeitnot fa parte delle regole del gioco, sì, ma non del gioco in senso stretto.
            Un giorno (ancora lontano) verrà abolito, vedrete.

            • avatar
              Michele Panizzi 17 Novembre 2010 at 14:13

              Ma l’uso di un tempo di riflessione
              condiziona pesantemente il gioco anche
              senza dover finire in zeitnot!
              Si subisce la pressione psicologica
              appunto PER EVITARE DI FINIRE IN ZEITNOT!

              Sono veramente convinto che si dovrebbe
              abolire l’uso dell orologio e del regolamento.
              Io non faccio partite di torneo proprio
              per questo.

              • avatar
                LS 17 Novembre 2010 at 14:32

                Ok perfetto. Quindi, che farai alla prima partita in cui il tuo avversario sarà in svantaggio e NON MUOVERA’ per ore per evitare di perdere?

                • avatar
                  Mandriano 17 Novembre 2010 at 14:39

                  …senza orologio.. ma con l’uso della pistola!!! 😆

                • avatar
                  Michele Panizzi 17 Novembre 2010 at 21:28

                  La domanda e` rivolta a me?

                  • avatar
                    LS 18 Novembre 2010 at 10:47

                    Si, Panizzi, a te e a tutti quelli che auspicano l’abolizione dell’orologio da torneo…

                    • avatar
                      Michele Panizzi 19 Novembre 2010 at 20:23

                      Va bene ,
                      ti rispondo volentieri .

                      A Sono convinto che solo molto raramente
                      accada che l avversario ricorra a
                      questo genere di trucchetti .
                      Confido in un onesta` di fondo
                      dei due giocatori , senza la quale
                      non si va da nessuna parte :
                      si finisce solo per tappare una
                      falla e se ne apre un altra.

                      B Invece del gioco di torneo
                      io ho trovato e suggerisco
                      le partite test che si trovano
                      su ChessLife e in Italia erano
                      pubblicate da Due Alfieri .

                      Si tratta di indovinare la mossa
                      giicata dal GM e alla fine si ottiene
                      un punteggio simile all ELO.

                      Nelle partite test la pressione dell orologio e` assente .

                    • avatar
                      LS 22 Novembre 2010 at 18:21

                      A) Panizzi, sei un po’ ingenuo… e non vedi neanche la necessità pratica di dare un limite di tempo alle partite che altrimenti rischiano di durare giorni e giorni (anche senza “malizia” di non muovere per evitare la sconfitta)

                      B) Ma se il GM in questione non avesse giocato la partita suddetta in torneo, tu come faresti?!?

  2. avatar
    Giangiuseppe Pili 16 Novembre 2010 at 12:34

    Be’, certamente il tempo ha un rilievo decisivo ma non può essere preso come paramentro a sé: possiamo considerare gli “errori temporali” come “pigrizia mentale dovuta alla mancanza di risorse fisiche sufficienti” oppure come “cecità posizionale o tattica”. In altri termini, il tempo è una causa SECONDARIA dell’errore: esso INDUCE all’errore ma non lo implica. In altri termini, è vero che tendiamo a sbagliare di più ma non per questo è necessario che noi erriamo.

    Ringrazio tutti per aver letto il mio articolo e i relativi complimenti.
    Io sono dalla parte del gioco “lungo”, proprio perché gli scacchi, per me, sono essenzialmente il risultato di una comprensione attiva e non sono assimilabili ad uno sport (in senso deteriore).

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