Sentimenti che ruotano attorno ai software di scacchi

Scritto da:  | 10 Dicembre 2010 | 6 Commenti | Categoria: Programmi, Scacchi e scienza, Software, Zibaldone

Capita che gli esseri umani vogliano misurarsi coi computer che hanno creato in qualche attività di tipo intellettuale, come quando si fa giocare il tal campione di scacchi contro un software scacchistico (…). Man mano che aumentano la potenza e le capacità dei calcolatori elettronici, molte persone si sentono rassicurate dal fatto che un campione del mondo di scacchi riesca ancora a battere il computer, e viceversa, avvertono una sorta di disagio se, invece, è la macchina a spuntarla. (…) Il fatto è che a molti dà fastidio l’idea che un computer possa essere più intelligente di noi.[1]

Berto F.

Temi:

  • Perché crediamo che il computer “giochi” a scacchi?
  • Decostruzione secondo ragioni di un pregiudizio radicato nel mondo scacchistico.

Attorno al computer scacchistico, vivono due generi di opinioni distinte e contrastanti: da una parte ci sono i “luddisti”, quelli che vedono nell’arrivo del computer la fine dell’intelligenza e la vittoria del meccanicismo negli scacchi. Generalmente i “luddisti” sono dei nostalgici e vorrebbero tornare all’ingenuità, persa con il computer.

Dall’altra parte ci sono i “trionfalisti”, quelli cioè che vedono nel computer la concretizzazione dell’intelligenza, la sua manifestazione “reale” o la sua espressione massima. In entrambe le posizioni l’intelligenza umana viene dopo quella del computer quando, in fin dei conti, il computer non è poi molto diverso da una ruota o da una trave: è uno strumento incapace di autodeterminarsi, un puro mezzo.[2] Il fatto che Friz sia più efficiente, mediamente, di un giocatore umano non implica che sia “mentalmente superiore” ed esso non deve essere paragonato all’uomo ma ad un coltello. Infatti nessuno si rammarica che un coltello tagli la fetta di salame meglio di una mano priva di strumento. Eppure, vedere le cose secondo questo punto di vista, richiede uno sforzo psicologico superiore a quel che, generalmente, si sente il bisogno di fare.

Questa visione delle cose è generata dal grande successo che intuitivamente suscita in noi il Test di Turing: lo eseguiamo in automatico. Il Test è semplicemente questo: una macchina è intelligente se svolge un compito particolare in modo simile a come lo farebbe un uomo.

Secondo i teorici della pertinenza[3], concezione della pragmatica strutturata sugli attuali modelli scientifici, la mente umana ha in sé un modulo di psicologia ingenua. Un modulo è una procedura di calcolo che attinge a dati specifici, non accessibile alla coscienza del soggetto che può solo usufruire dei risultati ma non può mettere mano all’elaborazione dell’informazione. Ciò garantisce la rapidità e l’efficacia dell’esecuzione del compito ché, se avesse continuamente interferenze, produrrebbe dei risultati meno sicuri e dopo un ragguardevole spreco di tempo ed energie. La mente umana è una macchina economica, finita nei mezzi e nella dimensione. La conferma dell’esistenza di questi moduli è confermata sia dallo studio su traumi o disturbi delle capacità cognitive di pazienti lesionati a livello cerebrale o nati con disturbi come la sindrome di Down, l’autismo, sia da alcune evidenze sperimentali. E’ interessante osservare che i bambini autistici hanno mostrato incapacità nell’attribuire stati mentali agli altri, cosa che determina in loro l’impossibilità non solo di avere aspettative sul comportamento altrui, ma anche sul proprio. Questo significa che essi non sono in grado di attribuire agli altri credenze e per tale ragione la loro capacità di introspezione è profondamente limitata, nel senso ristretto di “possibilità di capirsi”.

Noi siamo dunque in grado di attribuire pensieri e credenze per la sola ragione che la nostra mente computa alcune informazioni in quel determinato modo. Se vedo una persona è per me irresistibile pensare che egli creda qualcosa. Tuttavia, noi non ci limitiamo a credere che altre persone pensino. Quando vediamo un film pensiamo agli stati mentali dei protagonisti dimenticandoci che essi non li possono affatto avere, giacché non ci sono personaggi ma, al massimo, attori di fronte a noi. Nel cinema c’è solo finzione eppure ci è irresistibile non crederlo. Quando poi vediamo dei disegni animati di animali parlanti, come volpi o lupi, facciamo la stessa cosa. Allo stesso modo ci è impossibile non attribuire pensieri al nostro cane, pensieri come “Hugo sa che domani piove. I cani lo sentono”. Lo sentono, forse, ma non possono crederlo. Credere implica pensare per frasi e i cani non rientrano nel dominio della Grammatica Universale o generativa. Come si vede, noi crediamo che altre cose pensino, anche quando non lo possono fare, e tali pensieri sorgono in noi di continuo.

L’attribuzione di credenze a entità non umane è compiuta per la sola ragione che ciò che distinguiamo nell’ambiente come “un comportamento simile al nostro”, cioè analogo a quello che noi attribuiamo a noi stessi e agli altri, stentiamo a distinguerlo dal nostro e ne associamo le stesse presunte cause. Questo vale anche per eventi fisici che non hanno nulla a che fare con menti, scacchi e computer: quando diciamo che “il sole sorge” non vogliamo certamente dire che il sole vuole farlo o che sia in qualche modo un soggetto come lo è un uomo quando si alza dal letto! Dal nostro meccanismo mentale è determinata la natura stessa dei nostri pregiudizi.

L’uomo produce continuamente delle idee di causalità tra eventi diversi e sconnessi per genere: è sufficiente percepire due fatti distinti ma simili in una successione temporale per creare un’idea di causalità[4].

Si può fare anche di peggio. Si può dare valore intenzionale ad azioni o eventi che non hanno nulla a che fare con un soggetto intenzionale (cioè che ha dei pensieri rivolti al mondo). Così per secoli è stata dominante l’idea di un progetto finale e intelligente, sia in campo naturale che in campo sociale. Le bestemmie, ad esempio, sono state avversate da sempre non perché del tutto prive di buon gusto (ragione estetica) ma perché cause di mali (evento fisico). Alla bestemmia si associava l’evento negativo inspiegabile ed ecco che irresistibilmente tutti credevano in tale correlazione. Più attuale è l’esempio delle onde elettromagnetiche che, secondo dati scientifici più solidi (anche se pochi, per la verità) non causano direttamente malattie incurabili. Il problema delle malattie “incurabili” è che si sente la necessità di trovargli una spiegazione, di qualunque genere e questo genera, assai spesso, le invenzioni causali più disparate. Allo stesso modo, possiamo pensare ai riti e ai miti che continuamente costruiamo e a quelli passati.

Se tante volte costruiamo teorie insensate per eventi chiaramente sconnessi, figuriamoci le conseguenze di pregiudizi ragionevoli (non razionali): quando giochiamo a scacchi contro un computer ci è automatico attribuirgli credenze, stati mentali, emozioni e bisogni quando il computer non è altro che una calcolatrice e, al pari di questa, si limita ad esibire risultati senza avere accesso diretto e introspettivo a quegli stessi. Se la conoscenza è “credenza vera giustificata”, il computer non “sa” perché non può credere, può essere al limite giustificato. Friz, a differenza nostra, non ha un’idea di ciò che egli stesso è, perciò egli non ha pregiudizi né può costruirsene.


[1] Berto F., Tutti pazzi per Gödel, Laterza, Roma-Bari, 2008, pag. 206.

[2] Mi sia consentito rimandare al mio precedente lavoro (Pili (2010) dal quale ho tratto questo inizio di capitolo.

[3] Per una trattazione introduttiva ma molto efficace, Bianchi (2009).

[4] Ciò secondo David Hume e una tradizione solida che giunge fino alle attuali concezioni scientifiche della causalità come correlazione forte tra eventi.

[ Per qualsiasi chiarimento, approfondimento o suggerimento, prego i gentili lettori di contattarmi, anche per richiedere articoli arretrati. Possono vedere utilmente il mio sito www.scuolafilosofica.com. Ho scritto un’introduzione alla filosofia per scacchisti: 2001, Filosofia negli scacchi. Chiunque desideri leggerla, può richiederla. Il seguente articolo è una rivisitazione del più lungo e articolato saggio Il giocatore triste, disponibile nel sito.]

avatar Scritto da: Giangiuseppe Pili (Qui gli altri suoi articoli)


6 Commenti a Sentimenti che ruotano attorno ai software di scacchi

  1. avatar
    Zenone 10 Dicembre 2010 at 18:04

    Vorrei intervenire affrontando questa materia con la delicatezza di chi è consapevole di una preparazione insufficiente ma armato della curiosità dell’appassionato. Credo che la problematica trattata, in questo chiarissimo scritto di Pili, dal punto di vista scientifico/filosofico – possa essere affrontata anche dal quello strettamente culturale/antropologico. Intendo dire che l’approccio al problema è legato alla valutazione di come un determinato gruppo di persone, forse sarebbe meglio precisare, in questo caso, gli scacchisti, percepisce l’importanza del computer nell’ambito dell’attività (gioco) di cui è appassionato. È innegabile, da questo punto di vista, che gli scacchi, forse come nessun altro gioco, abbiano risentito, risentano ed inevitabilmente risentiranno della “crescita” dei computer proprio per le caratteristiche intrinseche del nostro sport: concentrazione, capacità di calcolo, analisi, valutazione, tempo ecc. È altresì fuori di dubbio che il cervello umano ragioni in modo differente dal computer, anche se è altrettanto chiara la volontà da parte dei programmatori di tentare di trasformare una perfetta ma inconsapevole macchina da calcolo (una sorta di idiot savan) in un’altrettanto perfetta macchina tout court com’è l’uomo. Ma la capacità di risolvere problemi è ben altro rispetto al Test di Turing. Si è infatti passati da un computer che calcolava tutto, grazie alla sua “forza bruta”, a tentativi di creare macchine in grado di “scremare”, selezionare le proprie scelte a priori. È verosimile pensare, credo, che questi rimarranno solo degli inani sforzi dato che è la stessa vittima sacrificale (l’uomo) che inserisce all’interno della fredda macchina dati ed informazioni, con buona pace delle funzioni di autoapprendimento. Senza scomodare Herbert Simon, uno dei partecipanti al Congresso del Darmouth College di Hannover [1956] – in cui venne coniato il termine “Intelligenza Artificiale – e che prevedeva bei dieci anni successivi la sconfitta del Campione del Mondo di Scacchi ad opera di un computer, è indubbio che l’informatica ha fatto enorme passi in avanti e che Deep Blue di IBM nel 1996 (con qualche decina d’anni di ritardo) abbia battuto Kasparov. Ma è proprio su questo dato che dobbiamo ragionare. Lo scacchista vede e valuta il risultato finale (analisi di una partita, capacità di calcolo infallibile dal punto di vista tattico, valutazioni esatte su posizioni complesse) proprio perché “la mente umana è una macchina economica, finita nei mezzi e nella dimensione”, come dice Pili, e quindi, a seconda delle proprie capacità e forza, ritiene il computer come un mezzo indispensabile di ausilio allo studio (giocatori di categoria magistrale) o un avversario invincibile (giocatori di categoria nazionale). Tornando quindi al titolo del pezzo “Sentimenti che ruotano attorno ai software di scacchi” dobbiamo valutare tutto in base all’intelligenza emotiva, alla cultura e al livello cognitivo dell’uomo che si pone il problema dell’influenza della “macchina” nella propria vita, nella convinzione che dopo l’invenzione della bicicletta l’uomo ha comunque continuato ad apprezzare il camminare e che anche il gioco di scacchi per corrispondenza, magari modificando le proprie “abitudini”, ma continua ad esistere e mi sembra goda di buona salute.
    Ritornando ai sentimenti vi offro un pensiero di Marcel Duchamp:
    “I pezzi degli scacchi sono l’alfabeto che plasma i pensieri; e questi pensieri… esprimono la bellezza astrattamente… “

  2. avatar
    Giangiuseppe Pili 10 Dicembre 2010 at 23:14

    Caro Zenone,

    Sono sostanzialmente d’accorco con te. Il problema è che in particolare nei luminosi e ingenui anni ’50 non era così evidente (ma non lo è molto nemmeno oggi) che il Test di Turing non fosse sufficiente a valutare una macchina come “intelligente”. Naturalmente, uno dei problemi è che con “intelligenza” si suole intedere una capacità di calcolo. Di ciò non si può essere soddisfatti perché a differenza del computer, noi possiamo “accedere” ai calcoli ed essi non ci sono indifferenti.

    Il computer, per quello che è oggi, è uno strumento come un coltello, un manico di scopa etc. Esattamente come dici tu. Il problema è che attorno al software di scacchi (a differenza dei coltelli) ruotano miti e leggende e, appunto, emozioni contrastanti e… tanti pregiudizi. E’ per questo che ci tenevo a scrivere questo articolo: fare chiarezza per eliminare quell’idea assurda che il computer “pensi”.

  3. avatar
    franz 11 Dicembre 2010 at 16:28

    Io non sono convintissimo della definizione che dai del test di Turing. Se non ricordo male, per Turing il punto fondamentale era la capacità, per un essere umano, di distinguere tra un altro essere umano e una macchina: l’accento mi pare che fosse sull’osservatore, non sul compito. Ora, tu affermi che noi umanizziamo Fritz perchè inconsciamente lo sottoponiamo al test, e lui lo passa alla grande: mi sembra un’affermazione un po’ azzardata.

    Potrebbe essere interessante provare a far giocare a qualcuno con una forza di gioco sufficiente (una conoscenza adeguata del linguaggio, direi) una simultanea su un qualche server contro un misto di giocatori umani e non umani, e vedere questo quanti computer “smaschera”: una discriminante un po’ rozza potrebbe essere addirittura quella basata banalmente sulla forza di gioco.

    Paradossalmente, può essere che più un software diventa performante più è facile sgamarlo nel test di Turing: in altre parole, più diventa “intelligente” e meno si umanizza, più è forte e più è riconoscibile come altro da me. Il problema però sembra che anche se sappiamo che è un software non possiamo comunque impedirci di umanizzarlo.

    D’altra parte, ELIZA passa tranquillamente il test di Turing, ma nessuno si sognerebbe mai di attruibuirgli “intelligenza” o di umanizzarlo dopo che viene fuori che è un software.

    Alla fine, sembra che l’unica cosa di buono che ha un software scacchistico sia che è performante, e la cosa pazzesca è che più è performante, più tendiamo ad attribuirgli umanità: più o meno sembra che la performance sia considerata una caratteristica fondante dell’umanità… inquietante! :)

    Ti propongo allora un ribaltamento di prospettiva: forse il problema non è attruibuire intenzionalità agli oggetti, ma è semplicemente la reificazione dell’umano… è ora di passare da Searle a Lukacs :)

    • avatar
      Giangiuseppe Pili 12 Dicembre 2010 at 18:41

      Caro Franz,

      Grazie per il commento molto gradito e veramente interessante. 1) Per quanto riguarda Turing, egli sostiene esplicitamente che riprodurre una “persona” non è interessante dal punto di vista dell’I.A., ma solo riprodurre delle macchine capaci di SVOLGERE DEI COMPITI INTELLIGENTI. Dunque, egli, a differenza degli studiosi di I.A. nuda e cruda degli anni ’50, non avrebbe sottoscritto l’assunzione che un computer “pensa o ragiona” come l’uomo.
      2) Ma appunto perché il computer non pensa né ragiona come un uomo il test di Turing fallisce ma non per quello per cui fu pensato da Turing! Come test funziona a condizione di assumere come problema la capacità di un programma di raggiungere lo scopo come avrebbe ESIBITO un uomo (dietro l’idea di Turing c’è la psicologia comportamentista oggi parzialmente superata dalle neuroscienze cognitive).
      3) In effetti, uno dei problemi è intendersi sulla definizione di intellienza. Quello che noi vogliamo catturare con la sua definizione è “capacità di calcolo non opaca a chi compie la computazione” cioè proprio quello che il computer non fa.
      4) Per quanto riguarda l’idea di sottoporre il test di Turing e vedere se si riesce a discernere una macchina da un uomo io lo trovo difficile perché se gioco (senza saperlo) contro Carlsen hai voglia a dire che è talmente troppo forte che non può essere un uomo!, dunque, credo che sia difficile da riconoscere dalla sola APPARENZA.
      5) In fine, non avevo riflettuto sull’idea che ci sia una componente di reificazione del pensiero umano. E devo dire di trovarmi pienamente partecipe della tua idea, adesso che vi ho fatto caso. Questo senz’altro vale per i teorici consapevoli ma non credo che valga per gli “ingenui” giocatori di scacchi che si sentono spaesati quando pensano che il computer “sia più intelligente di loro” che sono, poi, i veri destinatari della mia polemica.

      Grazie veramente del tuo commento interessantissimo e sul quale continuerò a riflettere.

  4. avatar
    Rafelnikov68 11 Dicembre 2010 at 20:02

    Caro “Giangi” sono d’accordo con te e condivido sostanzialmente la tua analisi. Tengo a precisare, però, che il gioco degli scacchi è molto più semplice della maggior parte dei problemi che l’intelligenza umana è costretta ad affrontare. Le regole sono certe e lo spazio degli eventi e finito, perciò i software, rispettando le attuali logiche di costruzione, sono in grado di risolvere meglio questo compito. In futuro (forse anche lontano) risolveranno il gioco (come la dama). Un errore comune è paragonare il gioco degli scacchi alla vita, ma negli scacchi il caso rimane limitato ai giocatori, mentre nella vita è un elemento essenziale e fondamentale della realtà. Forse con l’avvento dei computer quantistici e con una logica non più binaria, riusciremo a creare macchine pensanti che ci batteranno a scacchi provando anche piacere!!

    • avatar
      Giangiuseppe Pili 12 Dicembre 2010 at 19:02

      Caro,

      Grazie per il commento.
      1) Il mio punto di vista tende proprio a non considerare un computer nemmeno lontamente simile ad un uomo, per tanto, sono d’accordo che l’intelligenza riguarda la capacità di elaborare soluzioni a problemi QUALUNQUE.
      2) Ho i miei dubbi che un computer pensante in modo consapevole e che possa provare piacere sia anche lontamente concepibile dal punti di vista pratico e, per il momento, siamo più vicini alle ipotesi fantascientifiche di quanto non ci vogliano far credere. Per altro, anche negli anni ’50 si pensavano strane cose, come che nel 2001 i computer sarebbero stati coscienti, che la medicina avrebbe consentito di non morire più, di arrivare su giove etc. Tutte immagini della fantasia proiettate sulla realtà. Dunque, c’è ancora tanta strada da fare verso un software capace di godere!

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