Enrico Pili, uno scacchista silenzioso

Scritto da:  | 4 Settembre 2013 | 32 Commenti | Categoria: Italiani, Personaggi

All you need is love 1

Alle prime ore del 30 agosto del 2010 qualcosa è cambiato nel mondo fisico. Il cambiamento è stato, per così dire, impalpabile. Un fatto può sussistere o non sussistere e il resto rimanere uguale. E questo è stato indubbiamente vero per quasi tutto il genere umano. Perché quanto può contare la vita di tre persone rispetto agli altri 7.146.999.997 esseri umani? Per fortuna, ben poco. Per fortuna, perché ogni tre secondi muore un uomo. Che aveva una sua vita, una sua storia e qualcuno che gli voleva bene. Ci dicono che l’entropia dimostra che il mondo va verso una direzione e che non torna indietro. Senza arrivare alle leggi della termodinamica, anche la morte ci dice la stessa cosa. Perché nessuno è tornato indietro per dirci com’è dall’altra parte, sempre ammesso che ci sia questa “altra parte”: questione di gusto, sulla quale non ci vogliamo dilungare.

Il 30 agosto del 2010 è morto Enrico Pili, che era un uomo che sapeva giocare a scacchi. Egli iniziò a giocare da ragazzo, con una scacchiera in legno di non eccezionali dimensioni, la quale ha diversi sbreghi. Soprattutto, oggi i pezzi sono meno di 32, perché la sua improvvida prole, in tempi non sospetti, aveva “mangiato” un paio di pedoni, che si andavano a sommare a quello che Enrico perse per delle ragioni imponderabili in tempi remoti.

Enrico nacque nel 1951, anno luminoso, se si pensa che senza di esso alcuni esseri umani del 1986 e del 1991 non avrebbero mai visto la luce: non si può sapere che figlio avrai, ma il figlio non potrà avere alcun altro padre. Per il padre il figlio è una possibilità, per il figlio il padre è una certezza. Una certezza solo sul piano biologico e logico, le uniche pensabili in questo universo assai fragile. Ad ogni modo, Enrico si approcciò agli scacchi da giovane e giocò nel suo paese, Sestu, contro avversari di diverso genere. Non campioni del mondo. Ma avversari. Come simpaticamente ricorda un onesto e bravo lavoratore delle poste, il Pili lo batteva sempre. Il suo amore per gli scacchi fu sufficiente a impartire i rudimenti anche alla moglie, Giuseppina, la quale, volente o nolente (ma per amore, cosa non si fa? E chi è in grado di capire cosa si fa veramente volentieri per sé rispetto a quello che si fa comunque volentieri per l’altro?) imparò a giocare sufficientemente bene per battere una volta Enrico. Questo episodio non sarebbe degno di ricordo per alcuno, a parte per chi giocò quella partita, se non perché consente di sottolineare uno degli aspetti del carattere o, se vogliamo, della moralità di Enrico: piuttosto si sarebbe fatto torturare, ma non avrebbe mai dato vinta una partita all’avversario, per il solo fatto che costui ne sarebbe stato contento, anche a chi, magari, sarebbe stato felice di batterlo.

Enrico Pili non era un amante della gerarchia in tutti i sensi, e ha dato buona prova di sé anche quando, casualmente, ne ha fatto parte. Si può dire, che egli fosse nel cuore un romantico e nella testa un illuminista. Egli era continuamente in lotta tra queste due aspirazioni fondamentali, le quali lo guidavano in modo conflittuale in quel mondo che non ammette indecisioni. Da illuminista, infatti, era un anticlericale. Da romantico non era capace di dimenticare che di fronte a sé ci stava pur sempre una persona. Da illuminista predicava la ragione, da romantico viveva le emozioni. Egli amava la ragione, più che esercitarla. Il che lo rendeva un uomo ragionevole, che non è esattamente la stessa cosa di “uomo razionale”. Egli amava l’umanità, ma non sempre la capiva. Soprattutto perché egli era un ottimista metafisico. A cinquant’anni poteva stupirsi del fatto che gli uomini si vendono per cinque euro, e che buttano la loro vita per un pugno di letame o che svendono la madre per un po’ di aranciata. Queste ovvietà quotidiane rimanevano spesso inattingibili, per lui, perché, come un novello Oliver Twist adulto, prima di tutto veniva il bene. Poi tutto il resto.

Gli scacchi furono per lui uno specchio e un fedele compagno di viaggio. Da specchio riflettevano molto del suo carattere nel suo gioco: egli prediligeva il gioco aperto, non necessariamente tattico e tendeva a scambiare i pezzi ogni qualvolta era possibile. Era convinto, infatti, che i problemi andavano risolti semplificando, anche quando nella semplificazione si perdeva qualcosa: a differenza di quanto predicava Botvinnik, in un libro che pure possedeva, Enrico credeva fermamente nel principio della semplificazione. Si guadagnava in chiarezza. Secondo lui. Ripeteva sempre che tutto dovrebbe essere spiegato in modo che anche un bambino di sei anni potesse capirlo. Forse più di tutto il resto questo mostra il suo intrinseco, ineliminabile, bonario idealismo. Comunque, a scacchi apriva sempre 1.e4 e, come disse spesso, l’ultima volta ad un torneo lampo organizzato a Siena, contro il carissimo Maestro Alessandro Patelli, non amava giocare 1.d4 sia da bianco che da nero. In generale, non gli piaceva il gioco chiuso, appunto, perché troppo contorto. Il suo pezzo preferito era l’alfiere. Egli era come tutti noi: un giocatore che giocava prima di tutto con il suo carattere e secondo esso.

Venne la volta del militare. E anche in quell’occasione gli scacchi gli furono preziosi. Come detto, Enrico non amava la gerarchia. E neanche fare il militare. La gerarchia militare, poi, non è composta generalmente da uomini che amano scendere a compromessi, soprattutto con un soldato semplice o neanche. Sicché una volta, rischiando di finire in cella di rigore per l’ennesima volta e forse l’ultima (e passare guai più importanti), si salvò grazie agli scacchi: di fronte al graduato giudice si scoprì che Enrico stava organizzando un torneo di scacchi, sicché gli fu accordata l’amnistia, grazie al fatto che il graduato era sensibile a tale argomento. I miracoli degli scacchi!

Il suo giocatore preferito, con il quale amava insegnare gli scacchi anche agli altri, era Capablanca. Comprò il memorabile libro del maestro cubano La mia carriera scacchistica, che tutt’ora occupa un posto di rilievo nella libreria di famiglia. Il suo amore privilegiato per il cubano si spiega bene, in fondo. Come Capablanca amava giocare in modo semplice e cristallino, anche a Enrico così piaceva affrontare i problemi. In secondo luogo, Enrico ammirava la genialità negli uomini, anche quando questa era evidentemente molto più grande di lui. Ci sono uomini che vivono male il loro rapporto con gli altri esseri più dotati di loro. Ad alcuni non interessa minimamente, perché temono di scoprire tutte le loro manchevolezze. Che, in questi casi, non sono trascurabili. Altri disprezzano e ammirano malignamente coloro che li sovrastano, non riuscendo bene a capire perché in loro c’è qualcosa che non funziona. Altri ancora nutrono un senso di gioia infantile a vedere qualcuno risolvere un’equazione di cui non verrebbero mai a capo neanche in un tempo infinito. Enrico era uno di questi e in Capablanca vedeva il campione che lui non sarebbe mai stato. Non che lo desiderasse. Ma neanche desiderava essere Conrad, Beethoven o Kubrick. E ciò nonostante li apprezzava e riconosceva la loro grandezza come un bambino riconosce la maggiore forza del padre. E a differenza di altri, lui sapeva accettare questa diversità. Per questo si giustificano simili asserzioni pubbliche: “Compagne e Compagni, lavorando con coerenza, umiltà e la serenità così meravigliosamente trasmessaci da Mozart, certi sogni possono divenire realtà”.1

Disputò diversi tornei in Sardegna e, probabilmente, la sua unica “trasferta scacchistica” fu proprio quella volta a Siena. Dei tornei in Sardegna vale la pena ricordare i due principali, di cui si gloriava sempre. E’ un peccato che di questi tornei non si trovi traccia, ma risalgono ai tempi precomputer e preinternet e, forse, preELO. Ad ogni modo, Enrico disputò un grande torneo, e doveva giocare l’ultima partita contro un bambino. Se avesse vinto, avrebbe conquistato il primo posto e avrebbe ottenuto il primato nel torneo. Come vide il suo avversario, un infante di appena una decina di anni, se li aveva, pensò “ah, non sarà difficile. Mi aspettavo peggio”. E riconobbe lui stesso l’errore, il pregiudizio di tanti che vorrebbero i bambini degli scemi, fatto che non sarà estraneo ai giocatori da torneo… Ad ogni modo, perse in una ventina di mosse. Terminando la partita, strinse la mano all’avversario e si complimentò, dicendogli (così raccontava sempre): “Diventerai forte. Bravissimo!” Il bambino era Gianlazzaro Sanna, indimenticato campione sardo. Anche questo episodio mostra un po’ di quello che era Enrico Pili: quanti di noi avrebbero così sportivamente ammesso la propria inferiorità ad un bambino che ci aveva appena battuti, privandoci del primo posto del torneo?

Il secondo episodio lo vedeva giocare in un torneo contro un avversario particolare: costui era americano e lavorava ad una delle tante basi NATO (o che vengono usate abitualmente dagli USA a prescindere…;) in Sardegna. Enrico, così mi disse, non sentiva più la voglia di combattere e perse velocemente un pezzo. Così il suo avversario dichiarò impudentemente: “Voi italiani sarete sempre dei giocatori mediocri”. Al che, la volontà di sangue di Enrico si riaccese e, dopo alterni momenti di gioco, riuscì a strappare la patta. Egli non era un combattente, non avrebbe potuto uccidere un indifeso anche qualora ciò avrebbe comportato la sua sopravvivenza. Sarebbe morto di fame, piuttosto. Ed è curioso, se vogliamo, che egli si sia dato anima e corpo in attività sociali dove, non solo in Italia, trionfa solo chi è determinato a vincere anche a costo di asfaltare con un carro armato gli esseri più pacifici del mondo. Questo si evinceva anche a scacchi. Egli avrebbe fatto rigiocare cento volte la mossa, anche quando, alla centesima, avrebbe potuto dare matto in una. Quando giocava lampo, finiva sempre per continuare a giocare anche a tempo terminato. Lui amava dire: “Nella giungla si dice spesso che bisogna fare come i leoni, perché la gazzella non può che scappare. Ma nella foresta non ci sono solo i leoni, giaguari e gazzelle. Ci sono anche i rinoceronti, che sanno difendersi”. Aggiungiamo, a chiosa, che i leoni e i giaguari sono una razza sopravvalutata in campo umano, laddove in genere sono assai meno e molto meno in carne che le loro controparti erbivore. A iniziare proprio dalle gazzelle! Il che dovrebbe insegnare a tutti qualcosa.

Comprava continuamente libri di scacchi. Non sugli scacchi, come qualcuno denuncia sprezzantemente. La mania di immettere nel mondo materiale che non illustra sequenze interminabili di varianti. Aveva comprato diversi libri della bellissima collana della Prisma (mi pare) sui campioni del mondo, due libri di studi di tattica, una monografia sulle aperture, il meraviglioso Chicco-Rosina e una mole di altri lavori. Aveva procurato anche alcuni lavori sugli scacchi, come La variante di Lüneburg, Il re degli scacchi, La tavola fiamminga. Ma fu in particolare il romanzo di fantascienza, La scacchiera di John Brunner a destare la sua curiosità e a determinare, per ciò, una curiosa vicenda. Enrico aveva sentito parlare di un libro leggendario di fantascienza nel quale in uno stato immaginario dell’America latina, l’Aguazul, ogni persona svolgeva, a sua insaputa, il ruolo di un pezzo degli scacchi. Per questa ragione, decise di andare a cercare il volume in libreria. Ma non era più in deposito e non si ristampava da qualche decennio. Così si spinse oltre il suo orizzonte usuale e andò dritto dritto in biblioteca ma nessuno aveva mai sentito parlare di questo tomo. Ne parlò con alcuni altri amici, appassionati di scacchi o di fantascienza, ma nessuno fu capace di dare soddisfazione alla sua curiosità, se non con qualche ulteriore aneddoto. Alla fine, decise di partecipare ad una nota trasmissione di Radio tre Fahrenheit, nella quale i lettori dei libri più impensabili venivano messi a contatto con persone che cercavano tomi introvabili. Mio padre provò. Fu un giorno strano, quello. Arrivò la telefonata dello speaker radio e, alla fine, un gentile signore inviò il libro a Enrico. I due ebbero modo di incontrarsi. Ciò avvenne nel 2007.

Aveva una famiglia, un lavoro e una marea di cose da sbrigare. Era una di quelle persone che incominciava ad angosciarsi a star ferma e che si intristiva a vedere il frigo vuoto. Ma in questo continuo dinamismo pratico gli scacchi venivano sempre più sacrificati. Non del tutto. Si diede anche al gioco per corrispondenza con alterne fortune. Ed è grazie al gentilissimo Pasquale Colucci, coadiuvato dal suo staff, che abbiamo l’unica partita conservata di Enrico Pili, partita che riporteremo più oltre e per la quale ringrazio vivamente Pasquale (anche a nome degli altri familiari di Enrico). Ad ogni modo, quando ancora si giocava con le cartoline e i computer non erano di molto aiuto (basti vedere la partita per rendersene conto), egli trovò ancora una volta modo di fare amicizia con il giocatore dall’altra parte, un ex brigatista rosso in prigione. Quante probabilità c’erano? Un uomo dentro a un carcere, dietro le sbarre, costretto all’isolamento, riusciva a spedire una cartolina oltre il muro, oltre le sbarre e trovare un altro uomo, disposto a scrivergli, a dialogare con lui. Le vie della vita sono davvero infinite, quelle del Signore sono finite da tempo (come recita il titolo di un film…;). In Italia lo sappiamo.

Enrico, talvolta, si ritrovava a portare il primo figlio al lavoro. E questo comportava dovergli far fare qualcosa. Come tanti padri prima di lui, e dopo di lui, si poneva il problema di trovargli un passatempo, per non disturbarlo troppo con l’ossessionante domanda “Babbo, quando andiamo?” Ma aveva provvidenzialmente già provveduto a insegnare a giocare a scacchi al pargolo, sicché il gioco era fatto: nel computer era installato il modernissimo Fritz 3, già più che in grado di far sentire un inetto proprio quel figlio che, comunque, non si era dimostrato un Capablanca, che, com’è noto, aveva sconfitto il padre in tenera età. Peccato.

Convinto, però, che magari qualche altro giovane Capa esistesse per il mondo, persuaso che la vita dell’uomo è priva di sostanza se non si condivide ciò che la vita offre di buono, Enrico prese la decisione di insegnare gli scacchi nella scuola di quel figlio incapace di battere Fritz 3, una scuola elementare. Non era una questione così semplice. Innanzi tutto, non esistevano i libri meravigliosi per apprendere come insegnare gli scacchi ai giovani e più giovani (lacuna che è stata recentemente colmata con A scuola con i Re). Né esistevano manuali didattici idonei ai più giovani, a differenza di oggi, giacché, grazie alle fatiche dell’amico Carlo Alberto Cavazzoni, disponiamo di lavori eccellenti. Ne esistevano, però, in lingua inglese, non pienamente padroneggiata da Enrico, che, comunque, si prese la briga di imparare caparbiamente grazie ai corsi Follow me e una buona dose di Beatles. Ad ogni modo, ordinò dei bellissimi libri, purtroppo perduti, in inglese. Aveva fatto comprare delle scacchiere in carta, con i pezzi in plastica che, grazie alla lungimiranza della scuola, furono accantonate non’appena Enrico terminò. Attività di insegnamento che durò per quattro anni. Nonostante non fosse né tenuto né pagato, né molto sostenuto da organizzazioni, egli non solo tenne i corsi di scacchi, ma organizzò le tanto temute partite di scacchi dal vivo, nel quale il figlio veniva costretto ad infilarsi un’imbarazzante calzamaglia bianca di cui ricorda ancora la scomodità. Né bastò affidargli il ruolo del cavallo, cavallo che dava matto (credo che si trattasse del matto di Legal), per non farlo borbottare sul fatto che egli non fosse il re. Ma Enrico non l’avrebbe mai fatto: la corona quel cavallo, se la voleva, se la sarebbe dovuta conquistare con i suoi mezzi, come quelle partite giocate che, se proprio avesse voluto vincere, se le sarebbe giocate sul serio.

Mossa dopo mossa, i tempi passavano, così le vicissitudini di una vita e Enrico abbandonò il lavoro per uno nuovo. E fu l’occasione per intraprendere una delle ultime sue grandi avventure: la scrittura. Nel frattempo, internet aveva iniziato a muovere i suoi primi pezzi, e Enrico si trovò, così, a confrontarsi con il nuovo mezzo: dal 2005 al 30.08.2010 giocò sull’indimenticato Scacchisti ben 11080 partite giungendo ad avere un punteggio ELO di Scacchisti di medio livello. Si critica tanto internet, ma un padre non avrebbe mai potuto giocare con il figlio una lampo serale senza di esso, se il figlio, per conclamate ragioni di studio e libertà, si trova a Siena o a Milano. Ogni tanto, infatti, capitava che tra i due ci fosse qualche accanita schermaglia, il cui livello emotivo è conosciuto da tutti i figli e da tutti i padri, rare partite in cui tutti hanno da perderci la faccia anche in caso di patta!

Fu nell’ultimo periodo che Enrico prese coscienza di tante cose tutte insieme. La prima delle quali fu che la società e la socialità, così come le concepiva lui, forse non erano mai esistite. E probabilmente non esisteranno mai. Non purtroppo per lui. Purtroppo per noi. Ma la vita è anche questo. Sicché iniziò ben presto ad accorgersi che il ruolo di una pagina bianca è ben più elevato di quanto possa apparire ad un uomo che ha avuto un rapporto con la cultura di ammirazione e contemplazione ma senza sporcarsi le mani producendola in prima persona. Come uno scacchista di primo livello non ha sempre grande dimestichezza con le difficoltà della didattica, così un uomo pratico ha sempre una predilezione per l’azione rispetto alla dottrina. Enrico stesso, infatti, riconosceva, durante la discussione di laurea triennale del figlio, che egli non aveva lo stesso amore del figlio per il ragionamento astratto. Ma se anche non l’avesse detto, non ce n’era bisogno. Lo si sapeva.

Se nella sua vita si dimenticò spesso di tante cose e persone, come tutti, d’altronde, degli scacchi non si scordò mai. Nelle sue opere gli scacchi si trovano di continuo, ora come metafora specifica, ora come aneddoto, ora come allegoria. Nel suo primo libro La quinta S, gli scacchi sono addirittura presenti in copertina (la cui foto stupenda gli fu suggerita dal figlio, allora abbonato fedele a Torre &Cavallo – Scacco!, si intitola “La caduta del Re” della fotografa Elena Barsotelli) e così nel retro, dove si legge: “Non si può giocare a scacchi contro chi gioca a poker. La scoperta dell’America”. Ma è senza dubbio nel suo giallo-noir, Prima che passi la notte, che l’elemento degli scacchi si innalza ad allegoria, in cui l’uomo è solo una pedina dell’ingranaggio della vita: “La città era come una scacchiera in bianco e nero, i pezzi, i personaggi del dramma, erano mossi da giocatori invisibili. Si sarebbe potuto rovesciare lo scopo del gioco: individuare, guardando i pezzi sulle case bianche o nere, chi li muoveva, i demiurghi che ti dicono dove andare, che cosa fare, come stare al mondo. Chi indovina per primo vince. Silvio Diaz non aveva capito bene che ruolo gli fosse stato assegnato ma una cosa sembrava certa: facendo una mossa sbagliata sbagliata sarebbe stato un povero pedone votato al sacrificio per la vittoria finale di un re sconosciuto”.2 Oltre all’idea, già presente in Brunner, che gli uomini sono pedine ignare di una partita a scacchi, viene inscenato il dramma di un uomo che deve vincere, anche giocando mosse inferiori. Dramma che solo un uomo meticoloso poteva vivere dentro di sé, riconoscendo, forse all’ultimo, che nella vita bisogna anche risolvere i problemi evitandoli o aggirandoli. Conoscenza ben presente a Sun Tzu, di cui Enrico riprenderà all’inverso per mostrare quanto il suo personaggio (ne LaQuinta S) avesse sbagliato: “A ripensarci, ha applicato male le regole del combattimento: ha creduto troppo nel motivo della lotta, ha scelto male i suoi alleati, non ha prestato la dovuta attenzione né al tempo né allo spazio e, a un certo punto, ha smesso di pianificare”. Sintomi, questi, di prese di coscienza ben superiori a quelle che si potrebbero sospettare ad una superficiale lettura. Come tanti prima e dopo di lui, pur essendo in grado di combattere, non aveva l’istinto della caccia o la cattiveria dell’uomo d’arme e preferiva riconoscere che la vita è soprattutto altro: pace, amore e ragione. Così, cercando di non combattere, si ritrovò a giocare delle partite difficilissime, che solo un uomo estremamente pacifico avrebbe preso la briga di sbrogliare.

Nell’ultimo periodo travagliato della sua esistenza, trovò il tempo per organizzare degli eventi a sfondo scacchistico. Nonostante tutto, non riusciva a rinunciare al contatto con le persone, con il più ampio mondo che si intende con la parola “società”. Egli era un animale sociale nel senso più puro e profondo, un residuo dell’ormai tramontata visione del mondo degli anni 60-70 del XX secolo nel quale, pur con tutte le sue contraddizioni, si riconosceva l’importanza dell’altro per il solo fatto di essere Uomo. Ma oggi questo non ci interessa più. L’uomo è tramontato, ma a differenza di quanto auspicava Nietzsche, l’uomo non si è superato ma al massimo è rimasto uguale. Nonostante 100.000 anni di evoluzione, siamo sempre quelle scimmie che preferiscono lottare per la pozza d’acqua del vicino, piuttosto che collaborare. Dell’uomo vogliamo al più le sue parole, possibilmente su internet, e il suo corpo. Possibilmente purificato dalle imperfezioni. In questo, dunque, Enrico era un animale obsoleto, vecchio, incapace di capire il mondo che lo circondava e, più che tutto, di riconoscersi in esso. Ma era troppo positivo, troppo ottimista metafisico, come si è detto, per dare importanza a simili dettagli. E fu grazie a questo suo ottimismo che organizzò una manifestazione in cui i circoli di scacchi di Siena e Cagliari si sfidarono l’uno contro l’altro in una magnifica cornice di cultura e scacchismo. Ma le note del destino stavano suonando.

La notte del giorno prima della sua morte, Enrico Pili giocò delle partite a scacchi. E doveva organizzare una nuova manifestazione a sfondo scacchistico. Non ce ne fu il tempo. Come non ci fu mai il tempo di prendere una categoria (almeno alla seconda ci sarebbe arrivato in scioltezza) o di vincere un torneo. Alle prime ore del 30 agosto del 2010 qualcosa è cambiato nel mondo. Anche se pochi se ne sono accorti.

Io sono ossessionato da due fatti. Il primo è quello di non capire cosa sia la morte. Non la capisco. L’ho anche scritto nel mio 2001, Filosofia negli scacchi, che Enrico tentò (parzialmente) invano di correggere. Non riesco a capire cosa significhi la morte. Il fatto è che io non riesco a immaginarla: se la immagino, penso a me che penso nel nulla. Ma sto ancora pensando. Questo non è l’annullamento totale. Sicché ci rinuncio. Ma la cosa non mi turba più di tanto. La mia vera ossessione è di perdere il mio passato. Continuamente cerco prove della mia esistenza nel passato e scopro che si cancellano con una rapidità disarmante. Che prove avete di essere vissuti il 14 agosto del 2013? E il primo marzo del 2009, e se vi chiedessi del 12 gennaio del 1987? Magari avete uno scontrino, una fotografia. Io ho scritto la mia storia tra il 2003 e il 2005 e mi ci sono volute 513 pagine e delle ricerche per capire cosa e perché era accaduto. Ma la gran parte delle cose accadute sono sparite per sempre, nessuno ve le ridarà più. Io mi attrezzo come posso: salvo dati continuamente, conservo informazioni dovunque e ricostruisco il mio passato ossessivamente passo dopo passo. Enrico Pili era convinto che per sopravvivere alla morte bisognasse lanciare un messaggio, perché sin tanto che qualcuno lo legge, il messaggio, e così il mittente, sopravvivono. Ed è per questo che io riporto il messaggio di colui che mi ha reso padrone di me stesso, Enrico Pili, mio padre. Io che mai avrei potuto averne un altro:

Nell’eccellente film d’animazione interpretato dai Beatles in versione cartoni animati Yellow Submarine – perché tutti viviamo in un sottomarino giallo che naviga in un tormentato oceano – il cattivo di turno è un mostro a forma di grosso guanto che vuole impedire al sottomarino di arrivare alla meta- In inglese guanto si dice GLOVE. Alla fine del film, i Beatles riescono a sconfiggere GLOVE facendo cadere la lettera G e arrivano a destinazione. Caduta la G rimane LOVE, AMORE, perché, come dice la canzone, All We need is love, tutto ciò di cui abbiamo bisogno è amore. Io ne ho dato tanto. Voi me ne avete dato tanto.

Grazie.3

separator4

1 Pili E., La Quinta S, Aipsa, Cagliari, 2005, p. 170.

2 Pili E., Prima che passi la notte, Scuola Sarda Editrice, Cagliari, 2009, p. 66.

3 Pili E., La quinta S, Aipsa, Cagliari, 2005, p. 353.

All you need is love 2

 

 

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32 Commenti a Enrico Pili, uno scacchista silenzioso

  1. avatar
    Giangiuseppe Pili 4 Settembre 2013 at 12:24

    In questa sede, desidero ringraziare il carissimo Martin Eden per la formattazione del testo e rinnovare i sentiti ringraziamenti a Pasquale Colucci e il suo staff per aver rintracciato l’unica partita attualmente disponibile su Enrico Pili. Un grazie di cuore a entrambi e a tutti coloro che, direttamente o indirettamente, hanno accompagnato mio padre nel difficile sentiero della vita.

    • avatar
      Martin Eden 4 Settembre 2013 at 21:08

      Sono io che debbo ringraziare te, Giangiuseppe, per questo ricordo stupendo di tuo papà e per l’affetto e la dedizione che dimostri in ogni occasione verso il nostro sito…

  2. avatar
    Enrico Cecchelli 4 Settembre 2013 at 14:25

    Bello, struggente e pieno di spunti di riflessione!
    Curiosamente credo sia giusto farti notare una
    incredibile coincidenza e quasi sovrapposizione
    con un mio articolo che Martin Eden dovrebbe in
    questi giorni approntare per Soloscacchi dove troverai
    citato lo stesso tema del “Miracolo degli scacchi” di
    cui parli a proposito del periodo militare ma che anche
    per Enrico, come per l’eroe del mio articolo, ha rappresentato
    il “fil rouge” della sua esistenza.
    Questa coincidenza mi ha sorpreso e ne lascio a te la valutazione
    o il semplice sorriderne.Un Ciao a te ed uno ad Enrico!

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      Giangiuseppe Pili 4 Settembre 2013 at 19:52

      Grazie! Sarò ben lieto, come già in altre occasioni, di leggere i tuoi eccellenti articoli. Tanto più in questo caso!

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      alfredo 5 Settembre 2013 at 09:39

      @ Enrico
      caro Enrico
      quando organizziamo?
      hai visto che l’ottimo Enrico è intervenuto su la canzone diFaber che avevo proposto?
      ma ovviamente non i tratta di plagio
      De Andrè aveva sempre detto di aver solo scritto su quella bellissima musica
      è impensabile che uno come de Andrè facesse un plagio simile
      era un ottimo conoscitore di musica anche classica e il suo meraviglioso disco tratto da Spoon River fu musicato da un giovae ma già bravissimo Piovani

      • avatar
        Enrico Cecchelli 5 Settembre 2013 at 10:14

        Alfredo sempre a disposizione!
        Fammi sapere quando capiti da queste parti
        ( puoi farti dare dalla redazione i miei recapiti)
        e ci facciamo una mangiata/suonata in Riviera, ovviamente
        con tutti coloro che volessero unirsi
        (visto che non ho più sentito nulla sul raduno nella capitale…;)
        Ciao

        • avatar
          alfredo 5 Settembre 2013 at 11:08

          l’incontro lo possiamo fare magari in un posto un po’ piu’ equidistante per tutti
          ne ho già parlato con Martin
          a presto e godiamoci questa
          (aspettandoci il godibilissimo appunto dell’amico Renato)
          PS per Renato : hai sentito Allevi che ha definito piu’ o meno Jovanotti il Beethoven dei nostri tempi?
          mi sembra un povero matto ipervalutato L’allevi. Jovanott è un simpatico ragazzo che ho conosciuto e il cui nonno giocava a scacchi

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            Renato Andreoli 5 Settembre 2013 at 13:38

            Qualcuno ha avuto il coraggio di criticare il presidente Napolitano per la nomina di Claudio Abbado a senatore a vita. Ma cosa vogliamo dire della nomina a cavaliere di Giovanni Allevi?
            L’immagine della standing ovation tributata all’Allevi dal presidente della Camera, dal presidente del Senato, dallo stesso presidente della Repubblica e dai parlamentari tutti dopo il concerto natalizio a palazzo Madama mi suscita soltanto la seguente, amara considerazione: povera Italia!

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              alfredo 5 Settembre 2013 at 15:44

              caro Renato
              sono ovviamente perfettamente d’accordo con te
              mi sembra una totale scemenza
              come quella di sgarbi quando defini’ i grasffiti al Leoncavallo ” la cappella sistina del XX secolo”
              allievi lo considero soloun prodotto ben confezionato
              tu sei d’accordo ?
              ho sentito due anni fa suonare l’argentina Argerich
              beh come paragonare Pelè a un rude pedatore dellre categorie dilettanti

              • avatar
                Renato Andreoli 5 Settembre 2013 at 16:29

                Non è tanto come suona, ma cosa suona: una pappettina dolciastra, caramellosa, appicicaticcia, omogeneizzata e rassicurante – e proprio per questo facilmente digeribile dalla gran massa consumatrice – di cui non mette conto nemmeno parlare.
                Nel suo genere è molto meglio Ludovico Einaudi, figlio dell’editore e nipote del presidente della Repubblica, il quale almeno non si dà arie da dio in terra.

                • avatar
                  alfredo 5 Settembre 2013 at 17:24

                  ed è anche un appassionato di scacch e discreto giocatore
                  Lo sapevi
                  ci deve essere una correlazione tra scacchi e musica
                  sarebbe interesante sudiarla con i nuovi mezzi che abbiamo a disposizione
                  non caso negli scacchi usiamo, quando vediamo una bella
                  parita “sinfonia , armonia , crescendo” e termini che si usano in musica . e uno dei nomi piu’ frequentementi usati per i suprercampioni come Capapa e Larsen è ” il Mozer degli Scacchi ”
                  Ma il Beethoven o il Bach chi puo’ essere?

            • avatar
              Doroteo Arango 6 Settembre 2013 at 01:35

              …ma sì facciamo Cavaliere anche Allevi!

              Un capo del governo che a 75 e passa anni pensa soprattutto a saltare la cavallina, il suo fido stalliere… ecco, forse è l’ippica il sogno irrealizzato degli italiani… 😉

  3. avatar
    Ivano E. Pollini 4 Settembre 2013 at 14:49

    Caro GianGiuseppe,

    quest’appassionata e commovente rievocazione di tuo padre era in te da molto tempo.

    Era ora di farla uscire e riviverla nella tua realtà attuale.

    Così doveva essere ❗

    Cari saluti

    Ivano

    • avatar
      Giangiuseppe Pili 4 Settembre 2013 at 19:51

      Un saluto a te, carissimo.
      Frutto di tre anni difficili e difficili riflessioni.
      Capire rimane l’unica arma contro l’ineffabilità del destino.

      • avatar
        alfredo 4 Settembre 2013 at 20:29

        ciao aforismatico Giangi uno di questi giorni ci facciamo una chiaccherata? un abbraccio Alfredo PS il tuo articolo è denso e commovente e d’altra parti sai la sincera stima che nutro per te ( io che mi reputo immune da manzoniamente da ” servo elogio quanto da volgare oltraggio” ) i tuoi pezzi sono pura estasi intellettuale !

  4. avatar
    alfredo 5 Settembre 2013 at 09:34

    caro Gianfi
    le persone che lasciano un cosi ‘ grande segno di amore e insegnmaneto non muoiono mai
    hai presente la novella celtica narrata da Proust?
    mio padre è vivo ma è come fosse stato sempre morto per me
    nonn so pe quale motivo il tuo scritto mi ha ricordato il libro ” un altare per la madre” di Camon
    concordo con te laicamente nel ” crede ut intellegas e l’intellege ut credere”
    con due dstitinzioni importanti
    sostituire il credere con ” capire”
    e soprattutto, per me , in maniera del tuto laico
    un abbraccio forte
    non sei e non sarai mai solo
    Alfie
    PS : interessante anche se non perfetta la partita

    • avatar
      Giangiuseppe Pili 5 Settembre 2013 at 10:43

      Sempre a disposizione.
      Si, la partita è tutt’altro che perfetta. Ma almeno è una buona vittoria!

  5. avatar
    alfredo 5 Settembre 2013 at 10:50

    “crede ut intelligas et intellige ut credas”
    Sant Agostino
    io laicamente sostuire il crede con il verbo capire
    ma penso che sia il senso profondo di tutto cio’ che dici .

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    Roberto Messa 5 Settembre 2013 at 22:16

    Scrivere del proprio padre è un’impresa ardua. Per un figlio maschio ancor più che scrivere della propria madre, credo. Giangi ha avuto il coraggio di farlo. Ai commenti che mi hanno preceduto non c’è nulla che io possa aggiungere, se non i piccoli frutti di una breve ricerca intorno alla fotografia citata: “La caduta del Re” di Elena Barsotelli.

    In Torre & Cavallo di maggio 2003 uscì un articoletto (corredato da due belle foto in bianco/nero) che recitava tra l’altro: “il Circolo Fotografico Egoart (www.egoart.it) in collaborazione con il Circolo Scacchistico Nimzowitsch di San Fermo della Battaglia ha indetto un Concorso Fotografico a tema scacchistico, per lavori in colore e bianco/nero. La premiazione del concorso, sponsorizzato tra gli altri da Torre & Cavallo Scacco! e da Le due Torri, si è svolta il 6 aprile in concomitanza con l’inizio del Campionato Provinciale di Scacchi di Como.” Segue la classifica delle foto e, a conclusione dell’articolo: “pubblicheremo altre meravigliose foto da questo concorso sulle copertine di Torre & Cavallo Scacco! dei prossimi mesi.”
    E così fu, infatti ho trovato la foto “La caduta del Re” di Elena Barsotelli sulla copertina di settembre 2003, poi vediamo se riesco a farla inserire in coda a questo commento.

    Qualcuno sostiene che il web sia il miglior contenitore culturale nella storia dell’umanità, dove tutto si può facilmente ritrovare e dove tutto si conserverà nei secoli, a differenza dei supporti fisici tradizionali (più dei grafiti e dei geroglifici incisi nella roccia e ancora leggibilissimi dopo millenni?) soggetti come sappiamo a usura e incuria. Fatto si è che il sito web menzionato nell’articolo oggi è un sito aziendale privato e del concorso io non ho saputo trovare alcuna traccia… se qualcuno più abile di me nel googolare riesce a trovare qualcosa è invitato a segnalarcelo. Così forse non sarà necessario che io invii alla redazione di Soloscacchi tutte le foto del concorso Egoart 2003 che – non senza fatica – ho ritrovato in un angolo ormai remoto di un mio hard-disk. Prima che sia troppo tardi…

  7. avatar
    Roberto Messa 6 Settembre 2013 at 01:22

    Inserita!

    La caduta del Re

    • avatar
      Giangiuseppe Pili 6 Settembre 2013 at 12:21

      Ringrazio il caro Roberto per le sue gentili parole.
      Più che la morte in sé stessa, di cui si parla spesso a sproposito, fu la perdita amara di tutto quello che è svanito con essa. Solo allora incominciai a capire il significato della parola “perdita”, quella che concettualmente domina molti romanzi di Conrad, il mio preferito scrittore. Che non è lo smarrimento di un oggetto o la rottura di un rapporto. Parlo della “perdita” pura e irrimediabile. Anche perché si sottovaluta il fatto che alla caduta di un re, anche i suoi pezzi si possono disgregare. Viceversa, alla caduta di un pezzo, i suoi pezzi rimangono fermi. “Scacco matto” infatti sta per “Hai perduto per sempre questa partita” e non l’avrai mai più. La rivincita, sempre che l’avrai, non è la stessa cosa.

  8. avatar
    alfredo 6 Settembre 2013 at 08:16

    molto bella .
    che possa avere un significato simbolico .
    presto , magari

  9. avatar
    alfredo 6 Settembre 2013 at 19:11

    caro Giangi
    al solito ho dimenticato a
    ” presto” volevo dire .
    anche Conrad è uno scrittore preferito e sicuramente conoscerai la sua frase
    ” la vita , una cosa regolata da ferree leggi per un ben misero fine”
    a Vasavia , dove vive Jas , vidi la casa in cui vissi e provai una profondissima emozione
    è sulla via principale , quella che porta al palazzo presidenziale .

  10. avatar
    Ivano E. Pollini 6 Settembre 2013 at 22:10

    Caro Giangiuseppe,

    pian piano ❓ si fa luce in me un pò di comprensione. ❗

    Questo mio messaggio si riallaccia alla dolorosa perdita di tuo padre, che ti ha fatto riflettere sul concetto di morte.

    Alla morte di mio padre ho pianto, all’età di 36 anni, come un bambino senza vergogna, e alla morte di mia madre, all’età di di 55 anni, sono quasi “impazzito” dal dolore e straparlavo senza sapere cosa dicevo per almeno 6 mesi…ho anche smesso di giocare a scacchi per circa 15 anni!

    Lo chiamano “elaborazione del lutto”…io urlavo e maledivo il mio destino.

    Poi, come dicono (quelli che sanno), “il tempo è galantuomo” e ti aiuta a capire e a normalizzarti.

    Leggo che Conrad è stato uno dei tuoi autori preferiti.

    La cosa mi colpisce perchè Conrad ha generato in me una “rivoluzione psicologica” durante la mia giovinezza, e adesso,a distanza di 40 anni, l’ho riletto (quasi)integralmente per tentare di capirlo in modo meno superficiale.

    Se nella tua “Scuola filosofica” c’è ancora un posto per me, potrei mandarti alcune mie riflessioni (in realtà un breve saggio)scaturite dalla rilettura di questo autore, che ha influenzato una parte della mia vita.

    Ricordiamoci che la la vita continua e può ancora darci qualcosa di bello…

    IEP

  11. avatar
    alfredo 6 Settembre 2013 at 22:30

    caro Ivano
    potresti mandarle anche a me ?
    come medico sono a contatto tutti i giorni con questo tema .
    anche se io vedo ” gli altri”
    mi fa piacere che Conrad sia tanto apprezzato .
    Un grandissimo scrittore

    • avatar
      Ivano E. Pollini 6 Settembre 2013 at 23:26

      Caro Alfredo,

      certamente lo farò, se ti fa piacere.

      Ma al momento non so come fare, perchè non conosco il tuo e-mail address.

      Ma se il piccolo saggio uscirà su “Scuola filosofica” di G. Pili, potrei “fare due buche con un colpo solo”… come si dice.

      O, forse, se Martin Eden è sempre interessato e disponibile, potrei perfino inviarlo a SoloScacchi…ammesso che il saggio possa interessare…

      Dunque, “NonSoloScacchi” … ❗

      Vedrò cosa fare appena avrò le idee più chiare 💡

      Cari saluti

      IEP

      • avatar
        alfredo 7 Settembre 2013 at 09:22

        caro Ivano
        chiedi la mia e mail a Martin .
        una buona giornata
        Alfredo

        • avatar
          Ivano E. Pollini 7 Settembre 2013 at 10:25

          Fatto ❗

          Buon Weekend 😀

          IEP

          • avatar
            alfredo 10 Settembre 2013 at 20:10

            ciao Ivano
            grazie
            aspetto allora
            vedo se riesco a pubblicare la foto della casa di Conrad a Varsavia
            buona serata
            PS hai notizie di Ramon
            Buona serata Ivano

            • avatar
              Ivano E. Pollini 11 Settembre 2013 at 08:00

              Ciao Alfredo!

              Per Conrad devi avere un po’ di pazienza. 😥

              Intanto tu trova belle foto su Conrad e tienle pronte per l’articolo. 😛

              Probabilmente lo inviero’ anche a Martin Eden. 😉

              Mandami pero’il tuo indirizzo e-mail se l’articolo lo vuoi ricevere personalmente. ❗ ❓

              Intanto, ti auguro una buona settimana.

              Bye

              IEP

              • avatar
                alfredo 11 Settembre 2013 at 09:44

                Ciao Ivano
                Martin Eden ha tutti i miei recapiti
                buona giornata!

  12. avatar
    Tamerlano 10 Settembre 2013 at 19:10

    Leggo adesso martedì 10 settembre 2013 ore 19.10, casualmente, e con un bel pò di ritardo le prime 13 righe (esattamente fino alla parola ‘sbreghi’;) e già mi è venuta voglia di dire: grazie di questo racconto!

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